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Se tu squarciassi i cieli e scendessi

Se tu squarciassi i cieli e scendessi

 

 



Raccolta di omelie delle domeniche e solennità dei tempi Forti e 2-9 del Tempo Ordinario dell’anno B fino alla solennità del Corpus Domini (2012).

  

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I cieli di Dio, tappezzati di nubi, sono irraggiungibili ai nostri sguardi, e lui rimane nascosto. Lui può squarciarli, in essi può farsi strada per arrivare a vedere la nostra miseria e usare la sua misericordia. È il nostro più grande desiderio incontrare il nostro Dio senza impedimenti; è nostra necessità che egli si avvicini a noi con il calore del suo immenso amore. Ogni domenica lo squarcio dei cieli si allarga per chi celebra Gesù risorto dai morti!

Don Vigilio Covi

Qui trovi le omelie per l’anno B dei tempi di Avvento, Natale, Quaresima e Pasqua e da 2 a 9 delle domeniche del Tempo Ordinario. Sono state scritte nel 2012 (festa della S.Famiglia nel 2003, T.N. 2 nel 2009, T.O. 8 e 9 nel 2006) per la parrocchia virtuale “Cinquepani”.
I due opuscoli già editi raccolgono le omelie per l’anno A.

01ª Domenica del T.A. - anno B

1ª lettura Is 63,16-17.19;64,1-7 dal Salmo 79 2ª lettura 1Cor 1,3-9 Vangelo Mc 13,33-37

“Se tu squarciassi i cieli e scendessi”! Queste parole potrebbero esprimere e riassumere tutti i sentimenti che si muovono nel cuore dei credenti, spettatori di gravi crisi e di situazioni peccaminose da parte del popolo. I peccati attirano gravi castighi su tutti e su ciascuno, o, se non piace la parola castigo, portano conseguenze che generano sofferenze tremende e morte. Di questo parlava ai suoi contemporanei il profeta Isaia, ma altrettanto possiamo dire noi oggi. Ovunque volgiamo lo sguardo diventiamo testimoni di gravi disobbedienze a Dio, datore di vita e fonte di fraternità. Vediamo dunque non solo omicidi e suicidi, ma anche la propaganda dell’aborto e delle divisioni familiari, ingiustizie palesi nei tribunali con corruzione dei giudici, inganni dei poveri con lo scopo di arricchire, furti e frodi a piccoli e grandi livelli, disprezzo degli uomini e delle donne nella loro sessualità, sfruttamento dei piccoli per il piacere degli adulti, e altre violenze di ogni tipo. Sono tutti peccati, e allo stesso tempo castighi, o sofferenze causate dai peccati. Quanto dice Isaia è applicabile ai nostri giorni. La situazione è talmente grave che nessuno sa come rimediare. L’unico rimedio può venire dall’alto: e il rimedio è la venuta stessa di Dio, il Dio della pace e della giustizia, il Dio che ama i piccoli e i poveri che confidano in lui.
“Se tu squarciassi i cieli e scendessi”! Dio deve venire per insegnare di nuovo agli uomini la via della giustizia e della pace, deve venire per perdonare le disobbedienze e per rimediare ai danni arrecati dai peccati. Se egli viene, la nostra situazione potrà rinnovarsi e noi potremo riprendere fiato, e amore alla vita.
Gesù nel vangelo ci assicura della sua venuta: Dio ama gli uomini e non li abbandona! Essi però devono stare attenti, essere pronti. Sarebbe un guaio se egli ritornando non trovasse nessuno pronto ad accoglierlo. Egli viene, ma chi se ne accorge? Non verrà in modo da imporsi, in modo da costringere gli uomini annullando il dono della libertà che ha loro donato. E come essere pronti? Il Signore suggerisce un modo semplice: ognuno ha ricevuto un compito, un servizio per gli altri; chi si dedica con generosità al servizio ricevuto, ecco, allora, quando egli verrà, non sarà trovato addormentato.
San Paolo gode del fatto che i cristiani, anche quelli della grande città di Corinto, tanto piena di peccati, hanno ricevuto molti carismi, molti doni da mettere a servizio gli uni degli altri. Questi doni, materiali e spirituali, se esercitati, terranno tutta la comunità e i singoli credenti vigilanti e pronti ad accogliere il Signore quando verrà. Da lui stesso poi verrà la forza della perseveranza per portare a termine il nostro compito qui sulla terra ed essere preparati per il cielo.

Iniziamo il tempo di Avvento del nuovo ciclo liturgico ascoltando queste esortazioni. Riconosciamo di aver bisogno continuo della venuta e della presenza del Signore. Siamo peccatori, e apparteniamo a un popolo di peccatori, abbiamo deviato dalla strada della verità e della comunione con Dio, abbiamo accumulato errori che impediscono ai nostri occhi di vedere e al nostro cuore di amare. Innalzeremo di continuo il grido del profeta: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi”! Ravviveremo il desiderio di incontrare di nuovo il nostro Dio per cambiare la nostra vita secondo i suoi insegnamenti. Ci prepariamo così all’incontro con lui, sia all’incontro della fine dei tempi, sia alla sua continua venuta in questo tempo che ancora ci mette alla prova. Ci prepariamo con desideri rinnovati e santi per vivere un Natale degno di colui che viene, in modo che egli si possa sentire accolto. La festa che faremo sarà per accogliere lui e non per continuare a coltivare il nostro egoismo e la nostra superficialità!
“Se tu squarciassi i cieli e scendessi”!

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02ª Domenica del T.A. - anno B

1ª lettura Is 40,1-5.9-11 dal Salmo 84 2ª lettura 2Pt 3,8-14 Vangelo Mc 1,1-8

San Pietro ci parla della venuta del giorno del Signore. E quel giorno vedrà la distruzione di tutto ciò su cui si posa la nostra sicurezza: “I cieli spariranno” e “la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta”. È un giorno che verrà quando il Signore vorrà: egli attende ancora, grazie alla sua magnanimità, per darci tempo, perché vuole che noi siamo trovati pronti, e quindi che ci possiamo pentire. I segni della prossimità di questo giorno continuano a farsi vedere e sentire; di quando in quando infatti alcuni eventi terrificanti ci ricordano questo avvertimento. L’apostolo non ci vuole spaventare con questo avvertimento, ma ci vuol dare un motivo in più per continuare il nostro impegno a condurre una vita santa. Noi sappiamo che questi eventi accadranno, e perciò ci impegniamo “nella santità della condotta e nelle preghiere”. Quando verrà il suo giorno, Dio ci deve trovare “in pace, senza colpa e senza macchia”.
L’impegno del credente a condurre una vita santa è l’esortazione del profeta Isaia a “preparare la via al Signore”. Egli viene davvero, viene portando il premio per coloro che lo attendono. Viene come un pastore che si cura delle sue pecore, viene per far godere agli uomini il fatto di essere stati perdonati dei loro peccati. Quando verrà? E come verrà?
La «venuta» di Dio per il giudizio e per la salvezza è un fatto concreto. Ecco, ne parla Giovanni quando battezza nel deserto. Giovanni ci aiuta ancora a prepararci ad accogliere il Salvatore che viene. Egli ci aiuta a vivere un Avvento forte e serio. In queste settimane ci disponiamo a ricominciare il cammino della fede, e lo ricominciamo con la “conversione per il perdono dei peccati”. Convertirci significa sostituire i nostri pensieri e i nostri desideri con quelli di Dio. I nostri pensieri e desideri, orientati alle cose che passano, ci allontanano dal cuore di Dio, che è solo amore. Dobbiamo accogliere invece i pensieri e desideri di Dio, del Padre: ciò significa iniziare a essere figli obbedienti. Da soli non riusciremo, perché è necessario mettere in noi uno spirito nuovo. Ciò avverrà quando sarà con noi il Figlio, che porta in sè lo Spirito di Dio. Egli ce lo donerà, ci rivestirà e ci riempirà di esso. Giovanni Battista vuole che ci rendiamo conto di essere peccatori, distanti dal cuore del Padre, e che con umiltà ci facciamo aiutare ad accogliere colui che viene. “Fate di tutto” ci dice San Paolo “perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia”.
Confessare i peccati e ricevere il perdono è ciò che ci deve occupare in queste settimane prima del Natale. Dove accoglieremo il Signore che viene? In un cuore egoista? In una casa colma di peccati? No, gli prepariamo un ambiente degno di lui. Prima di tutto vediamo se abbiamo di che chiedere perdono: disobbedienze alla sua parola, comportamenti egoistici, azioni, parole e pensieri che lui non può condividere. Non chiediamo perdono soltanto per ciò di cui la nostra coscienza ci rimprovera, ma per ciò di cui lui potrebbe rimproverarci. Il perdono lo chiediamo a lui nel profondo del nostro cuore, ma, perché sia vero e fruttuoso, lo chiediamo a lui anche manifestando il nostro peccato ad uno dei suoi ministri. Il popolo confessava i suoi peccati a Giovanni, noi li confessiamo, per convertirci, a coloro che Gesù stesso ha incaricato del compito di assicurare il suo perdono. Baderemo anzitutto che il nostro confessare i peccati non sia soltanto raccontare quel che abbiamo fatto desiderando il perdono, bensì desiderando di ricevere forza per cambiare e di aiutare anche altri, col nostra esempio; con il nostro peccato abbiamo scandalizzato molti altri, abbiamo ostacolato la nostra obbedienza a Dio. Gesù viene per immergerci nello Spirito Santo, per riempirci del suo Spirito. Noi liberiamo il nostro cuore del nostro peccato per accogliere la novità di vita che egli intende donarci.
La venuta del “Giorno del Signore” non ci spaventerà, ma ci riempirà di gioia! Se siamo pronti, col cuore libero dal male, sarà motivo di consolazione per noi e per tutti coloro che soffrono e piangono.

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08/12 - Immacolata Concezione della B.V. Maria

1ª lettura Gn 3,9-15.20 dal Salmo 97 2ª lettura Ef 1,3-6.11-12 Lc 1,26-38 Vangelo

È una grande festa quella di oggi: essa celebra la bellezza e la purezza della nostra Madre. Potremmo dire però che questa festa non celebra Maria, bensì la bontà e la misericordia di Dio per gli uomini, perché l’opera è tutta sua. Il Padre, in previsione dei meriti di Gesù e della sua santità, ha preparato per lui una donna fin dall’inizio libera da quel peccato in cui noi tutti ci troviamo.
Il peccato che chiamiamo «originale» potrebbe essere visto come una strada, quella che porta lontano da Dio. Adamo ha generato tutti i suoi figli e discendenti su questa strada. È la strada dell’egoismo, della ribellione, dell’individualismo. L’effetto dell’essere in questa situazione si rende evidente in ciascuno di noi: a volte inizia a manifestarsi già in tenera età con i capricci da bambini, altre volte più avanti con le prime ribellioni, non solo ai genitori, ma anche alla Parola di Dio e ai comandamenti più elementari della convivenza umana. Allora quel «peccato» comincia a diventare azioni e pensieri di cui diveniamo colpevoli. L’educazione cristiana, che ha il suo inizio e la sua forza nella grazia del Battesimo, ci abitua a rivolgerci al Padre per ritornare a lui. Ci accompagna Gesù, che ci riveste e riempie del suo santo Spirito. Egli ci riporta sulla strada dell’amore, di quell’amore che, non vivendo più per se stesso, è disposto ad offrirsi fino a soffrire la persecuzione e la morte.
Per dare al Figlio una degna accoglienza sulla terra, il Padre ha predisposto che la vergine Maria nascesse già sulla strada rivolta a lui. Per questo la chiamiamo Immacolata Concezione: è stata concepita nel grembo di sua madre senza quell’orientamento alla disobbedienza in cui ci troviamo noi. Gloria a Dio per questo! Con questo mistero noi proclamiamo la gratuità dell’amore di Dio Padre, la sua attenzione alla debolezza della nostra umanità, la sua misericordia per tutti noi.
Quando l’angelo ha preannunciato a Maria la maternità che le avrebbe sconvolto la vita e avrebbe cambiato tutti i suoi sogni e progetti, ella non si è rifiutata, nemmeno ha provato a resistere, come hanno resistito, almeno in un primo momento, i profeti. Pur presagendo la grandezza della missione che le veniva domandata e la difficoltà a portarla a compimento, reagisce con un’unica domanda: “Come avverrà questo?”. Questa domanda sta a dire semplicemente: che cosa devo fare perché ciò avvenga? In questo interrogativo rivolto all’angelo è già contenuto il suo sì, un sì pieno e disponibile che si preoccupa già di realizzare. Ella si vede piccola e povera, come di fatto era, e ritiene di dover fare qualcosa, ma non sa cosa! Lo chiede con umiltà e semplicità. Qui ci viene presentata la purezza del cuore di Maria, una purezza di cuore che le permette di dire con sicurezza: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”.
Noi oggi, aiutati dall’apostolo, benediciamo Dio Padre che si è premurato di benedirci. La sua prima benedizione piena ed eterna è proprio il mistero che stiamo celebrando. Il peccato è stato vinto ed annullato da Dio stesso alla concezione di colei che ci doveva portare il Salvatore del mondo. Questi continuerà l’amore del Padre donandoci la possibilità di chiedere perdono e di perdonarci tutte quelle colpe prodotte in noi dal peccato che ci mette alla prova tutti. In tal modo si è realizzata la promessa preannunziata fin dalle origini, dopo il peccato di Eva e di Adamo.
Contemplando Maria Immacolata ringraziamo il nostro Dio, perché in essa vediamo il suo amore fedele. Amando Maria, tutta pura e santa, amiamo il disegno di Dio di salvare tutti, e perciò non condanniamo nessuno e non portiamo odio contro nessuno. Supplicando Maria Immacolata chiediamo al Padre di liberare il nostro cuore da ogni peccato che ci disturba e crea disordine. Onorando Maria Immacolata ci offriamo a Dio Padre perché anche in noi continui la purificazione dell’umanità da ogni disobbedienza e da ogni idolatria.

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03ª Domenica del T.A. - anno B
1ª lettura Is 61,1-2.10-11 Salmo Lc 1,46-50.53-54 2ª lettura 1Ts 5,16-24 Vangelo Gv 1,6-8.19-28

Questa terza domenica di Avvento anticamente veniva chiamata “Domenica «Gaudete»”, perché il primo canto iniziava con questo invito alla gioia. Tutte le letture infatti chiamano alla gioia. Sembra quasi che la gioia di Dio voglia irrompere sulla terra e coinvolgerci tutti. La gioia di Dio è la gioia di chi sta per compiere senza ostacoli di sorta la sua opera più grande, più bella, quella con cui può manifestarsi pienamente. E infatti con la venuta di Gesù tra noi Dio manifesta la pienezza del suo amore, ci manifesta se stesso così com’è in realtà e non così come gli uomini se lo sono sempre immaginato. “Rallegratevi” perciò. La gioia di Dio è ancora più bella quando è partecipata dai suoi figli. Benché noi siamo ancora in attesa, ci rallegriamo, perché siamo certi che le promesse si compiranno. Mai infatti la Parola di Dio è rimasta fiato sprecato, mai egli ha lasciato cadere nel vuoto le sue parole.
Il brano con cui oggi Isaia introduce le letture è quella rivelazione che Gesù pronuncerà a Nazaret davanti ai suoi paesani. Noi sappiamo che egli ha risollevato gli oppressi, ha dato speranza e gioia e pace a molti, e perciò sappiamo che è proprio lui colui di cui Isaia parla: su di lui si è posato lo Spirito del Signore! Egli è venuto e noi perciò ci rallegriamo. Notizia più bella non c’è. Sappiamo però, per nostra esperienza, che il peccato continua a seminare distruzione e a diffondere sofferenza e lacrime tra gli uomini. Per questo continuiamo ad attendere una nuova manifestazione della presenza del Salvatore tra noi. Egli ci ha già salvati, ma noi siamo ancora sotto l’influsso del male che ci tenta e ci vince. Abbiamo bisogno ancora di salvezza. Lo sapeva San Paolo. Egli insiste ad esortarci alla gioia, perché siamo già salvati, ma insiste a dirci anche: “Non spegnete lo Spirito, … Astenetevi da ogni specie di male”. La nostra gioia potrebbe essere offuscata da noi stessi, dalle nostre azioni o dai nostri pensieri malvagi. Certamente il tener presente sempre che Gesù è in mezzo a noi, benché invisibile, e il godere di questo, ci rende più attenti e più forti nell’evitare il male e maggiormente generosi nel compiere le opere di Dio, cioè le opere del suo amore.
Giovanni Battista conosce Gesù e la sua superiorità, come superiorità di Dio su qualunque sua creatura, come superiorità del padrone rispetto al suo servo. Egli perciò, quando viene interrogato sulla propria identità, insiste a presentarsi come un nulla, come qualcuno insignificante. Egli non è importante, eppure il suo annuncio è necessario, è già principio di salvezza, perché egli indica la presenza di colui che salva, di colui di cui tutti gli uomini hanno bisogno. Egli sa di precedere colui che è destinato a donare agli uomini l’amore di Dio. Egli soltanto prepara il terreno dissodato perché chi semina possa seminare con frutto: infatti egli battezza con acqua per purificare, cosicché la novità e la pienezza di colui “che deve venire” possa essere accolta. A questo allude l’immagine da lui usata: “slegare il laccio del sandalo”. Era il segno con cui un uomo dichiarava di accogliere come moglie una vedova rifiutata dal parente che aveva il diritto di prenderla in moglie. La vedova ora è il popolo di Dio, popolo rimasto senza Sposo, perché Dio non ha più chi lo rappresenta nella sua verità di Padre amoroso. Questo è ciò che farà Gesù: egli sarà un vero Sposo che dona al popolo l’amore di Dio, amore fedele e completo. Giovanni non è degno di prendere il suo posto, e nemmeno sarebbe in grado di farlo. Per questo dice “a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo”.
Colui che realizza l’amore fedele e completo di Dio per noi è lo sposo, è il motivo della gioia vera e duratura. Egli è ora presente, ma viene ancora in quelle situazioni della nostra vita in cui finora non gli abbiamo permesso di entrare. Ci prepariamo alla sua venuta, ci prepariamo a ricevere la pienezza della gioia, e perciò iniziamo a cantare con Maria il canto della fede e della speranza: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore”!

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04ª Domenica del T.A. - anno B

1ª lettura 2Sam 7,1-5.8-12.14.16 dal Salmo 88 2ª lettura Rm 16,25-27 Vangelo Lc 1,26-38

San Paolo termina la lettera ai Romani con una solenne lode a Dio. Egli vede quasi, o senza quasi, un miracolo nel fatto che i credenti accolgano il vangelo, la bella notizia che riguarda Gesù Cristo. Basta che qualcuno l’annunci, e c’è chi è pronto a credere. Per lunghi secoli nessuno ha saputo nulla ed ora improvvisamente ci sono persone che aderiscono alla fede. La fede non è soltanto sapere una cosa invece di un’altra, ma è un’obbedienza. Chi crede ubbidisce a Gesù Cristo, inizia una vita nuova, entra nella Chiesa e in essa vive la vita del suo Signore, che continua ad essere l’Obbediente. È davvero opera di Dio, quindi un miracolo, che degli uomini, così inclinati all’indipendenza come sono, si mettano invece sulla strada dell’obbedienza, o meglio, dell’amore che ama ubbidendo. La lode dell’apostolo a Dio è pure la nostra lode per la sua sapienza e perché ci sorprende suscitando la fede nei peccatori.
Del resto tutto quello che Dio fa è una sorpresa. L’angelo che entra dalla “vergine promessa sposa” è la sorpresa delle sorprese. È vero che tutti erano in attesa, ma nessuno avrebbe mai immaginato che Dio avesse potuto scegliere una strada così umile e semplice e nascosta per mantenere e realizzare le sue promesse. Maria rimane più sorpresa di tutti. Il saluto che i profeti indirizzano al popolo intero è rivolto a lei sola. Con quel saluto i profeti annunciavano la notizia buona e bella, quella che avrebbe rallegrato e fatto esultare tutti: Dio sarebbe venuto a camminare col suo popolo, a stare con gli uomini per iniziare con loro il suo Regno. Maria rimane turbata: perché proprio a lei e solo a lei questo saluto? Certamente anche lei pensava come tutti: Dio ha bisogno di persone grandi, importanti, famose, capaci, per realizzare le sue grandi cose. E invece no: Dio sceglie i piccoli e i poveri, i deboli e gli ignoranti. Dio ha scelto lei per mandare nel mondo un Figlio, quello che realizzerà la profezia annunciata al grande re Davide. E l’angelo glielo dice. “Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”.
Maria si sente piccola, davvero piccola di fronte a questi grandi eventi. Anche Davide era piccolo, il più piccolo dei suoi fratelli, quando è stato scelto da Dio per mezzo di Samuele e consacrato re. E come Davide ha dovuto soffrire molto, essere perseguitato, lottare anche con se stesso per realizzare la promessa di Dio, così Maria pensa di dover fare chissà cosa, e lo chiede all’angelo. Gabriele però la tranquillizza: ella deve essere soltanto disponibile a lasciar agire la potenza di Dio. Non era successo così anche a Davide? Verso la fine della sua vita pensava di dover costruire un tempio per il suo Dio, un tempio degno di lui. Sembra bella l’idea e giusta: egli abita in una casa, anzi in una reggia, e l’arca di Dio ancora in una tenda. Anche il profeta ne rimane convinto. Ma non è questo il pensiero di Dio. A lui non interessano gli edifici, perché la sua presenza in essi è solo simbolica; a lui interessa invece essere presente tra gli uomini e per mezzo di loro. Ciò avverrà tramite uno della discendenza di Davide, che sarà vera gloria di Dio, perché ne porterà l’immagine perfetta. “Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio”: quel figlio ora è annunciato a Maria. Ella infatti è sposa di uno della casa di Davide, Giuseppe. Suo figlio sarà Figlio di Dio, figlio, e perciò obbediente. Egli cercherà di realizzare i disegni di Dio, che chiamerà «Padre». E i disegni di Dio riguardano la salvezza di tutto il popolo e di tutti i popoli, come hanno scritto i profeti. Per questo San Paolo si è rivolto anche ai Romani e si è fatto premura di annunciare il Vangelo a tutte le genti.
Maria ha iniziato la sua attesa, docile e umile. Si è offerta come “serva del Signore”, pronta a dedicare la vita alla realizzazione della Parola di Dio. Questo è l’atteggiamento che noi pure rinnoviamo oggi. Attendiamo di celebrare la festa del Natale, offrendoci a Dio per donare a Gesù i nostri anni, mesi, giorni e ore. Così egli potrà ancora avere una casa qui su questa terra, in mezzo agli uomini che noi incontriamo oggi e domani. La sua casa è la nostra presenza come persone obbedienti, persone che amano ascoltando e facendo la Parola di Dio, quella che Gesù stesso ci donerà.

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25/12 - NATALE DEL SIGNORE

Notte Isaia 9,1-3.5-6 Sal 95/96 Tito 2,11-14 Luca 2,1-14
Aurora Isaia 62,11-12 Sal 96/97 Tito 3,4-7 Luca 2,15-20
Giorno Isaia 52,7-10 Sal 97/98 Ebrei 1,1-6 Giovanni 1,1-18

Il profeta Isaia ci offre la sua gioia a tutt’e tre le Ss. Messe. È il “bambino nato per noi” il motivo di una gioia nuova e prorompente, gioia moltiplicata, che si propaga come un fuoco che avvolge tutti i popoli. Quel bambino raccoglie i titoli più belli, perché è lui che realizza quella pace che tutti gli uomini e tutti i popoli agognano da sempre senza vedere mai la fine delle guerre e dei pericoli. Egli è e sarà Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace! Gli uomini sono un pericolo l’uno per l’altro, fino a che non venga quel bambino a cambiare i cuori, a riempirli di gioia, a fare in modo che nessuno desideri null’altro che lui. Quando egli occupa un cuore d’uomo, quell’uomo non è più avido di denaro, non vuol più essere padrone di altri uomini, non si sente più soggiogato da nessun superbo, non è più rattristato da nessuna notizia, perché è lui la Notizia. Tutti i messaggeri fanno a gara a dare notizie, ma quella che distribuisce pace e gioia, consolazione e salute non riescono a donarla, nemmeno essi la conoscono. I messaggeri della Notizia che diffonde la gioia e la vita sono celesti, sono gli angeli, che iniziano il loro lavoro a Betlemme, nelle campagne, nella notte. Non ci aspettiamo che si facciano messaggeri di questa notizia di gioia gli uomini, quelli che si fanno grandi e ricchi con le notizie che diffondono. Non cercate perciò sul giornale e nemmeno sul telegiornale l’annuncio che viene dagli angeli. Volete essere allietati? Venite qui, dove cantano i messaggeri celesti. Fermatevi qui. Ritornate qui. Qui, dove la notizia è sempre fresca, nuova, forte, decisa. Qui quel bambino, che è un figlio dato per noi, rimane, qui continua ad accogliere e a farsi accogliere. Qui sua Madre lo presenta anche a te, come ai pastori. Qui sua Madre ti accoglie nel suo silenzio, perché i fatti diventino oggetto della tua riflessione e sostegno del tuo vivere. Maria ti presenta la sua fede, lasciandoti vedere quel Bambino che lei ha fasciato. La sua fede non è nascosta: gliela puoi leggere sul volto e puoi percepirne il peso guardando le sue mani. Maria ha creduto, come Elisabetta ha testimoniato. Ella ha preso sul serio la Parola dell’angelo, l’ha riconosciuta Parola di Dio, si è offerta per realizzarla, ed ora lei per prima è sorpresa al vederne il frutto.
Noi osserviamo il Bambino e siamo qui per il Bambino che ci viene presentato da Maria. Su di lui si concentra l’attenzione del cielo e della terra. Ora sono gli angeli e i pastori a rappresentare il mondo visibile e quello invisibile. I pastori affiancano gli angeli nel testimoniare il mistero di Dio. I pastori non lo meritano, ma… trovami tu qualcuno che lo meriti! Per la loro indegnità i pastori meritano maggiormente la nostra fiducia. Dato che sono quelli che stanno sempre fuori, fuori delle città e fuori del tempio, fuori dei discorsi dei sapienti e delle mire dei grandi, proprio per questo sono ritenuti vicini da quel Dio presso cui non c’è preferenza di sorta, anzi, che preferisce semmai quelli che gli altri evitano di incontrare. Essi non sapranno dire con parole eloquenti il mistero di cui sono testimoni, sarà invece la loro vita gioiosa a manifestarlo.
Il mistero di oggi è vita, è luce, è Parola, il mistero è un Uomo che inizia ora a vivere in una mangiatoia. Egli porta il cielo sulla terra, per questo è mistero. Vicino a lui non siamo più terrestri, siamo celesti anche noi, benché sempre peccatori. Per noi infatti è venuto. Per noi è luce, per noi è vita, per noi è grazia e verità. Oggi anche noi iniziamo ad essere mistero a noi stessi, se ci avviciniamo a lui. E se perseveriamo nello stare vicino a lui anche il mondo attorno a noi si trasforma. Non deleghiamo ad altri la trasformazione del mondo terribile che ci circonda. Noi diventiamo cielo sulla terra quando stiamo stretti a quel bambino che Maria ci presenta. Sarà per noi sofferenza e croce, ma vissute con gioia per distribuire attorno un po’ di luce e di pace, di consolazione e di perdono. Gloria del cielo e pace della terra saremo noi, noi con lui. Questo giorno non dev’essere una parentesi, ma un inizio vero. Per qualcuno la giornata di oggi è una parentesi nella quale si consola per la presenza in sè di un pochino di bontà, ma ha già calcolato che dopodomani tornerà ad essere lontano dal Bambino, come prima, ed eviterà di ascoltare la sua Parola e di farsi uno con i suoi fratelli. Non tu: tu vivi questo giorno come un inizio nuovo e continuerai ad amare e adorare, ascoltare e ubbidire quel Bambino che diventa Uomo.

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Sacra Famiglia anno B
Iª lettura Gn 15,1-6; 21,1-3 dal Salmo 104 IIª lettura Eb 11,8.11-12.17-19 Vangelo Lc 2,22-40

L’accento delle letture di oggi è posto sull’obbedienza della fede vissuta da Abramo e da Maria e Giuseppe. Abramo e Sara ricevettero una promessa da Dio, ma poi furono messi alla prova in un modo molto severo. Abramo fu più volte sul punto di dubitare della veridicità della Parola di Dio, e anche dopo aver avuto la dimostrazione che per Dio nulla è impossibile, ancora gli fu chiesto un gesto che ha dell’inverosimile. Egli era sicuro che Dio gli aveva chiesto di offrirgli in sacrificio quell’unico figlio che gli era stato promesso e accordato nella sua vecchiaia: obbediente, compì tutti i passi necessari per realizzare questa offerta.
Perché la Scrittura narra più volte questi episodi? Essi stanno alla base della nostra fede in Dio: Dio è Dio sì o no? La sua Parola è verità o inganno? Questi passi, o meglio, il comportamento di Abramo ha da dire qualcosa a noi oggi sul rapporto dei genitori verso i figli che arrivano o che non arrivano e sul rapporto degli sposi tra loro?
E l’obbedienza di Giuseppe e Maria alla Legge mosaica, grazie alla quale essi si recano al tempio di Gerusalemme, offre qualche suggerimento al modo con cui devono venire accolti oggi i nostri figli?
La Parola di Dio è per noi correzione e purificazione, sapienza, consiglio e orientamento, è indice per una strada di salvezza dell’individuo e della società intera.
I coniugi esprimono il loro amore reciproco nell’attesa dei figli. Se manca quest’attesa, il loro stesso amore è in pericolo, se non addirittura già mancante, impastato di egoismo. Il vero amore orienta ad amare insieme, a donarsi non l’uno all’altro, ma a fondersi per donarsi insieme ad altre persone, chiamandole alla vita!
Se il figlio non arriva, mentre si attende, devono disperarsi? Assolutamente no, dice Abramo con la sua fede. Se il figlio non arriva è segno che dobbiamo ancora rimanere rivolti a Dio: egli può avere dei disegni speciali, che non conosciamo. Se egli ci fa attendere, è segno che ci vuol preparare con una fede a tutta prova, per offrire al figlio un ambiente umile, colmo di fede perseverante.
Quando il figlio arriva, come va accolto? Abramo ci dice: è un dono della misericordia di Dio! Il figlio va accolto con la consapevolezza che non è frutto della nostra fatica, nè della nostra intelligenza, nemmeno della nostra capacità. Va accolto ringraziando. Va avvolto in fasce riscaldate di umiltà, di riconoscenza, di sicurezza basata sulla Parola di Dio. Va nutrito di speranza, illuminato dall’ascolto della Parola di Dio.
Il coniuge come va osservato? Sia Abramo che Giuseppe ci dicono: vediamo la sposa come strumento dell’amore di Dio, luogo dove si manifesta la sua tenerezza, la sua misericordia e onnipotenza. Sara e Maria ci dicono: godiamo della presenza dello sposo, soprattutto della fede con cui egli sostiene la nostra debolezza. Abramo e Sara si amano tenendo lo sguardo fisso su Dio, per fare la sua volontà. Giuseppe e Maria si amano offrendo il Figlio a Dio con tutto il cuore, impegnandosi a vivere per lui.
Simeone, che li incontra, li aiuta a vedere solo il Figlio, a non pensare a se stessi, anzi a offrirsi per portare con fortezza la sofferenza che un Figlio di Dio può seminare attorno a sè. Ci sarà senz’altro chi lo amerà e lo apprezzerà, come sta facendo lui in questo momento, ma ci sarà anche chi lo renderà oggetto di rifiuto e di odio. La sua sofferenza sarà condivisa dai genitori, che devono essere pronti anche a questo.
Noi oggi teniamo lo sguardo rivolto alla famiglia di Gesù, per trovare luce e forza nel vivere i nostri rapporti familiari. In essi ha molto peso il peccato di ciascuno. In molte famiglie la vita diventa impossibile, vita da albergo, vita da prigione, vita da ospedale, proprio perché il peccato rimane sovrano e nessuno pensa a metterlo al suo posto. Il posto del peccato sono le spalle di Gesù, agnello di Dio! Se lo teniamo noi pesa su tutta la famiglia, e la rende luogo di sofferenza. Dobbiamo renderci conto che Gesù ha donato il sacramento del perdono per rendere i luoghi dove viviamo insieme, luoghi di pace, di serenità, di esperienza dell’amore tenero e fiducioso. È importante il perdono reciproco in famiglia, tra gli sposi e tra i genitori e i figli, ma è ancora più fruttuoso il perdono del Signore nella Chiesa, per ricuperare la serenità e la capacità di amare portando un po’ della nostra croce. Molti pensano che gli psicologi possano sostituire i confessori: il perdono di Dio non può essere sostituito da qualche parola intelligente. Per questo il frutto dell’uno e dell’altro è decisamente diverso.
Ringraziamo oggi Dio Padre per la nostra famiglia, lo ringraziamo guardando gli esempi santi che egli ci pone innanzi: le famiglie dei suoi fedeli, come quella di Abramo e Sara, ma in particolare la santa famiglia di Maria e Giuseppe, che ci aiuta a mettere sempre Gesù al centro di ogni nostra azione, di ogni nostro desiderio, perché anche la nostra vita sia un dono, una benedizione per la società in cui viviamo, per diffondere in essa sapienza e amore.

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01/01 - Maria Santissima, Madre di Dio
Giornata della pace
Capodanno del calendario Gregoriano
1ª lettura Nm 6, 22-27 dal Salmo 66 2ª lettura Gal 4, 4-7 Vangelo Lc 2, 16-21

Oggi riceviamo la benedizione che gli Israeliti hanno ricevuto da Aronne. Una benedizione speciale, perché le parole sono dettate da Dio stesso. Questa è perciò il modello di tutte le benedizioni. Quante benedizioni riceviamo! Ogni volta che vado a Messa e ogni volta che partecipo ad un’azione liturgica ricevo una benedizione. Eppure quanto poco caso facciamo alle benedizioni ricevute! Siamo attenti più alle maledizioni, che ci spaventano, ci affliggono e distruggono nella nostra consapevolezza la grazia che abbiamo ricevuto dalle benedizioni.
Le benedizioni vengono da Dio, le maledizioni dal maligno. Possiamo stare tranquilli, anzi, fieri di aver ricevuto la benedizione di Dio e non essere mai spaventati da qualsiasi maledizione. Dio è più forte del maligno. Questi è stato vinto nella sua forza da Gesù nella sua debolezza. Da lui viene a noi ogni benedizione, anche durante tutto quest’anno che iniziamo. E come oggi Gesù, il benedicente, è in braccio a Maria, sua madre silenziosa, così sempre, aiutati da lei, riceviamo la pace e la forza dal Signore.
Maria è venerata in tutte le chiese e in tutte le case dei credenti. Questo è giusto e salutare, perché lei ce lo ha presentato bambino e a lei siamo stati affidati da lui morente in croce. Nei momenti della debolezza di Gesù, Maria è stata presente. Ecco perché la chiamiamo Madre di Dio: per questa sua presenza ai momenti in cui l’amore di Dio è stato maggiormente visibile nella nostra umanità. Madre di Dio, perché madre della presenza del suo amore tra noi. E Dio stesso gode che ognuno di noi accolga sua Madre in casa propria, come già il discepolo Giovanni. Siamo peccatori? Siamo indegni? Maria, senza vergognarsi, rimane accanto a noi per presentarci il Salvatore, colui che perdona, colui che ama proprio il peccatore per cui ha offerto la vita. Ella, per tutti quindi, anche per chi si sente escluso dagli uomini, diventa garanzia di quella benedizione che Dio vuole sia pronunciata sui suoi figli.
“Ti benedica il Signore e ti custodisca.
Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia.
Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”.
Benedetti, portiamo benedizione. Oggi, giorno di inizio dell’anno civile, siamo particolarmente attenti alla benedizione di Dio. Gli auguri non bastano, rischiamo di sentirli parole inutili, vuote, che non porteranno frutto. Se Dio stesso li fa suoi, allora valgono, perché avranno conseguenze benefiche. Mettiamo nelle mani di Dio i nostri desideri di bene per i nostri fratelli, per i parenti, per gli amici e per i nostri nemici. Proprio i nostri nemici dobbiamo oggi benedire, se nemici abbiamo. Noi di certo vogliamo essere in pace con tutti, anche se non tutti vogliono essere in pace con noi. Ebbene, anche su di loro facciamo piovere oggi la benedizione di Dio: è l’unico modo perché in noi la sua benedizione diventi pace.
Iniziamo l’anno nuovo con Maria, lo iniziamo nella pace. Certo, preghiamo per la pace nel mondo e benediciamo tutti i popoli, perché dalla pace del mondo viene anche il nostro benessere. Ma questa preghiera non potrà essere ascoltata e portare frutto se non cominciamo ad amare noi stessi i nostri nemici.
La benedizione che riceviamo oggi diventi nostra vita, vita nuova che sia benedizione per chiunque incontreremo. Facciamo sì che il nostro volto rifletta lo splendore dell’amore del Padre, e perciò consacriamo a lui ogni giorno un po’ di tempo. Se non ci sarà preghiera nelle nostre giornate, se non ci esponiamo ai raggi della luce che viene dal Padre e da Gesù, noi stessi non saremo benedizione per nessuno e non contribuiremo alla pace che desideriamo fiorisca nel mondo. Ci proponiamo perciò di fare come Maria: terremo nel cuore i fatti della vita di Gesù, li faremo rivivere in noi, per amare Gesù e col suo amore incontrare i fratelli.

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2ª domenica del Tempo di Natale - B
Iª lettura Sir 24,1-4.8-12 dal Salmo 147 IIª lettura Ef 1,3-6.15-18 Vangelo Gv 1,1-18

Leggendo la pagina odierna del libro del Siracide è facile andare con la mente al Signore Gesù! È lui “la sapienza”, cioè la Parola con cui il Padre ci vuol far conoscere e donare i segreti del suo amore. San Giovanni, nel suo Vangelo, usa il termine “Verbo” per trasmetterci lo stesso concetto. Questi segreti sono la sua “sapienza”, quella che esce dalla bocca di Dio e pianta la sua tenda in mezzo al popolo d’Israele. In questi giorni continuiamo a contemplare il presepio, che ci attrae perché ci manifesta la tenerezza e la misericordia di Dio, del Dio onnipotente, attraverso quel bambino silenzioso e bisognoso di tutto. E le letture di oggi vogliono aiutarci a non dimenticare che quel bambino è una Parola di Dio, anzi, “la” Parola di Dio per tutta l’umanità e per tutti i tempi. Quel Bambino rivela ai poveri e nasconde agli orgogliosi la sapienza di Dio, quella sapienza che è esaltata e ammirata da tutto il mondo, mentre si serve di un piccolo popolo per venire vicino a noi e per noi offrire a Dio il sacrificio a lui gradito!
L’inizio del vangelo secondo Giovanni sviluppa i concetti del Siracide. La Parola rivelatrice di Dio sta a fondamento di tutto, di tutta la creazione, e pone tutto il creato nella luce del movimento del Verbo che si protende verso il Padre. Tutte le creature ci vengono così presentate come frutto dell’amore del Padre per il Verbo e portatrici dell’amore che il Figlio restituisce al Padre! Dovunque ci giriamo troviamo i segni di Dio, anzi, del suo amore eterno. È triste perciò il fatto che l’amore di Dio, divenuto luce e vita degli uomini, non sia stato riconosciuto nè accolto dal mondo, quel mondo che avrebbe avuto tutte le possibilità per farlo. Solo qualcuno lo ha accolto.
Tra quei pochi siamo noi, che ci rallegriamo di essere chiamati figli di Dio! Lo siamo perché il Figlio, accolto da noi, ci rende partecipi del suo essere, in particolare del suo essere amore! Per questo San Paolo scrivendo agli Efesini dice che siamo stati scelti “per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità”. La carità, l’amore tipico di Dio, quell’amore che è santo e non si lascia fermare dall’ingratitudine nè dal disprezzo, è la caratteristica di chi accoglie Gesù, il distintivo dei cristiani, l’atteggiamento che fa da base e da fondamento a tutto il nostro essere ed agire. Noi possiamo vivere lo stesso amore di Dio perché “dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia”.
Queste rivelazioni di Dio non devono rimanere parole, ma si traducono in atteggiamenti nuovi della nostra vita. Cercheremo di coltivare quell’amore che abbiamo riscoperto dentro di noi in questi giorni davanti al Bambino, programmando ciò che è necessario: un costante contatto con le Sacre Scritture, un continuo riferimento ai Sacramenti e la partecipazione alla preghiera comunitaria della Chiesa. Questo è il nutrimento per le radici del nostro amore e della nostra capacità di amare. Per riuscire a perseverare ad amare dobbiamo sapere che siamo amati, e gustare l’amore che ci viene dato da Dio in molti modi! Questa è anche la fatica, il prezzo della nostra gioia. La bellezza del clima natalizio potrà così rimanere sempre presente, e noi saremo portatori di quell’affabilità e di quella letizia che oggi si vede dappertutto, ma che tra una settimana sparisce, quando verranno tolti gli addobbi luminosi dai poggioli e dalle finestre delle case!
Noi dobbiamo a tutti i costi continuare a diffondere attorno a noi la gioia, quella che deriva dal fatto che “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”! Comunicandoci questa certezza l’evangelista Giovanni ci rassicura e alimenta la nostra speranza. Il male che tenta di scoraggiarci e di opprimerci non ci può vincere: è con noi il Signore della vita, padrone dell’universo, con tutto il suo amore per ciascuno di noi, piccoli e peccatori. E l’Eucaristia che ora celebriamo ricordando la venuta nel mondo del Verbo eterno, ci annuncia ancora la sua risurrezione dai morti, quindi la sua vittoria definitiva da quel nemico che spaventa tutti, ma che lui è venuto a combattere. È risorto dai morti colui che è venuto a morire con noi: ci ha in tal modo liberato dalla paura della morte. Sapienza davvero grande e inimmaginabile quella di Dio, nella quale ci immergiamo amando il Bambino Gesù!
Con San Paolo benediciamo quindi il nostro Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. E continuiamo a rendere grazie per la fede in lui, fede che egli continua a donarci e con la quale ci sostiene!

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06/01 - Epifania del Signore
Giornata per l’Opera pontificia dell’Infanzia missionaria
1ª lettura Is 60,1-6 dal Salmo 71 2ª lettura Ef 3,2-3.5-6 Vangelo Mt 2,1-12

“Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere”. La vita di Gesù è la realizzazione delle profezie che hanno sostenuto la speranza di salvezza del popolo d’Israele lungo i secoli. Sostenendo la speranza esse hanno sostenuto anche la fede, quella fede che porta frutto di amore a Dio e agli uomini. Abbiamo sentito una delle profezie di Isaia, profezia realizzatasi continuamente nella vita di Gesù, ma che oggi si è manifestata in modo particolare. Il profeta parla di luce e di tenebra, tenebra che avvolge la terra e nella quale vivono e si muovono gli uomini, e luce che risplende e chiama a raccolta le genti. Chi vive nelle tenebre corre verso lo splendore della luce, perché là è la vita, là è gioia e possibilità di comunione reciproca. I rappresentanti dei popoli si muovono per adorare il bambino, un bambino regale. Che regalità è la sua? Egli non abita una reggia nè è conosciuto là dove si muovono i re che si ritengono importanti. Egli è rivestito di una regalità diversa da quella dei regnanti, una regalità che non ha nulla a che vedere con i sogni di Erode o con quelli dei suoi nemici.
I rappresentanti dei popoli sono chiamati Magi: essi seguono indicazioni strane, provenienti sì dal cielo, ma da quel cielo che spesso è nascosto dalle nubi. La loro ricerca è sincera, tanto sincera, che sono disposti ad umiliarsi a chiedere, a seguire indicazioni di altri, e poi a umiliarsi ancora per iniziare un cammino nel nascondimento. Noi sappiamo che Dio fa grazia agli umili e li incorona di vittoria, come dicono le Scritture. I Magi, personaggi degni di essere accolti dai re della terra, sono umili; accolgono i segni del cielo e si piegano davanti al bambino e a sua madre. Essi non disdegnano di affiancarsi ai pastori che adorano il piccolo, che nulla ha di maestoso, se non la sua piccolezza.
Ciò che maggiormente sorprende nella vicenda di questi personaggi è la gioia che essi provano nel vedere la stella che li precede nel cammino verso la casa dove abita il bambino con sua madre. La loro gioia è un segno prezioso: essa dimostra che quel bambino riempie il cuore dell’uomo, gli dà le risposte alle domande che continuamente si muovono nella sua mente, riempie i vuoti lasciati dai peccati propri e altrui. Quel bambino merita tutta l’attenzione e merita di tenere in mano la nostra vita. Egli, bambino, non riuscirà mai a mentire, come mente la brama di Erode e la paura dei saggi, non ingannerà coloro che si fidano di lui e a lui si affidano. A lui possiamo aprire gli scrigni per consegnargli i nostri tesori. Oro, incenso e mirra sono i simboli della nostra vita presente e futura: la ricchezza, la gloria, persino la nostra morte. Tutto sta bene nelle sue mani: la ricchezza, che nelle nostre mani produrrebbe prepotenze e guerre, le nostre ambizioni, causa di inimicizie e soprusi, la nostra morte, che ci spaventa e ci fa essere lupi per i nostri simili. L’oro nelle mani di Gesù diventa strumento di amore, pane per i poveri e lavoro per i giovani. L’incenso, che rappresenta la gloria, va dato a lui, che non spaventa nessuno e rallegra i cuori con la sua umiltà. La mirra, che indica la volontà dell’uomo di rimanere su questa terra allontanando la morte, deve appartenere a lui: se egli rimane qui sempre, noi possiamo andare in pace e rimettere la nostra anima a quel Dio cui lui si è offerto per noi.
Si è manifestato il mistero dell’amore di Dio. Oggi godono della sua luce tutti i popoli. È un mistero proclamato per la gioia di tutti, e non lo soffoca nemmeno l’invidia e la violenza del diavolo che si impadronisce dei cuori superbi. Anzi, anche i superbi, che vorrebbero stroncare la speranza e spegnere la gioia dei piccoli, anch’essi ne diventano inconsapevoli strumenti. Infatti Erode, nonostante la sua paura e il suo inganno, è stato prezioso strumento perché la ricerca dei Magi arrivasse a buon fine.
Noi pure seguiamo la luce che ci accompagna a Betlemme. Non importa il nome della stella che ci fa da guida: può essere il volto sereno di un bambino o la sofferenza di una mamma per il figlio, la serenità di un papà affidato al Padre oppure la fatica di uno sconosciuto che si impegna per chi soffre. Ogni luce ci fa arrivare ad adorare Gesù!

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Battesimo del Signore - B
1ª lettura Is 55, 1-11 dal Salmo Is 12 2ª lettura 1 Gv 5, 1-9 Vangelo Mc 1, 7-11

Il mistero che celebriamo oggi continua quella rivelazione del Figlio di Dio che hanno iniziato gli angeli a Betlemme. Come allora cielo e terra, cioè angeli e pastori, si sono uniti per dar gloria al Bambino, così oggi le parole di Giovanni preparano l’ascolto della voce che viene dall’alto, voce sconosciuta, ma che tutti capiscono da quale bocca viene, perché nessuno chiama un uomo figlio, se non il padre suo: se la voce viene dal cielo, è quella di Dio Padre. Giovanni poi parla di quel figlio come di uno forte, “più forte di me”: il riferimento alle profezie era chiaro per coloro che le udivano tutti i sabati. È forte colui che vince il nemico, e nemico dell’uomo è colui che riesce a farlo peccare, cioè a farlo allontanare da Dio. Viene colui che è forte, quindi l’unico che può vincere il peccato che ha già sottomesso l’uomo, tutti gli uomini, e ha tolto dal loro cuore la gioia e dalle loro relazioni la pace. L’abluzione con cui Giovanni asperge e bagna gli uomini è solo preparazione per l’opera che compirà lui: “battezzerà in Spirito Santo”. Egli agirà all’interno dei cuori, rendendoli da cuori di pietra “cuori di carne”, capaci di accogliere lo Spirito di Dio. Ancora i profeti fanno da sfondo a queste parole. Quando poi Gesù stesso esce dall’acqua del Giordano, dove è entrato con tutti i peccatori, avviene un doppio prodigio: su di lui scende lo Spirito e per tutti risuona la voce “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”. Anche queste parole sono eco di tutte le Scritture: la gioia di Dio si compie perché la sua volontà di salvezza finalmente si realizza. Gesù è il compimento dei disegni di Dio, il portatore del suo amore per gli uomini: infatti, entrando in quell’acqua che ha lavato tutti i peccatori, si carica del peso del loro peccato. Egli cambia la nostra vita: era solo e sempre una vita in attesa, ora diventa godimento, pace, gioia.
La gioia del Padre si riflette su tutte le sue creature. Anche se il male continua a farci soffrire, sappiamo che è stato vinto e che è qui colui che ci immerge nel calore dell’amore di Dio.
L’amore di Dio! Di esso continua a parlare Giovanni, l’evangelista. La sua prima lettera è un inno all’amore di Dio. È un amore che quasi ci mette in confusione, perché crea un cerchio che unisce tutto e tutti. Dio ci ama, e perciò amare significa rispondergli con amore, e chi ama Dio ama i fratelli, e per amarli deve osservare i comandamenti. Questi sono la dimostrazione dell’amore di Dio per gli uomini; l’amore poi, vincendo il nemico, genera la fede, e la fede posa il nostro sguardo sul Figlio di Dio, su Gesù. Questi è il dono più grande dell’amore di Dio per noi; tutto ce lo dimostra: “lo Spirito, l’acqua e il sangue” ci convincono che Gesù è tutto, tutto l’amore del Padre e tutto il necessario per la vita dei suoi figli. “Lo Spirito, l’acqua e il sangue” è come dire tutto ciò che forma la nostra vita. Quando siamo con Gesù tutto il nostro essere in tutte le sue componenti, corpo, anima e relazioni familiari e sociali, tutto si sente realizzato: lo dimostra la serenità e la gioia che percepiamo. Chi si è confessato dei suoi peccati e ha partecipato alle celebrazioni sa tutto questo e lo può confermare.
Dopo aver fatto questa esperienza non possiamo che accogliere l’invito che il Signore ci rivolge con le parole del profeta: “O voi tutti assetati, venite all'acqua, voi che non avete denaro, venite; comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l'orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete”. Le tentazioni continue ci portano lontano dalla fonte della vita, ci ingannano. Il pane che sazia e l’acqua che disseta, dono gratuito, sono rappresentati da colui che viene dalla discendenza di Davide, “costituito testimone fra i popoli, principe e sovrano sulle nazioni”. Egli è come noi in mezzo al Giordano, abbassato sotto la mano di Giovanni, ma, esaltato dalla voce del cielo, sta sopra di noi. Rinnoviamo la nostra volontà di ascoltarlo, di amarlo, di non abbandonarlo mai. La festa e la gioia del Natale non sarà una parentesi della nostra vita, ma una realtà stabile, un sostegno continuo a quell’amore che cambia il mondo.

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2ª domenica del T.O. - B
1ª lettura 1Sam 3,3-10.19 dal Salmo 39 2ª lettura 1Cor 6,13-15.17-20 Vangelo Gv 1,35-42

Samuele, con il suo triplice “Mi hai chiamato, eccomi!”, è il prototipo di ogni credente. Non c’è fede senza obbedienza, senza disponibilità pronta e generosa. Il cristiano non è cristiano se non risponde alla voce di Dio. Questi è il Padre che cerca sempre un rapporto con il figlio, con ogni suo figlio. La sua voce raggiunge il cuore di ogni credente che, se sveglio e non immerso del tutto e soltanto nelle realtà che passano, risponde: “Parla, perché il tuo servo ti ascolta”, come esclama il ragazzo Samuele quando scopre che non è un uomo che lo chiama, bensì Dio stesso. Egli risponde secondo l’istruzione ricevuta dal suo maestro Eli. Le parole del ragazzo sono accompagnate da gesti concreti: per tre volte si alza dal letto e corre al capezzale di Eli a chiedere quale servizio debba svolgere. La quarta volta, ubbidiente, risponde alla voce del Dio sconosciuto e invisibile. Samuele usa tutto il suo corpo per obbedire al suo Dio: orecchi, occhi, gambe, tutto. Non a caso quindi leggiamo oggi anche la pagina della lettera ai Corinzi in cui San Paolo ci istruisce sul valore del nostro corpo.
“Il corpo non è per l'impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo”. L’apostolo scrive ai cristiani di una città, in cui i vizi dell’uomo sono abitudine generale. Tra questi vizi hanno particolare sviluppo quelli sessuali. Prostituzione e perversione sono entrati a far parte della vita normale. I cristiani stessi, prima di arrivare alla fede, praticavano le stesse abitudini dei loro concittadini. Arrivati alla fede, devono ricordare di non appartenere più a quel mondo: essi sono uniti a Gesù Cristo. La loro unione al Signore ha conseguenze per ogni ambito della loro vita, anche per il comportamento sessuale. Essere uniti a Gesù significa essere diventati tempio dello Spirito Santo, e perciò ogni azione deve essere ispirata da lui ed essere testimonianza per Gesù. Anche la sessualità deve diventare uno dei modi che esprimono l’amore di Dio, quell’amore che egli ha deposto in noi tramite lo Spirito Santo. Dalla sessualità deve sparire ogni forma di egoismo, quindi la ricerca del piacere fine a se stesso, che è peccato e origine di nuovi peccati. La brama del piacere conduce a tutte le forme di perversione che distruggono la pace e la carità di chi le commette, oltre che la psiche di chi eventualmente le subisce. “State lontani dall’impurità!”, asserisce con forza San Paolo. Le forme più comuni di impurità, allora e oggi, erano e sono la fornicazione e l’adulterio, cioè rapporti sessuali con chiunque. Sembra che il mondo che ci circonda sia impregnato di un’atmosfera in cui la sessualità ha un posto preminente. Addirittura pare normale che gli impulsi sessuali debbano essere seguiti, accontentati in ogni modo, a tutte le età, in tutte le forme. Purtroppo anche i cristiani facilmente si abituano a questo pensare del mondo, tanto che i giovani delle famiglie cristiane non hanno la forza di professare la fede in cui sono cresciuti e seguono l’andazzo di chi disprezza la fede. E le sofferenze che ne seguono sono gravi, prolungate nel tempo e nelle generazioni. Comincia con l’accorgerti della tristezza del volto di quei giovani che non osservano il comandamento “Non fornicare”: la disubbidienza a Dio porta via la gioia dal loro cuore!
Noi dobbiamo essere saldi: per noi la Parola di Dio deve valere più delle nostre possibili valutazioni. “Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi. Infatti siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo!”.
Il nostro corpo deve glorificare Dio, deve cioè dare spazio al suo amore, che è puro, fedele, disinteressato. Il nostro corpo deve essere a disposizione di Dio per compiere la sua opera. Opera di Dio sono la creazione e la redenzione. Il nostro corpo coopera alla creazione quando dona la vita ad altri figli di Dio, donando loro la possibilità di sperimentare nella famiglia la bellezza e la bontà della paternità di Dio. Il nostro corpo coopera alla redenzione quando segue Gesù, lo ascolta e ubbidisce a lui. I due discepoli di Giovanni Battista che seguirono Gesù, hanno camminato dietro a lui e si sono fermati con lui. Tutto il loro essere, anima e corpo, lo hanno impegnato con Gesù e per lui. A lui obbedirono. A lui ubbidiamo anche noi, e come Samuele anche noi diciamo: “Parla, perché il tuo servo ti ascolta”. In questo mondo, vivendo controcorrente, con gioia diamo testimonianza alla verità della Parola di Dio e del suo amore.

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3ª Domenica del T.O. - B
Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani

1ª lettura Gio 3,1-5.10 dal Salmo 24 2ª lettura 1Cor 7,29-31 Vangelo Mc 1,14-20

La parola dominante nelle letture di oggi è la conversione. I Niniviti si sono convertiti dopo aver sentito le minacce di Giona. Gesù invita la popolazione della Galilea a convertirsi. San Paolo ci presenta alcuni ambiti in cui esercitarci nella conversione. Conversione! Una parola sempre nuova, perché invita al cambiamento, invita al cambiamento noi, che siamo portati a continuare le nostre abitudini, a far valere i nostri pensieri, ad attenderci soltanto dagli altri dei cambiamenti radicali.
La conversione che predicava Giona per ordine di Dio al popolo pagano della città di Ninive, nella lontana Mesopotamia, riguardava il cambiamento della loro condotta. Vivevano una “condotta malvagia”: non è specificato in cosa consistesse tale malvagità, e perciò possiamo immaginarci che le malvagità di allora fossero simili a quelle che fanno soffrire le società di oggi: ingiustizie, furti, depravazione sessuale, inganno, abbandono della famiglia e dei bambini, prepotenze e omicidi, e via di questo passo. Questi comportamenti portano alla rovina, rovina totale che viene poi vissuta come castigo di Dio. Il peccato, si sa, porta alla morte, arreca sofferenze sempre maggiori, e non solo a chi lo commette, ma a tutti, perché tutti siamo un’unità. I Niniviti presero sul serio le minacce di Giona, ammisero di essersi comportati iniquamente, si pentirono e fecero penitenza chiedendo a Dio perdono con digiuni e segni pubblici di conversione. Dio vide questo loro cambiamento: a Dio nulla sfugge, non solo il male, ma nemmeno i gesti di obbedienza. E a quel popolo vennero risparmiati i castighi.
Anche Gesù parla di conversione, ma sembra che per lui questa parola non significhi anzitutto e soltanto un cambiamento della condotta. Il cambiamento proposto da Gesù riguarda l’accoglienza del “vangelo” cioè della notizia che dà gioia a tutti. Convertitevi credendo al vangelo! Il popolo viveva in attesa del Messia, e, abituati com’erano ad attendere, si rassegnavano ad attendere sempre: l’arrivo del Messia promesso fino ad allora era stato procrastinato, e l’attesa sembrava fosse ormai l’unico atteggiamento possibile. La predicazione di Gesù annuncia che ora il popolo deve cambiare atteggiamento: il Messia è arrivato, non si deve più attenderlo, ma riconoscerlo presente, e quindi si può cominciare a vivere la gioia che finora era stata solo promessa.
San Paolo ci fa alcuni esempi di quella conversione che deve orientare i credenti. Dato che Gesù è presente, realmente presente, i credenti non si lasciano condizionare nè dalle persone nè dalle cose, e nemmeno dai fatti che succedono e generano sofferenza o gioia. La pienezza di vita che si sperimenta con la presenza di Gesù non è arricchita dagli affetti umani, e questi, per quanto sacri siano, come l’affetto della moglie, se vengono a mancare non la impoveriscono. Legami di amicizia e di parentela non possono intaccare la gioia del “vangelo”, la gioia che ci viene dal sapere che siamo amati da Dio in Cristo Gesù. Allo stesso modo i fatti che succedono, sia quelli che rallegrano che quelli che ci fanno soffrire, non possono influenzarci a tal punto da superare l’efficacia in noi dell’unico fatto determinante, che è la presenza del Dio con noi. L’uso dei beni di cui godiamo poi deve lasciarci indifferenti: le cose di cui possiamo disporre o quelle che ci vengono tolte non devono condizionarci. Noi siamo sempre e comunque gioiosi per un altro motivo: l’amore del Padre e la vita di Gesù con noi è il nostro sostegno e l’unico nostro vero interesse. Tutto il resto passa, tutto ha un termine.
Marco continua il racconto con la chiamata e la risposta dei primi quattro discepoli. Questi hanno vissuto la loro conversione lasciando le loro cose importanti perché ne hanno visto una più importante. Hanno lasciato le reti, cioè il lavoro, o il padre con i garzoni, cioè i loro affetti familiari e impegni sociali, perché Gesù è diventato più forte in loro: Gesù è la Buona Notizia che non solo rallegra chi la riceve, ma genera in essi il desiderio e la volontà di passarla ad altri, in mille modi: con parole, con azioni, con una vita nuova, libera da se stessi!
Stiamo pregando per l’unità dei cristiani: essi saranno uniti se avranno come unico interesse la gloria di Gesù. Facciamo in modo che la nostra preghiera sia una lode di lui con il desiderio che egli sia il primo in ogni cuore e in ogni comunità cristiana!

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4ª domenica del T.O. - B
1ª lettura Dt 18,15-20 dal Salmo 94 2ª lettura 1Cor 7,32-35 Vangelo Mc 1,21-28

A San Paolo preme che i cristiani restino “fedeli al Signore, senza deviazioni”. Quali potrebbero essere le deviazioni? Egli intravede la possibilità di deviare dalla fede a causa delle preoccupazioni che attanagliano uomini e donne. L’uomo è attento a come piacere alla donna, la donna a come piacere al marito, e così l’uno e l’altro rischiano di dimenticare di occuparsi come piacere al Signore. L’apostolo non vuole certo impedire che gli uomini si sposino, ma propone anche il suo esempio: egli è rimasto celibe per dedicarsi del tutto al servizio del vangelo. Questo suo esempio va tenuto presente quando si deve decidere la propria vita. Certamente c’è anche la possibilità che marito e moglie si accordino per aiutarsi a piacere al Signore come famiglia unita e santa, piccola Chiesa, luogo di preghiera e di obbedienza a Dio. Noi ringraziamo il Signore per il fatto che sono numerose le famiglie che dedicano a lui tempo ed energie per mettersi a disposizione del suo regno nella Chiesa e per questo si pongono in ascolto della Parola di Dio.
Ascoltare Dio! È possibile ascoltare Dio? In che modo? A queste domande intendono rispondere la prima lettura e il brano del vangelo. Il popolo ebraico aveva paura ad ascoltare Dio: pensavano che egli dovesse esprimersi attraverso grandi e paurosi eventi, come tuoni, terremoto e fuoco. Per questo il popolo aveva chiesto a Dio di tacere, ma Dio non può tacere, proprio per amore del popolo stesso. Egli vuole fargli giungere il suo amore e quindi le sue istruzioni per le varie situazioni che incontra nel cammino in questo mondo. Egli, tenendo conto della paura del popolo, non vuole spaventarlo, e perciò sceglie, per parlare, un metodo semplice, umile, ma che richiede all’uomo umiltà e fede: “Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò”. Il metodo scelto da Dio per incontrare l’uomo è davvero semplice e umile e chiaro. L’uomo conosce la voce dell’uomo, mentre le voci degli angeli e quelle degli altri elementi del creato possono venire fraintese o interpretate da ciascuno a proprio vantaggio. La voce dell’uomo invece è da tutti ugualmente percepibile e le parole dell’uomo non hanno bisogno di grandi interpretazioni. Dio metterà parole d’uomo in bocca ad un uomo. Questi è chiamato profeta, perché incaricato di parlare al posto di Dio, e quindi dovrà essere ascoltato con attenzione e obbedienza. Chi sarà questo profeta? Ogni tempo ha avuto il suo, ma Dio ne promette uno sicuro e stabile.
A questa necessità e a questa domanda risponde il vangelo.
L’insegnamento di Gesù lascia tutti stupiti. Nessuno ha mai parlato con “autorità” come lui, cioè con parole che rispondono alle esigenze di verità del cuore. La sua voce svela persino la presenza degli spiriti impuri, quegli spiriti che vogliono dominare sugli altri e far tacere Dio, e li allontana. Gesù non allontana l’uomo che parla contro di lui, ma allontana da quell’uomo lo spirito che lo rende nemico di Dio e nemico suo. Questo spirito avrebbe voluto impedire a Gesù di parlare, di insegnare, di manifestarsi come il profeta di Dio, e avrebbe voluto impedire agli uomini di ascoltarlo. Questo spirito, proprio con la sua inimicizia, rivela che colui che parla, cioè Gesù, è il portatore di una parola nuova, esigente, una parola sentita da tutti come rispondente alle vere necessità del cuore umano. Per ingannare, quello spirito rivela persino l’identità di Gesù, ma lo fa con orgoglio e superbia, vantandosi della sua conoscenza: “Io so chi tu sei”! Gesù lo fa tacere e gli intima di andarsene dall’uomo. L’orgoglio e la vanagloria, benché affermino verità sacrosante, sono menzogna: le verità pronunciate dall’orgoglio e dalla vanagloria non portano con sè amore, non rivelano la pienezza del cuore di Dio, e perciò non avvicinano Dio all’uomo, anzi, glielo fanno percepire come nemico. Gesù impedisce che tale spirito continui a parlare e disturbare, perché è davvero lui colui che ci offre la Parola del Padre, è lui che ci parla con l’autorità dell’amore divino, perfetto, semplice e umile. È Gesù che vogliamo ascoltare per ascoltare Dio e raggiungere quindi quella pienezza di vita che l’amore del Padre vuole farci godere e far risplendere in noi.

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5ª domenica del T.O. - B
1ª lettura Gb 7,1-4.6-7 dal Salmo 146 2ª lettura 1Cor 9,16-19.22-23 Vangelo Mc 1,29-39
in Italia: giornata della vita

“Se mi corico dico: «Quando mi alzerò? … I miei giorni… svaniscono senza un filo di speranza»”. Sono osservazioni che esprimono una situazione quasi di depressione, di stanchezza, di sfiducia. Talora ci accorgiamo che quello che facciamo, tutta la nostra fatica, è inutile, non soddisfa le aspirazioni più profonde del nostro cuore. È la domanda che si pone Giobbe, amareggiato dalle sue disavventure. Privato di tutti i suoi beni e dei suoi figli, privato persino della salute, egli comincia ad accorgersi che non si può e non si deve mettere la speranza nelle cose che passano, nemmeno in quelle belle e buone, nemmeno nei doni di Dio. La nostra vita stessa dev’essere posta nelle mani di Dio, e in lui solo noi dobbiamo cercare il senso di tutto, del vivere e dell’agire.
Vediamo che anche Gesù, dopo aver guarito molti dai loro mali, dopo aver compiuto quindi un gran bene, si ritira in preghiera, nel silenzio, nella solitudine. E là prega, si intrattiene col Padre, e certamente si interroga. A che serve aver guarito la suocera di Simone, aver guarito molti malati e aver liberato gli oppressi da spiriti immondi? A che serve? Nel silenzio prolungato Gesù trova la risposta. Agli uomini non serve anzitutto la guarigione dalle malattie, nemmeno la liberazione dagli spiriti che rende loro difficile la vita e la convivenza. Agli uomini serve udire la Parola, la Parola di Dio. Essi non sono uomini pienamente realizzati fino a che non entrano in relazione con il loro Padre. Hanno tutti bisogno, anche quelli che non sono malati, anche quelli che non sono oppressi da spiriti immondi, hanno tutti bisogno di udire la Parola di colui che li ama. “Se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa”, dice un salmo! Chi non riceve la Parola di Dio è come morto. La Parola è vita, è pane che nutre, è acqua viva che disseta, è luce che orienta, è salvezza. Gesù ha compreso che deve andare là dove ancora non ha potuto donare la sua Parola, e porta anche i suoi discepoli là dove la gente possa ascoltare l’annuncio del regno di Dio. Sono importanti le guarigioni, necessarie le liberazioni, ma più importante di tutto è ricevere l’amore di Dio sotto forma di parola, per potergli anche rispondere. È grazie alla sua Parola accolta che fuggono i demoni e non ritornano, e soprattutto è grazie alla sua Parola che ogni cuore si apre ad accogliere lo Spirito del Padre e comincia a star bene.
L’apostolo San Paolo ha compreso questa necessità e urgenza. Egli ci fa conoscere e vuole trasmetterci tutta la sua passione per la predicazione del vangelo. E, purché il vangelo sia accolto come un dono, egli rinuncia ad ogni ricompensa umana. Il suo lavoro è volontario: è faticoso, ma compiuto con gioia, senza pensare a un qualche guadagno terreno. Anzi, purché il suo annuncio venga ricevuto senza difficoltà, egli si fa “tutto per tutti”, si mette al di sotto di tutti, diventa servo di tutti, per salvare qualcuno. Egli sa che la salvezza di ogni singola persona passa dall’ascolto del vangelo.
Oggi stiamo parlando di «nuova evangelizzazione»: perché? Vediamo che bambini e adulti, famiglie intere, giovani uomini e donne, vivono incapaci di dare un senso alla propria esistenza, alla propria fatica. Li vediamo sofferenti, che disprezzano la vita fino a sopprimerla, o la orientano su strade di morte, li vediamo incapaci di gioire e di far festa. Vediamo folle farsi adoratrici di idoli vani, che non potranno mai soddisfare la fame e la sete di eternità e di comunione. Vediamo persone piangere per la mancanza di cose inutili o persino dannose. Le vediamo innamorarsi di realtà che le lascerà deluse. Noi sappiamo che questo avviene perché non conoscono la buona notizia, non conoscono il vangelo, non hanno Gesù nel cuore.
È nostro compito aiutare tutti e ciascuno a trovare quel nome nel quale possono essere salvati. Nostro compito di battezzati è dare un sorso d’acqua viva a chi ha sete, cioè dare un po’ di conoscenza di Gesù a chi riceve solo l’aceto di parole vuote. Nostro compito: dico nostro, non dei sacerdoti, ma della Chiesa. Chiunque ami Gesù desidera farlo conoscere e farlo amare!

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6ª domenica del T.O. - B
1ª lettura Lv 13,1-2.45-46 dal Salmo 31 2ª lettura 1Cor 10,31 - 11,1 Vangelo Mc 1,40-45

L’uomo può ammalarsi a tal punto da diventare insopportabile agli altri uomini ed essere da loro escluso dai luoghi della loro vita. È il caso in cui vennero a trovarsi i sospettati di lebbra nel popolo d’Israele che attraversava il deserto dietro a Mosè. Essi stessi dovevano preoccuparsi che gli altri rimanessero distanti: si sarebbero altrimenti contaminati divenendo a loro volta immondi: si sarebbero preclusi la possibilità di partecipare al culto del popolo. Questa regola è entrata a far parte della Legge, valida nei secoli. Ma ecco che, improvvisamente, davanti a Gesù si trova uno di questi lebbrosi, in ginocchio, con parole supplichevoli. Quest’uomo non ha ubbidito alla sua regola: invece di avvisare Gesù di starsene lontano, gli si è avvicinato. Ha pensato che, da quanto aveva saputo di quel Maestro, egli fosse superiore alla Legge, anzi, superiore alla lebbra stessa. “Se vuoi, puoi purificarmi”: questa è la parola con cui l’uomo, escluso dalla convivenza umana, tenta di ricattare Gesù. È come avesse detto: «Tu hai la capacità. Vediamo se sei davvero buono come dicono. Per te è facile guarirmi. Se non lo fai non sei compassionevole». E infatti Gesù ha compassione: in lui ha il sopravvento l’amore di Dio per l’uomo in cui ha avuto il sopravvento la conseguenza del peccato entrato nell’umanità.
Sì, la malattia è un male che, come ogni altro male, è entrato nell’umanità a causa del disordine causato dalla disobbedienza degli uomini. Spesso il malato porta le conseguenze del peccato di altri, di numerose generazioni, di una società intera. Talora egli porta il peso delle conseguenze del proprio peccato, ma anche in questo caso la sua debolezza nel resistere alla tentazione è dovuta al peccato di tutti.
Gesù ha compassione: la sua compassione non raggiunge solo quell’uomo, ma la famiglia sua, la parentela, tutta la società. Noi stessi oggi ci sentiamo raggiunti dalla compassione di Gesù. Egli, senza tema di essere contaminato tanto da doversi ritenere immondo, tocca quel lebbroso. Il tocco della sua mano, accompagnato dalla Parola della sua bocca, realizza ciò che nessuno mai si sarebbe immaginato. Il lebbroso è guarito e restituito perciò all’umanità. È avvenuto un prodigio paragonabile alla risurrezione dai morti: nessuno, se non il potere di Dio creatore, avrebbe potuto compiere tale azione. In questo modo Gesù potrebbe essere riconosciuto, se gli occhi e il cuore dei presenti fossero pronti e vigili e aperti. Ma questo è un altro miracolo che dev’essere chiesto con umiltà. Lo stesso lebbroso guarito non riesce ad obbedire a Gesù, che lo rimanda a casa con l’ordine di non dire nulla a nessuno, se non al sacerdote che aveva l’incarico di verificare l’avvenuta guarigione e accettare l’offerta per la sua purificazione.
La gioia per l’improvvisa guarigione rende il lebbroso sordo alla parola di Gesù. Egli è contento d’essere guarito e non di avere incontrato e conosciuto il Messia di Dio. Questa dovrebbe essere la sua gioia più grande, ma invece il suo cuore e la sua mente sono dominati dalla gioia più piccola, quella passeggera della salute riacquistata. Egli va dicendo a tutti quel che è successo: Gesù così deve osservare la regola dell’impurità e starsene fuori dai villaggi per alcuni giorni: tutti infatti sanno che egli ha avuto contatto con il lebbroso.
L’umiltà di Gesù ottiene il risultato che la gente corre da lui. Egli non entra nei villaggi, ma la gente esce da essi per incontrarlo. E questo è un grande vantaggio: incontrare Gesù lontano dalle occupazioni quotidiane ci rende più attenti a lui e più liberi nell’accogliere la sua Parola. Per questo è sempre valido e prezioso l’invito a vivere delle ore o delle giornate di ascolto di Dio in luoghi o case distanti dalle normali occupazioni e dalle solite distrazioni. Ogni diocesi infatti mette a disposizione dei fedeli delle case ove ritirarsi nel silenzio e nella preghiera: qui essi possono incontrare Gesù e ascoltarlo senza il disturbo delle voci abituali e delle normali occupazioni che condizionano l’attenzione interiore e la capacità di decidersi per lui.
San Paolo ci incoraggia: “Sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio”. Il pensiero di far tutto per la gloria di Dio ci libera dall’attrazione al peccato, quella lebbra che insiste nell’allontanarci da Dio e dai fratelli. Gesù solo può liberarcene: cercheremo di stare con lui, vigilando che nulla ci distragga dal godere la sua presenza in noi e nella sua Chiesa.

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7ª domenica del T.O. - B
1ª lettura Is 43,18-19.21-22.24-25 dal Salmo 40 2ª lettura 2Cor 1,18-22 Vangelo Mc 2,1-12

La liturgia di oggi è un canto all’amore di Dio! Non riusciamo a immaginare quanto grande esso sia. Isaia ce lo assicura svelandoci le intenzioni di Dio: egli sa che il suo popolo è ribelle, tanto da stancarsi persino della sua bontà. È un popolo che opera iniquità, ma Dio è e rimane con fedeltà il suo Dio. Egli perciò vuole cominciare tutto daccapo: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia…”. Una cosa nuova? Sì, proprio nuova: non vuole nemmeno ricordare i peccati del popolo, li vuole cancellare. Il suo amore supera ogni previsione: Dio cancella i peccati senza esserne richiesto. Dio ama con fedeltà: la sua fedeltà è stabile, non viene rotta nemmeno dal peccato degli uomini. San Paolo ce lo ripete con altre parole. Il Figlio di Dio è il sì del Padre, un sì che assicura con certezza che il suo amore non viene meno. Gesù è l’amore di Dio per noi peccatori e, ancor più, il suo Spirito in noi ne è garanzia.
Tutto questo viene realizzato e narrato con il fatto che l’evangelista oggi racconta. Gesù, guarito il lebbroso, è stato costretto a rimanere fuori dei villaggi, ma ora, dopo alcuni giorni, rientra a Cafarnao. La gente lo raggiunge nella casa, da lui scelta come rifugio, e occupa tutto lo spazio interno ed esterno. “Egli annunciava loro la Parola”: l’evangelista non ritiene necessario dirci cosa annunciasse Gesù. Quello che avviene però è degno di nota, perché inconsueto dall’inizio alla fine. Gli vogliono portare un malato, anzi, un paralitico, uno che non può camminare. Il motivo lo possiamo immaginare: dato che egli aveva già guarito molti, c’è la certezza che può guarire anche questi. La folla presente è di ostacolo al loro intento, ma non riesce a smuovere la loro fede: salgono sul tetto e praticano un’apertura proprio sopra la stanza dove si trova Gesù. Quando Gesù si trova davanti il paralitico calato così … sfacciatamente davanti a lui… che cosa vede? Vede la loro fede e vede i peccati di quell’uomo. La fede dei portatori la vediamo anche noi, noi però non riusciamo a vedere i peccati dell’uomo paralizzato. Quali peccati ha visto Gesù? È poco importante, perché noi sappiamo quali sono i nostri peccati, quelli che egli deve perdonare a noi, quando ci avvicineremo a lui con fede. Vedendo i peccati accompagnati dalla fede in lui, Gesù vede anche il perdono del Padre: quell’uomo accoglie Gesù come il suo salvatore, come il dono di Dio, e perciò il peccato non ha più efficacia nel suo cuore, è perdonato.
Gli scribi, quelli cioè che conoscono la legge, ma non l’amore e l’intenzione del Padre, e quindi nemmeno conoscono il Figlio, gli scribi dunque reagiscono. Fino a questo momento avevano ascoltato Gesù attentamente, ora lo giudicano e lo condannano. Essi non hanno peccati da farsi perdonare, e perciò non possono godere che venga perdonato un poveraccio, che certamente è molto peccatore: la sua condizione lo dimostra.
Gesù sembra quasi voler scherzare con loro. Pone loro un interrogativo imbarazzante. È più facile perdonare o guarire? Chi può rispondere? Sono tutt’e due opere di Dio, e soltanto di Dio. Ma è Dio così lontano da non poter intervenire sulla terra? No, Dio è vicino, anzi è qui, ha mandato qui il Figlio per compiere le sue opere. La guarigione diventa verificabile, il perdono no. Il perdono per essere visto ha bisogno di fede, e la fede ha ragione di esistere perché la guarigione avviene davvero. Dio è all’opera nelle parole e nella volontà di Gesù. Egli guarisce, egli perdona con un perdono che è di Dio. Gesù è davvero il “sì” di Dio, la dimostrazione che l’amore del Padre ci insegue e ci raggiunge.
La conclusione? Rinnoviamo la nostra adesione a Gesù, il nostro amore per lui, il nostro ascolto attento di ogni sua parola e di ogni suo gesto. Guardando Gesù saremo aiutati a vedere il nostro peccato, e a chiederne perdono. Dal perdono che chiediamo a Gesù, e da quello che doneremo insieme a lui, scaturisce guarigione delle ferite dell’anima e delle malattie del corpo. Dal perdono che Gesù ci dona e ci aiuta a donare viene salvezza per noi e per tutta la società che ci circonda! La Quaresima che inizieremo tra poco sarà un’occasione preziosa per esercitarci a vincere tutto il male del cuore e del mondo con il nostro amore a Gesù, con la sua Parola che ci tiene legati al cielo.

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8ª DOMENICA del Tempo Ordinario - anno B
Prima lettura Osèa 2,16-17b.21-22 dal Salmo 102/103
Seconda lettura 2Corinzi 3,1b-6 Vangelo Marco 2,18-22

Abbiamo ascoltato la dichiarazione d’amore di Dio per il suo popolo! Egli ha verificato che questo popolo è infedele, ma nonostante ciò continua a cercarlo, a raggiungerlo, a dargli segni di preferenza, a rivolgergli la parola! Egli continua ad essere sposo fedele: « Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore »! Dio sceglie quest’immagine per presentarsi e farsi conoscere, l’immagine dell’amore coniugale con tutte le sue caratteristiche di esclusività, di attrazione fino alla gelosia, gelosia positiva che non permette anzitutto a se stesso di indirizzare altrove lo sguardo, ma vuole che anche l’amata non abbia il cuore diviso. Un cuore diviso è fontana di sofferenze!
L’amore di Dio noi lo possiamo almeno in parte conoscere facendo riferimento alle nostre esperienze d’amore. Conoscendolo, come potremo non accettarlo e non rispondergli? La prima risposta è quella che il salmo ci aiuta a esprimere, una benedizione, una contemplazione attenta e riconoscente. Ma non può mancare l’altra risposta, quella della testimonianza gioiosa e fedele. Ci aiuta San Paolo con l’immagine della “lettera di Cristo” scritta nei cuori “con lo Spirito del Dio vivente”: noi che accogliamo Gesù siamo una lettera che parla con la vita, parla dell’amore del Padre, fa conoscere la bella notizia del Vangelo anche a coloro che non sanno leggere e a coloro che non vogliono ascoltare!
Quel Gesù che noi vogliamo testimoniare si presenta ai discepoli di Giovanni Battista e ai farisei proprio come lo Sposo: è lui il rappresentante del Padre, è lui che ci comunica il suo amore divino e accoglie il nostro amore a Dio! Gesù uomo è la presenza di Dio tra noi: ci lasciamo amare da lui e gli offriamo la nostra piena adesione. In tal modo la nostra vita raggiunge la piena realizzazione! La presenza di Gesù è quindi la nostra festa, il nostro riferimento sicuro, più sicuro di qualsiasi legge e di qualsiasi abitudine. Il digiuno dei farisei era un segno di attesa del Messia, di colui che porta l’amore di Dio: ora, che egli è venuto, quel digiuno ha perso la sua ragion d’essere. Digiuneremo quando vorremo esprimere la sofferenza per il nostro peccato, o condividere il dolore dei fratelli, oppure rendere più intensa l’attesa fiduciosa dello Spirito Santo! Non ci lasciamo più condizionare da attese che la venuta di Gesù ha già colmato. Ciò che era necessario prima della sua venuta diventa peso inutile in sua presenza. Egli è novità: novità sarà tutto il nostro agire! Con lui riceviamo vita nuova, e una vita nuova trova nuove forme per esprimersi. Ora Gesù è in mezzo a noi, ha vinto la morte, è alla destra del Padre. Vestiamo nuove abitudini per esprimere la novità della sua vita! Sei sempre vissuto attento ad osservare leggi e comandi? Ora vivi attento ad esprimere gratitudine e amore, l’amore a Gesù che ti rende gioioso nell’amare i fratelli e tutti gli uomini del mondo, per i quali egli ha dato il suo sangue!

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9ª DOMENICA DEL T. O. - anno B
Prima lettura dal Salmo
Seconda lettura Vangelo

La gloria divina rifulge sul nostro volto, o meglio nei nostri cuori, dice San Paolo. Siamo poveri e deboli, siamo paragonabili a dei deboli e poveri recipienti di terracotta, che però contengono preziosi gioielli! Il mondo ci disprezza, ma in noi c’è Gesù, con tutta la ricchezza della sua vita e del suo amore.
La bellezza e la ricchezza di Gesù risplendono nel brano di vangelo che ci viene offerto oggi. Egli si trova circondato da persone che lo giudicano e lo spiano per condannarlo, ma lui rimane fermo nella sua obbedienza a Dio. Quelli che lo condannano ritengono di essere i veri obbedienti, perché vietano come sacrilego ogni gesto di attenzione all’uomo nel giorno di sabato. Gesù invece in giorno di sabato fa quello che Dio ha fatto in quel giorno: Dio ha dato la gioia all’uomo appena creato! Gesù vuole la gioia dei suoi discepoli affamati, e vuole la gioia di quell’uomo che in nessun giorno della settimana può adoperare la sua mano, costretto a sentirsi inutile. Il Maestro vuole dare all’uomo la gioia, e sceglie il giorno della gioia di Dio, che si allieta per tutta la sua creazione e soprattutto per l’ultima sua opera, la vita dell’uomo.
Questo brano del vangelo, come pure il comando del sabato nella prima lettura, sono un’occasione per riflettere sul nostro giorno di festa. La Chiesa ha attribuito il significato festoso e sacro del sabato ebraico al giorno seguente, perché in quel giorno è risorto Gesù!
Vediamo il sabato come profezia che si compie nel “primo giorno dopo il sabato” o “ottavo giorno”. Questo è il giorno della creazione della luce, secondo il racconto della creazione, e il giorno in cui Gesù ha vinto la morte, secondo il vangelo. Questo è il giorno in cui Gesù è apparso ai suoi riuniti insieme e ha spezzato con loro il pane. Perciò in questo giorno la Chiesa si è sempre riunita e si riunisce ancora, per ubbidire al comando “Fate questo in memoria di me”. In questo modo essa conosce e riconosce i propri membri, li nutre, li ammaestra, li raccoglie in unità realizzando il desiderio di Gesù, venuto per raccogliere in uno i figli di Dio dispersi! È una gioia per il credente ritrovarsi con i suoi fratelli per celebrare i misteri del suo Signore! È anche dovere di ogni cristiano partecipare all’assemblea domenicale, dovere grave verso se stesso, verso Gesù e verso i fratelli: verso se stesso per nutrirsi del Pane e della Parola, verso Gesù perché egli è il suo Salvatore che gli vuol parlare e lo vuole far crescere, verso la comunità che ha bisogno della sua presenza e dei suoi carismi per adempiere alla sua missione nel mondo. Il cristiano non può fare a meno di celebrare la domenica come giorno che gli è dato per ricordare che egli è fatto per il cielo e non per la terra. In questo giorno, attraverso l’assemblea gioiosa che prega e canta e ascolta, attraverso l’amore ai piccoli e ai deboli, agli ammalati e agli anziani, attraverso varie forme che la fantasia ispirata dallo Spirito Santo suggerisce, il cristiano viene liberato dal peso del lavoro, gode del riposo e dell’armonia con gli uomini e con il creato, si orienta a ciò che rimane per l’eternità!
In un giorno solo celebriamo i due fatti, la gioia di Dio per la sua creazione e la gioia del creato per la risurrezione di Gesù! Se viviamo senza santificare questo giorno come faremo a manifestare a Dio la nostra gratitudine e come faremo a manifestarci cristiani, redenti da Gesù?

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1ª domenica di Quaresima - B
1ª lettura Gn 9,8-15 dal Salmo 24 2ª lettura 1Pt 3,18-22 Vangelo Mc 1, 12-15

La figura di Noè è al centro della prima e della seconda lettura. Egli è l’immagine o il prototipo dell’uomo che parla con Dio, o meglio che lo ascolta nel momento in cui Dio stesso vuole iniziare una nuova umanità stabilendo con essa una alleanza. Questa alleanza prevede che Dio non distruggerà più nessuno con un castigo come quello del diluvio, benché l’umanità sia ancora in balia del peccato che la rende ribelle. Dio amerà sempre gli uomini, li amerà per amore della sua stessa misericordia. San Pietro riprende l’evocazione del diluvio per ricordare il battesimo. Come l’arca di Noè è stata sostenuta e salvata dall’acqua stessa nella quale tutti i malvagi sono morti, così ora l’acqua del battesimo salva in forza della risurrezione di Gesù dai morti. Questa salvezza è donata a chiunque riceva il battesimo, che viene visto dall’apostolo come “invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza”. Ed è Gesù che salva, lui che “è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio”. Ora i malvagi hanno questa possibilità da… sfruttare: invocare la salvezza, unirsi al salvatore per lasciarsi ricondurre da lui al Padre.
Gesù lo incontriamo poi nel brano evangelico: eccolo inoltrarsi nel deserto e rimanervi quaranta giorni. Questo periodo di deserto sembra essere una preparazione a tutto quello che vivrà in seguito: la predicazione accompagnata dai segni che lo qualificheranno come il Messia promesso dai profeti, e il rifiuto, che lo metterà nella condizione di portare a compimento l’amore perfetto di Dio per gli uomini. Così egli si prepara a dar valore, con la propria morte, a quel battesimo nel quale i peccatori si immergeranno per essere salvati.
Nel deserto Gesù procede per obbedienza allo Spirito. Lo Spirito è quello che ha parlato per mezzo dei profeti, che agisce dentro la storia preparando il cuore nuovo dell’umanità, che si posa sul servo di Dio che soffre e si offre per risanare le conseguenze dell’iniquità di tutti. In quei quaranta giorni lo Spirito sostituisce l’acqua del diluvio: Gesù vi viene immerso. Su di lui pesa l’iniquità di tutti gli uomini, lui, risorto, farà poi da guida nel loro cammino di conversione. Egli viene tentato da Satana: tutte le forze che hanno allontanato gli uomini da Dio cercano ora di avventarsi contro di lui. Satana, l’avversario, cerca di farsi ascoltare da Gesù, per ingannarlo, per distoglierlo dall’essere figlio obbediente, per fargli apparire Dio come assente e senza importanza. Satana vuole che Gesù agisca di propria iniziativa, come se Dio fosse lontano e quindi non fosse necessario interpellarlo e ascoltarlo. Vuole che Gesù sia come siamo noi, che cadiamo quotidianamente in questo ateismo pratico, senza accorgercene, come fosse un nostro diritto. In quei quaranta giorni Gesù soffre tutta l’inimicizia presente nel mondo: l’evangelista ce la descrive con l’immagine delle “bestie selvatiche”. Queste sono imprevedibili, fanno paura, cercano di sbranare. Il Figlio di Dio non scappa, rimane in questa situazione tutto il tempo necessario, quaranta giorni, come i giorni del diluvio. E come Noè ricevette consolazione dalla colomba, così Gesù riceve consolazione dagli angeli, che gli danno certezza di essere gradito al Padre per la sua obbedienza e per la sua perseveranza.
Ora egli è pronto a iniziare un nuovo periodo della sua vita: superate tutte le prove può proclamare il vangelo di Dio: comincia a parlare a tutti di quel Dio che lo ha accolto nel deserto e a cui lui si è offerto. Proclama la buona notizia che Dio è vicino agli uomini, che Dio è pronto a salvarli come ha salvato Noè, che Dio ha mandato lui per riportarli ad incontrare il Padre. Quando Giovanni Battista viene fatto tacere, allora Gesù, ormai senza alcuna paura degli uomini, inizia a parlare. Il suo annuncio è riassunto da Marco con due notizie e due comandi. Il tempo dell’attesa è finito, perché il Messia salvatore è arrivato. È pronto il regno, perché è arrivato il re! Cambiate perciò modo di pensare: se non dovete più attendere, ora dovete aderire. Il re è presente: accoglietelo per essere amici di Dio e quindi godere della pienezza del suo amore!
Dentro il regno di Dio sarete più al sicuro che dentro l’arca di Noè.
Iniziamo l’esercizio penitenziale della Quaresima superando con Gesù tutte le sollecitazioni del mondo a far da soli: cerchiamo nutrimento nella Parola di Dio, facendo in modo che non resti fuori di noi, ma appaia nelle nostre azioni e nel nostro ragionare con i fratelli.

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2ª domenica di Quaresima - B
1ª lettura Gen 22,1-2.9.10-13.15-18 dal Salmo 115 2ª lettura Rm 8,31-34 Vangelo Mc 9,1-9

La pagina che narra la prova di Abramo è sempre nuova. Ogni volta ci lascia col fiato sospeso e con molte domande. Può Dio chiedere ad un padre di sacrificare il figlio uccidendolo? Come può un uomo accogliere un’obbedienza simile? Un figlio che si vede sacrificato non potrebbe ribellarsi a suo padre? Alla fine del racconto ci accorgiamo che sono tutte domande inutili. L’uomo non può dubitare della bontà di Dio, nè della sua sapienza, nemmeno della sua misericordia. Le nostre domande provengono dal peccato che regna in noi. Il peccato ci fa vedere Dio cattivo e ingiusto, ci fa pensare di essere noi migliori di lui. È proprio questo che non vediamo in Abramo. La sua fede è vera fiducia, è abbandono alla volontà di Dio, come se sapesse e volesse fermamente credere che ciò che Dio dice e chiede è il meglio per lui.
Abramo ubbidisce senza ragionare, anzi, senza dubitare. Egli ragiona con la sapienza di chi sa che la volontà di Dio è di gran lunga superiore ai nostri modi di vedere. Ubbidire è sapienza, ubbidire è il ragionamento più sicuro, perché Dio non inganna. E così osserviamo Abramo mentre prepara il figlio e gli strumenti per il sacrificio, lo accompagniamo nel viaggio verso il monte, ascoltiamo il suo dialogo silenzioso con il figlio. Al di sopra di tutto contempliamo la compiacenza di Dio per questo suo fedele, che fedele rimane in una prova durissima e per noi inconcepibile.
Oggi questa lettura è affiancata al brano del vangelo che ci fa contemplare Gesù sul monte. Vi è salito per stare in solitudine con tre dei suoi dodici discepoli. Questo fatto ci lascia intuire che per lui è un momento importante e delicato, che deve rimanere riservato. Il monte, e salire sul monte, fa ricordare quegli episodi narrati nella Bibbia, nei quali i personaggi più importanti sono appunto saliti sul monte in momenti decisivi della loro vita. Tra essi certamente il profeta Elia che sale sul Carmelo e sull’Oreb, e Mosè sul Sinai, quando ha ricevuto le tavole della Legge, ma prima di tutto proprio Abramo. Gesù sul monte, accompagnato da solo tre dei suoi discepoli, è attento a Dio, al Padre, per accogliere la sua luce e immergersi in essa. Di solito, quando Gesù si ritira in disparte, lo fa per pregare, cioè per offrirsi alla volontà del Padre, quella con cui egli ama il mondo. Eccolo avvolto di luce. È la luce divina. Anzi, la luce emana da lui e rivela la sua più profonda identità. Egli è partecipe della divinità, egli realizza l’amore del Padre per gli uomini. Egli è colui che Mosè ed Elia avevano profetizzato e atteso, ed eccoli a testimoniarlo. Ed essi con lui discorrono della realizzazione di quell’altra profezia, quella di cui si fece immagine Abramo con Isacco salendo sul monte. Isacco sul monte col padre Abramo è profezia: il compimento di questa profezia lo vivrà Gesù su quel piccolo monte che diverrà il monte più alto di tutta la terra, il Calvario.
Gesù, Mosè ed Elia non fanno mistero: i discepoli possono stare ad ascoltare, poichè già alcuni giorni prima il Maestro aveva annunciato loro la sua morte e la sua risurrezione. E il Padre pure ascolta tutto e dona la sua approvazione facendo risuonare sull’alto del monte la parola che Abramo aveva nel cuore: “l’amato”. “Questi è il Figlio mio, l’amato”! Gesù è il vero Isacco, il sacrificio offerto dall’umanità, l’offerta di colui che è amato non solo dal Padre, ma da tutti gli uomini. Gesù è il sacrificio che esprime la fede e l’obbedienza di tutti gli uomini a Dio. Non tutti gli uomini ne sono coscienti, perché annebbiati dall’orgoglio e dal peccato. Ma quando quest’orgoglio e il peccato saranno vinti in loro, allora anch’essi saranno felici di essere stati rappresentati dal Figlio, dall’amato. Oggi proprio di questo parla Gesù stesso con Mosè e con Elia, e a questo si prepara con la sua preghiera. I discepoli non hanno capito, ma solo intuito il mistero. Ad essi deve rimanere presente un’altra parola: “ascoltatelo”. Ubbidendo comprenderanno.
Ci uniamo a loro per ascoltarlo. Egli, come dice San Paolo, è la dimostrazione che Dio ci ama. Perciò apriamo i nostri orecchi per udire bene le sue parole, farne tesoro, tradurle in gesti concreti di amore, di perdono, di misericordia e di carità. La quaresima è il tempo che ci esercita a quella misericordia e a quell’amore che nascono in noi dall’ascolto della voce del Signore!

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3ª domenica di Quaresima - B
1ª lettura Es 20,1-17 dal Salmo 18 2ª lettura 1Cor 1,22-25 Vangelo Gv 2,13-25

“La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima; la testimonianza del Signore è stabile, rende saggio il semplice. I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore”!
Così canta il Salmo col quale abbiamo risposto alla proclamazione dei comandamenti di Dio. I dieci comandamenti sono davvero una sapienza grande: danno stabilità e sicurezza, danno un orientamento in ogni situazione. Dal primo all’ultimo essi sono una grande difesa dalle continue tentazioni che i nostri istinti e le cattiverie del mondo ci insinuano. Chi li vive purifica la sua vita e la rende preziosa, la trasforma in dono desiderato per tutti.
Com’è fortunato infatti quell’uomo che trova una moglie impegnata a vivere i dieci comandamenti! E come se ne sta sicura e serena la moglie, quando sa che suo marito si orienta con queste dieci parole! Come se ne stanno tranquilli i genitori conoscendo che i loro figli sono illuminati ad ogni passo da questa sapienza! E lo stesso per le amicizie e per i rapporti aziendali e di lavoro.
I comandamenti sono delle luci che ci danno a vedere se i pensieri e desideri sorgenti in noi o le sollecitazioni esterne, di persone conosciute o sconosciute, sono positive o negative, ci fanno bene o ci fanno male. Come mai oggi vediamo tanto male attorno a noi? Non ti accorgi che viene dal fatto che molti non sanno distinguere le tentazioni dalle ispirazioni? Se uno prende tutto quello che gli vien detto, o gli passa per la mente, come cosa buona, senza vagliarlo, rischia di ingannarsi e di venire ingannato tutti i giorni. Se una persona non ha un vaglio, un criterio sicuro con cui confrontare tutto, un criterio che non dipenda dalle proprie voglie, si trova disorientato. Ebbene, i dieci comandamenti sono un vaglio da tenere sempre con sè. Essi non sono tutto, non danno ancora la vita, ma preparano il terreno interiore a riceverla.
La vita è Gesù! Chi osserva i comandamenti è pronto ad accogliere Gesù in sè e a godere della sua luce. È lui che ci trasforma e ci rende celesti, figli di Dio, cittadini del mondo futuro.
Oggi lo contempliamo nel Tempio, l’unico luogo in cui gli ebrei ritenevano di incontrare Dio, il Dio del cielo e della terra. Gesù sa di essere suo figlio, amato da lui, e perciò soffre al vedere quel Luogo trasformato in supermercato. Così com’era diventato, quel Luogo non favoriva la preghiera, nè il silenzio, tanto meno l’ascolto della sapienza di Dio. I comandamenti vi erano proclamati, ma non vissuti. I desideri delle persone che là si incontravano erano desideri di guadagno, di vanagloria, di accontentare la propria ambizione. Gesù si è accorto che là regnavano desideri che non orientano a Dio, il Padre suo, che vuol essere Padre di tutti. Chi entrava veniva provocato a conoscere Dio come commerciante, come uno che ti ama se tu lo ripaghi con sacrifici di animali sempre più costosi. L’immagine di Dio che veniva trasmessa in quel Luogo era di un Dio avido, senza misericordia. Quell’immagine è bestemmia. Là non appariva la bellezza del Padre, non l’amore nè la tenerezza e la consolazione di quel Dio che Gesù conosceva e amava.
Non ci meraviglia quindi ciò che egli ha fatto: ha lasciato agire il suo amore, amore a Dio e amore agli uomini. La cordicella che ha fatto e i colpi di frusta agli animali erano amore all’immagine di Dio, l’unica possibile: Dio è Padre, non mercante; erano amore agli uomini che fin che non conoscono Dio come Padre non desiderano e non vogliono nemmeno vivere i suoi comandamenti, o, se li vivono, lo fanno malvolentieri perché sembrano loro costrizione, e la loro vita rimane senza gioia.
Gesù si rende conto che il suo amore a Dio e agli uomini lo porterà a donare la vita, a donarla - come annunciato dai profeti - attraverso il rifiuto, l’accusa, e persino la condanna da parte dei responsabili del popolo. L’amore è più forte della morte, dice la Scrittura, e l’amore di Gesù non si arrende. Egli vive per Dio, e Dio è fedele: se lo uccidono, “in tre giorni lo farà risorgere”.
Morire per risorgere è scandalo e stoltezza, dicono i Giudei e i pagani. Gesù Cristo è scandalo per i Giudei, che rifiutano di credere che possa essere Dio uno condannato da loro. È stoltezza per i pagani, che amano la vita in questo mondo, dove cercano i piaceri del corpo. Per chi si affida a Dio invece Gesù, che muore amando, è potenza e sapienza, potenza di Dio e sapienza di Dio: noi rimaniamo uniti a lui, offrendogli l’obbedienza ai comandamenti, anche quando ciò può sembrare stoltezza a coloro che ci circondano. Saremo comunque d’aiuto a vedere il vero volto di Dio, il volto del Padre.

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4ª domenica di Quaresima - B
1ª lettura 2Cr 36,14-16.19-23 dal Salmo 136 2ª lettura Ef 2,4-10 Vangelo Gv 3,14-21

Significativo l’episodio narrato dalla prima lettura. Mentre Dio si vede costretto a castigare il suo popolo per le disobbedienze e per il disprezzo dei profeti e messaggeri che egli ha inviato, viene invece ubbidito dal re di Persia. Per un decreto di questo re pagano il popolo ebraico può procedere alla ricostruzione del tempio di Gerusalemme. È di certo un’umiliazione per il popolo iniziare quest’opera per la sollecitazione di un pagano. È un’umiliazione, ma nello stesso tempo un insegnamento da apprendere con umiltà: non si deve disprezzare nessuno, nemmeno i pagani, perché proprio essi possono essere graditi a Dio e possono essere da lui scelti come suoi strumenti. Messaggio prezioso, che Gesù cercherà di rendere evidente in vari modi. La pagina del vangelo odierno diffonde una grande luce sul nostro modo di rapportarci proprio con quel mondo che ci appare per molti aspetti ostile.
“Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito”: Gesù offre questa rivelazione proprio a Nicodemo, uno dei notabili che lo vuole sì ascoltare, ma che si lascia ancora influenzare dai sospetti degli altri ed ha quindi paura a lasciarsi vedere vicino a lui.
Il mondo è sulla strada della perdizione, a meno che non accolga gli inviti di Dio. Il modo di essere e di agire del mondo è una continua autocondanna, perché non si mette sulla via della vita, bensì su quella della morte. Ecco l’amore di Dio: egli si è mosso a compassione di questo mondo perduto e, per suscitare in esso il ravvedimento e la conversione, ha mandato il Figlio unigenito. Questi poi, secondo il simbolo profetico anticipato da Mosè, sarà innalzato per essere visto e guardato da tutti. Mosè aveva innalzato un serpente di rame su di un’asta: chi l’avesse guardato con un atto di obbedienza a Dio, sarebbe sopravvissuto al veleno dei serpenti; questi evidenziavano il fatto che la mormorazione del popolo contro di lui era forza di distruzione. Mormorare contro Dio è veleno, veleno mortale. Ubbidire a lui invece, anche solo con un gesto semplicissimo come l’alzare lo sguardo a quel serpente di rame, otteneva salvezza dalla morte.
Noi, e con noi il mondo intero, siamo avvelenati dal veleno del serpente che ha fatto cadere Adamo all’inizio. L’amore del Padre ci avvicina, diventa concreto: alziamo perciò con fede lo sguardo, non verso un serpente di rame, ma verso il crocifisso. Egli è stato reso simile ad un “verme” ed è stato innalzato. Credi in lui, e sarai salvato. Credi in lui, cioè ascoltalo e ubbidiscigli, e Dio può riconoscerti suo amico.
Ci ripete quest’annuncio anche San Paolo: “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati”! Di questa salvezza, continua l’apostolo, noi ci possiamo vantare. Se veniamo salvati quindi non è nostro merito. Egli spesso nelle sue lettere ripete questo messaggio, probabilmente perché gli ebrei coltivavano un certo orgoglio, ritenendosi migliori degli altri per via dei loro digiuni, della loro preghiera, delle loro pratiche impegnative e delle osservanze alimentari. Se veniamo salvati è soltanto perché abbiamo rivolto lo sguardo a Gesù con amore: il merito della salvezza è suo, perché è lui che si è lasciato innalzare. È Gesù che si è offerto per diventare “verme, non uomo”, per essere disprezzato e condannato, rifiutato e ucciso. Il merito è tutto suo. Questa consapevolezza ci rende umili e ben disposti anche verso i pagani, anche verso coloro che si manifestano ostili a noi e alla rivelazione di Dio, che essi ancora non comprendono. Avere sempre presente il fatto che siamo salvati grazie a Gesù, ci impedisce di cadere in quell’orgoglio in cui cadono coloro che pensano d’avere dei meriti.
Qualora pensassimo di aver guadagnato l’amore di Dio con le nostre opere, saremmo facilmente tentati di giudicare gli altri, di accusarli perché non compiono le stesse cose, perché non si impegnano abbastanza. Quando siamo umili invece, riconoscenti a Dio per ogni cosa, saremo attenti a comunicare agli altri il sorriso di Dio, quel sorriso con cui egli stesso, tramite Gesù, ci ha conquistati a sè. E saremo anche capaci di godere degli aiuti che Dio ci dà anche attraverso persone che vediamo ancora lontane dalla fede e dalla conoscenza di lui.

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5ª domenica di Quaresima - B
1ª lettura Ger 31,31-34 dal Salmo 50 2ª lettura Eb 5,7-9 Vangelo Gv 12,20-23

In quest’ultima domenica di quaresima ci prepariamo in maniera più diretta alla settimana santa per celebrare la morte e risurrezione del Signore. Le letture che ascoltiamo ci rendono coscienti di quanto è avvenuto. Il profeta Geremia ha annunciato l’alleanza nuova con cui Dio vuole arricchire e rassicurare il suo popolo. La lettera agli Ebrei ci annuncia a quale prezzo il Padre l’ha stipulata con gli uomini. E Gesù, nel vangelo, ci descrive e interpreta con una brevissima parabola quanto egli ha vissuto e ci annuncia l’efficacia della sua lotta e della sua vittoria.
Con le parole di Geremia Dio manifesta la sua delusione, se così possiamo dire, nel constatare come l’alleanza, che egli aveva concluso con il popolo attraverso Mosè, è stata infranta dal popolo stesso: non hanno tenuto conto che egli era Dio! Hanno infranto l’alleanza con lui come se lui fosse un buono a nulla, o come fosse incapace di assicurare vita e libertà. In questo modo il popolo meriterebbe d’essere abbandonato a se stesso, ma questo Dio non lo vuol fare, grazie all’amore sempre presente nel suo cuore! Che cosa farà? Ecco, stipulerà una nuova alleanza: questa volta soltanto lui si impegna a rimanere fedele, e darà ai vari membri del popolo di portare dentro di sè il desiderio di essergli uniti. Lo conosceranno infatti come Padre che li ama fino al perdono del loro peccato. Un’alleanza davvero nuova, perché nuovo il concetto stesso di alleanza: l’impegno è solo di Dio, l’uomo avrà solo il beneficio. All’uomo verrà chiesto solo di non rifiutarla!
La lettera agli Ebrei ci fa conoscere a quale prezzo la nuova alleanza è stata stipulata: l’obbedienza fino alla morte del Figlio, la sua generosa offerta di sè “con forti grida e lacrime”. Gesù poi ripete con altre parole queste stesse cose ad Andrea e Filippo, quando si fanno portavoce dei pagani che desiderano conoscere il Signore. Gesù capisce che, se i pagani lo vogliono incontrare, la sua venuta nel mondo sta portando frutto non solo per il popolo d’Israele, ma per tutti gli uomini. Il frutto così abbondante matura dal grano caduto a terra e morto. È giunta perciò l’ora della sua offerta, della sua morte. Gesù la può annunciare, non solo ad Andrea e a Filippo, ma anche a me, a te, a tutti coloro che lo seguono. Quanto accade a lui è una legge che vale per tutti coloro che vogliono che la propria vita abbia un significato nel regno di Dio. Le sue affermazioni devono perciò rimanere fisse nel nostro cuore e nella nostra mente per far da punto di partenza ai nostri ragionamenti e alle nostre scelte. “Chi ama la propria vita la perde”, Se uno mi vuol servire, mi segua”: chi prende seriamente queste sue parole non rimarrà senza consolazione! “Chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”, “Se uno serve me, il Padre lo onorerà”: queste promesse ci rendono forti e generosi nel seguirlo. La voce che viene dal cielo conferma la verità di Gesù e conferma la verità della sua offerta di sè. L’amore che egli vive donando la propria vita è rivelazione della sua divinità, è la sua gloria. E la gloria vissuta da lui accettando di essere innalzato sulla croce, è una gloria che porta frutto per la salvezza degli uomini. Infatti “ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori”. Gli uomini che sono attirati dal Figlio innalzato non sono più posseduti, nemmeno influenzati, dal principe di questo mondo, dal maligno. Essi conoscono la paternità di Dio e godono del suo amore: in essi la “nuova alleanza” diventa visibile: essi stessi vogliono ciò che Dio vuole, conoscono la sua volontà e la desiderano, sono trasformati in modo da sentirsi un tutt’uno con lui.
La Parola di questa domenica ci immerge nel significato più profondo del mistero pasquale, che vivremo tra pochi giorni. Ci prepariamo ad addentrarci in esso non solo con il ricordo e con il pensiero, ma con tutta la nostra vita. Ci disponiamo a “odiare la vita in questo mondo” per seguire il Signore Gesù e portare a lui coloro che manifestano anche solo vagamente il desiderio di conoscerlo. La voce dell’angelo che ha parlato a Gesù, ma che ha detto ciò che per noi è importante udire, ci terrà orientati a lui con forza, con decisione: egli è già glorificato e sarà ancora glorificato da Dio. Nulla ci deve distrarre da lui e dal mistero del suo amore.

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Domenica delle Palme - B
Mc 11,1-10 1ª lettura Is 50,4-7 dal Salmo 21 2ª lettura Fil 2,6-11 Vangelo Mc 14,1- 15,47

Iniziamo una settimana particolarmente significativa: partecipiamo al momento culminante della vita di Gesù, ai giorni in cui egli ha portato a compimento il suo amore al Padre e la sua offerta per noi uomini. Lo seguiamo mentre viene proclamato re, e anche noi lo proclamiamo re. Egli vive la regalità alla maniera di Dio, come servizio, come amore, e per questo cavalca un asino. Noi lo seguiamo acclamandolo, non agitando le armi, lance e spade, come chi acclama i regnanti del mondo, ma agitando rami di ulivo e di palma. Lo acclamiamo non con inni trionfalistici o nazionalistici, ma con i salmi che proclamano la fedeltà di Dio, non con grida che fanno paura a chi ascolta, ma con canti che diffondono gioia e speranza.
E poi lo accompagniamo nella sua passione: quando viene accusato, rifiutato, calunniato e perseguitato. Non ci scandalizziamo, cioè non ci lasciamo influenzare dalla cattiveria degli uomini e continuiamo a guardare a lui con simpatia e col desiderio di vivere quanto egli vive. Egli è condannato e messo a morte? Ebbene, desideriamo, per suo amore, di soffrire qualche rifiuto e qualche dolore: potremo dire di amarlo davvero, di far tesoro della sua amicizia. Saremo partecipi dell’amore che gli ha dimostrato quella donna che è entrata nella casa di Simone a Betania. Con il racconto di questo fatto inizia la lunga lettura del vangelo, proprio perché è un fatto significativo ed esemplare. Di quella donna l’evangelista Marco non ci dice nemmeno il nome, forse perché vuole invitarci a vedere rappresentata in lei la nostra persona. Quella donna, incurante di quel che possono pensare o dire tutti gli altri, dimostra riconoscenza e stima e amore a Gesù. La critica e la condanna del suo amore non si fanno attendere. Anche quelli che lo avevano acclamato con i rami di ulivo e lo avevano riconosciuto re d’Israele ora si dissociano dall’amore di quella donna e ne condannano il gesto. Solo Gesù apprezza il suo amore: a lei questo basta. Gesù è riconoscente a quella donna non solo e forse non tanto per il profumo, quanto invece perché ha partecipato in anticipo alla sua passione. Lei di certo non sarà scandalizzata dalle grida di chi lo vuol mettere in croce, e nemmeno dai giudizi carichi di odio dei capi del popolo e da quelli carichi di disprezzo dei capi religiosi. Avendo sofferto la solitudine nell’amare Gesù, lei saprà amarlo anche quando lui sarà solo sotto il peso della croce e sul calvario.
Ascoltiamo il racconto della passione e della morte del Signore come può averlo vissuto lei pochi giorni dopo aver versato sul suo capo l’olio profumato e prezioso. A Gesù diamo il profumo della nostra adesione, senza guardarci attorno per farci condizionare da come reagiscono gli altri alla sua vicenda. A Gesù diamo la nostra ricchezza, perché solo lui ne è degno. A Gesù diamo gesti di amore, anche se ci attireranno critiche e derisioni o accuse e condanne. L’amore che diamo a Gesù diffonderà profumo a tutta la casa, a tutta la Chiesa, e sarà l’unica cosa che verrà raccontata con riconoscenza da molti.
In questa settimana i gesti di amore a Gesù possono essere l’adoperare tempo per celebrare con la comunità i vari misteri dell’Eucaristia, della Croce e della Risurrezione, ma anche per fermarci in adorazione silenziosa oppure per percorrere la Via Crucis. Qualche altro gesto di amore lo ispirerà lo Spirito Santo alla mente e al cuore di ciascuno.
Il nome di Gesù, che ci fa piegare le ginocchia in adorazione, ci farà rialzare pieni di gioia per essere partecipi della sua risurrezione, della sua vita nuova ed eterna e gloriosa!

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Pasqua di Risurrezione - B
Iª lettura At 10,34. 37-43 dal Salmo 117 IIª lettura Col 3,1-4 Vangelo Gv 20,1-9 o Mc 16,1-8 (vespertina: Lc 24,13-35)

Questa notte siamo stati interrogati e abbiamo risposto alle domande con maggiore o minore decisione, con consapevolezza più o meno viva. Le nostre risposte erano tutte “giuste”, così come sono apparse sulle labbra, forse non altrettanto come sono partite dal cuore. Ci è stato chiesto se rinunciamo a Satana, e abbiamo detto un bel “rinuncio”. Satana si è sentito sconfitto, ma domani tornerà all’assalto per provare ad indebolire la nostra risposta. Ci è stato chiesto se crediamo in Dio Padre, se crediamo in Dio Figlio Gesù, se crediamo nello Spirito Santo. Abbiamo quasi gridato un bel “credo”. E il Padre adesso si aspetta che alla prossima piccola o grande prova ci affidiamo a lui, e Gesù che ubbidiamo alla sua Parola, e lo Spirito Santo che cerchiamo la comunione con i figli di Dio. Siamo stati interrogati anche sulla nostra adesione alla Chiesa, e abbiamo detto il nostro sì! Dalla Chiesa riceviamo la Parola di Dio e il corpo di Gesù e il sigillo dello Spirito, perciò crediamo che essa è opera di Dio, edificio voluto dal Figlio e animato dall’interno dallo Spirito Santo. Le parole sicure di questa notte diventeranno vita di ogni giorno?
Lo diventeranno perché Gesù è risorto. Egli è risorto da quella morte in cui l’avevano gettato le cose che valgono qui sulla terra. Qui vale il potere, vale il denaro, valgono i sentimenti, vale l’ambizione, vale l’apparenza. Ebbene sono queste realtà ben presenti e operanti anche in noi che hanno consegnato alla morte il Figlio di Dio. E lui è risorto! E così ha dichiarato nulle e inutili tutte quelle divinità portatrici di passeggera soddisfazione e prolungata sofferenza. Egli aveva cercato di liberarci dal loro peso, come ci dice oggi San Pietro, quando è passato “beneficando e risanando quanti stavano sotto il potere del diavolo”. Ci aveva fatto vedere così il valore della sua vita e della sua presenza, che desideriamo e possiamo ancora godere ogni giorno, dato che è risorto.
La risurrezione di Gesù dà un valore eterno alla sua morte: noi infatti annunciamo sempre, ogni giorno, la sua morte prima di annunciare la sua risurrezione. Non ci vergogniamo della sua morte, perché è risorto, anzi, ci gloriamo di essa. È con la sua morte che ci ha salvato! Noi lo osserviamo innalzato in croce per essere guariti dal veleno mortale del serpente antico, ed egli, con la sua risurrezione ci riempie di gioia e ci riveste della gloria di Dio. Gesù vive di una vita che sfugge al nostro sguardo e supera la nostra immaginazione: la sua vita ora ci raggiunge in tutte le situazioni in cui ci troviamo, anche in quelle del peccato. Da esso ci solleva, dal suo inganno ci difende, dalle sue conseguenze ci guarisce. Gesù risorto continua a darci vita, quella vita che non va più incontro alla morte, bensì all’eternità.
Gesù risorto continua a chiamarci perché continuiamo a perfezionare la nostra conversione, a rendere stabile il nostro ritorno al Padre, a disporci a collaborare con generosità alla venuta del suo regno in questo mondo. Gesù risorto! La tentazione di dubitare della sua vita, ormai eterna, viene a minare la nostra fiducia e frenare la nostra gioia, e proviene dalla nostra ignoranza, perché non sappiamo ancora cosa significhi «risurrezione». Non siamo migliori dei primi discepoli, che non capivano questa parola. Nemmeno noi la comprendiamo, perché fa parte del mistero dell’amore del Padre, mistero che ci supera sempre. È la nostra fede che ci dà sicurezza e certezza della presenza di Gesù vivente accanto a noi e addirittura dentro di noi. È mistero della fede la risurrezione di Gesù, e per questo durante la Veglia ne abbiamo rinnovato la professione con solennità. Continuiamo a rinnegare tutto ciò che con aggressività continua a proporci il nostro nemico, e continuiamo ad affidarci all’amore del Padre, alla sapienza del Figlio, alla luce dello Spirito Santo, e a vivere con gioia in quella Chiesa che ci assicura il perdono e il nutrimento della nostra vita spirituale, e ci tiene nella comunione dei santi fino al momento in cui anche noi, sopraffatti dalla morte, entreremo in quella vita del Figlio che oggi ci fa cantare il nostro grande alleluia!

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2ª Domenica di Pasqua - B
o della Divina Misericordia
1ª lettura At 4,32-35 dal Salmo 117 2ª lettura 1Gv 5,1-6 Vangelo Gv 20,19-31

“Davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù”. Sono gli apostoli che fanno di tutto per diffondere la conoscenza del Signore Gesù, perché sanno che di lui tutti hanno bisogno. È l’amore a spingerli, l’amore a Gesù, morto per loro, e l’amore agli uomini, amati dal Padre e dallo stesso Signore Gesù Cristo. L’amore che li spinge a dare testimonianza al loro Maestro è vivo anzitutto tra di loro. Non si può infatti amare chi sta fuori casa, se non si condivide l’amore con chi vi sta dentro: non sarebbe un amore autentico. Gli apostoli danno testimonianza a Gesù risorto vivendo da fratelli tra loro e con coloro che hanno accolto nella stessa comunità, nella stessa famiglia. Il loro amore reciproco diventa la prova del fatto che Gesù è vivo, tanto vivo da trasmettere loro la forza della sua pace e la gioia della comunione reciproca.
L’amore è rivelazione di Dio, è la garanzia della presenza di Dio, è la forza che convince l’incredulità. Ce lo assicura l’apostolo Giovanni. L’amore che i discepoli vivono tra di loro è dimostrazione che Gesù è risorto dai morti e che quindi noi stessi possiamo essere certi della salvezza. Giovanni usa delle immagini che per noi sono un po’ difficili da comprendere: l’acqua e il sangue ci danno testimonianza riguardo a Gesù. L’acqua ci fa pensare alla purificazione che avviene con il battesimo: la purificazione dai peccati, e quindi dalla distanza dall’amore del Padre, è un dono che ci alleggerisce e ci salva dalle varie schiavitù presenti nel mondo. Il sangue è quello del sacrificio, l’offerta che Gesù ha fatto di sè al Padre per noi: questo sacrificio, cui si unisce l’offerta di noi stessi, ci santifica, ci fa partecipi dell’amore stesso di Dio e quindi della sua perfezione.
Credere che Gesù è risorto dai morti non è cosa immediata. Tommaso infatti non voleva credere che Gesù fosse risorto: per questo regnava in lui la tristezza ed egli non poteva essere in comunione con i suoi amici. La tristezza lo rendeva incredulo e l’incredulità lo teneva distante dagli altri, gli impediva ogni espressione di gioia. Il non credere che Gesù è risorto è un impedimento grave a gustare d’essere un cuor solo e un’anima sola con gli altri discepoli. Chi non crede che Gesù è risorto vive nella tenebra, conosce solo il grigiore della morte. Gesù, otto giorni dopo la sua risurrezione, facendosi presente tra i suoi si accorge anzitutto di Tommaso. La sua incredulità attira l’attenzione perché rende impossibile la gioia a se stesso e la frena agli altri. Gesù gli si avvicina e, chiamandolo, lo invita ad usare tutte le sue facoltà per arrivare alla fede: deve ascoltare, aprire gli occhi, avvicinarsi, toccare col dito, posare la mano e, finalmente, deporre il suo orgoglio. Proprio l’orgoglio gli impediva di ascoltare coloro che gli testimoniavano con la loro voce e con la loro gioia che egli era vivo, nonostante fosse stato preso dalla morte.
L’incontro di Tommaso con Gesù rimane vangelo, “buona notizia”. L’incredulità del discepolo è tuttora presente nelle comunità cristiane, anzi, rimane presente in ciascuno di noi. La nostra fede con grande facilità si mescola con momenti, anche prolungati, di incredulità. Anche in questi momenti il Signore Gesù ci incontra, si avvicina a noi e ci offre i segni della sua misericordia. Quei segni sconvolgono il discepolo, gli trasformano il cuore. Egli adesso rinnega il suo orgoglio e pronuncia con umiltà le parole della fede: “Mio Signore e mio Dio”! Da questo momento Tommaso fa parte di nuovo della comunità dei discepoli e può sentirsi uno di loro. Da questo momento ognuno di noi si sente abbracciato dall’amore di Gesù presente nella Chiesa.
“Mio Signore e mio Dio”, è il sussurro che sgorga anche dal mio cuore ed è quello che vorrei sentir mormorare da ogni fratello della comunità cristiana. Fin che non arriva questa parola sulle labbra dell’uomo non sai se egli è tuo fratello oppure no, se è vero fratello oppure se finge o se ha qualche interesse personale per partecipare alla celebrazione cui si rende presente.
Queste parole diventano acqua e sangue, purificazione e sacrificio, libertà dal peccato e dono di sè a Dio e ai fratelli: “Mio Signore e mio Dio”! Continuo a ripeterle perché diventino il colore e il calore di tutte le mie parole e il sapore di tutti i miei impegni quotidiani.

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3ª Domenica di Pasqua - B
1ª lettura At 3,13-15.17-19 dal Salmo 4 2ª lettura 1Gv 2,1-5 Vangelo Lc 24,35-48

Il popolo ascoltava con interesse e con curiosità Pietro: avevano sotto gli occhi lo storpio guarito miracolosamente per l’invocazione del nome di Gesù. Ebbene, Pietro non aveva paura a dir loro che erano colpevoli di aver rinnegato e fatto uccidere “il Santo e il Giusto”, “l’autore della vita”. Egli sapeva e riconosceva, come Gesù stesso aveva detto in croce, che tutti hanno “agito per ignoranza, così come i vostri capi”. Per quel loro rifiuto si sono realizzate le profezie, ma in vista della loro salvezza era necessaria una pronta conversione, un cambiamento del cuore, l’accoglienza di colui che era stato rifiutato. Il pentimento per quanto avevano fatto, con il conseguente cambiamento di vita, avrebbe ottenuto il perdono dei peccati. E il perdono è necessario, è proprio il dono che Gesù ci ha messo a disposizione con la sua morte.
I nostri peccati non ci devono lasciare nella disperazione. Essi ci hanno allontanato da Dio, ma Dio non ha smesso di amarci. Egli infatti ha accolto il sacrificio di Gesù, e grazie a lui è disposto a perdonarci nel momento in cui lo accoglieremo e lo ameremo. Con questo insegnamento l’apostolo Giovanni ci esorta e ci aiuta a coltivare speranza.
Di conversione e di perdono dei peccati parla pure lo stesso Gesù risorto. Egli è morto ed è risuscitato per sollecitare la conversione e per assicurare il perdono. I peccati esistono e continuano a produrre il loro effetto negativo nella vita dei singoli e nella società. Se essi non potessero essere perdonati, che saremmo noi e come sarebbe la vita delle nostre famiglie e della nostra convivenza civile? I peccati esistono e producono il loro effetto nefasto anche quando sono conseguenza di ignoranza. Pietro ne era convinto. Chi disubbidisce ai comandamenti di Dio, anche se non fosse del tutto cosciente che sta disobbedendo, anche se ritenesse di far il bene, anche se le leggi dello Stato glielo permettessero, commette peccato. E il peccato produce morte, sofferenza, disordine. Quel peccato dev’essere riconosciuto, di esso ci si deve pentire e da esso è necessario convertirsi; e il peccato dev’essere perdonato, altrimenti continuerà a generare disordine e sofferenza.
Gesù manda i suoi apostoli proprio a predicare la conversione e il perdono dei peccati. Egli si è fatto riconoscere risorto, quindi vivo e autorevole, perché essi gli ubbidiscano. A cominciare da Gerusalemme essi dovranno parlare di pentimento, di conversione e perdono. A cominciare da Gerusalemme! La città di Dio, città santa, anch’essa ha bisogno di pentimento, e deve darne l’esempio. E dopo di essa tutto il mondo.
Coloro che ritengono che gli uomini sono buoni, che non hanno bisogno di conversione e di perdono, illudono se stessi e ingannano gli altri. Fino a che un uomo non accoglie nella propria vita il Santo e il Giusto, quell’uomo è privo della vita, è distante dal cuore di Dio Padre, non riceve e non dona lo Spirito. I discepoli stessi di Gesù, pur essendo vissuti con lui, hanno bisogno di riconoscerlo risorto, di convertirsi e di pentirsi. Per essere salvati anch’essi devono riconoscere che il loro Maestro ha superato la morte ed è vivo, devono confessare che è lui colui che realizza l’amore del Padre annunciato e presente nelle Scritture. E così tutto il mondo, tutti i popoli, tutte le religioni. Gesù è risorto per tutti, per tutto il mondo. I suoi discepoli sono privilegiati? No, i suoi discepoli hanno una missione grande e impegnativa, talora anche rischiosa. Come a Gerusalemme, così nel mondo ci sono coloro che non vogliono sentir pronunciare il nome di Gesù, che non vogliono ammettere che egli sia il salvatore, e non accettano che egli sia risorto. Essere credenti in Gesù richiede grande coraggio e impegno: questo ci viene donato, com’è stato donato ai primi discepoli e ai martiri di ieri e di oggi.
Viviamo ancora la gioia pasquale continuando a riconoscerci peccatori, continuando a cercare la nostra conversione, per essere rafforzati nel compiere la nostra missione nel mondo: dare agli uomini che incontriamo la speranza di quel perdono che noi abbiamo già ricevuto quando abbiamo creduto che Gesù è risorto!

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4ª Domenica di Pasqua - B
del buon pastore - per le vocazioni
1ª Lettura At 4,8-12 dal Salmo 117 2ª Lettura 1Gv 3,1-2 Vangelo Gv 10,11-18

Oggi Gesù ci racconta e ci spiega una delle immagini più belle e complete da lui usate per farsi conoscere da noi. “Io sono il buon pastore”, dice, e lo ripete. Già i profeti avevano parlato di Dio come del pastore che sarebbe diventato egli stesso vero pastore del suo popolo, lasciato allo sbaraglio da coloro che avevano ricevuto la responsabilità di guidarlo e proteggerlo. Attraverso i profeti Dio ha promesso: ora la promessa si realizza. È lui, Gesù, che si occupa con amore di tutti e di ciascuno, e se ne occupa mettendo a disposizione tutta la propria esistenza. “Il buon pastore offre la vita per le pecore”: questa è la caratteristica che spiega il termine buono. Offrire la vita, essere pronto a morire per le pecore, questo dà verità a questa parola “buono”. Ci sono infatti altri che, pur presentandosi come pastori, sono preoccupati della propria vita, e non la mettono in gioco: nel momento del pericolo scappano, abbandonando le pecore a se stesse. Ad essi il termine pastore non si addice proprio, non li definisce, essendo piuttosto dei mercenari, cioè persone preoccupate solo del proprio stipendio e della propria incolumità. Questo pure dice Gesù, prima di spiegarci come lui vive il suo rapporto con noi quale pastore buono, vero amico della nostra umanità.
Il buon pastore conosce le sue pecore: ogni pecora è preziosa per lui, degna di attenzione, meritevole di cure particolari. Gesù dice questo di sè: egli coltiva un rapporto personale con ognuno dei suoi discepoli. Questi non sono tutti uguali, perché ognuno di loro ha una storia particolare e ha vissuto esperienze diverse. Ognuno deve essere amato con una attenzione che vada bene per lui. Gesù sa amare ognuno in modo che costui senta di essere amato e possa rispondere all’amore con le sue capacità e con le sue particolarità.
Noi siamo sicuri che l’amore di Gesù è attento a ciascuno, e ad ognuno offre quanto gli è necessario. Cerchiamo perciò di imparare e condividere anche quest’aspetto del suo amore. Guardiamo ad ogni nostro fratello tenendo presente che Gesù coltiva un rapporto particolare con lui, e perciò non ci permettiamo di giudicarlo, tanto meno di condannarlo. Se il mio Signore lo ama apprezzando le sue qualità e sopportando i suoi difetti, anch’io farò così. Il buon pastore infatti non guarda le pecore con uno sguardo di pretesa, per vedere che cosa può attendersi da loro, ma le osserva per poter donare il meglio di sè a ciascuna di loro. Egli offre la vita, offre attenzioni, tempo, energie, perché ogni pecora sviluppi le sue qualità e capacità.
Oggi la Chiesa è in preghiera perché lo spirito del Signore Gesù risorto animi coloro che sono stati chiamati ad esercitare il ministero di pastore. I Vescovi e i presbiteri, che sono posti alla guida della Chiesa, sono maggiormente attenti a questo aspetto della vita di Gesù, per esserne i rivelatori. Chiediamo al Padre, che ascolta la voce dei suoi figli, che doni ai nostri pastori la carità di Gesù, perché ogni battezzato non si senta abbandonato a se stesso e alle proprie credenze, ma senta di essere da loro guidato e custodito nelle espressioni della sua fede e nell’esercizio della sua carità. E continuiamo e intensifichiamo oggi anche la preghiera, che dev’essere insistente tutti i giorni, perché il Padre chiami uomini ad assumere il ministero di pastore nella Chiesa; chiediamo pure che doni, a quelli che chiama, un amore grande e una grande fede per donarsi completamente a lui.
La nostra preghiera più vera, dobbiamo ricordarlo, non saranno le belle parole che riusciremo a formulare, bensì quei piccoli atti di obbedienza amorosa che testimoniano la volontà di apprezzare il servizio dei pastori che il Signore ci ha già donato: ubbidendo ad essi rendiamo concreta la nostra obbedienza amorosa a Dio e vera la nostra preghiera!

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5ª Domenica di Pasqua - B
1ª lettura At 9,26-31 dal Salmo 21 2ª lettura 1Gv 3,18-24 Vangelo Gv 15,1-8

“Siamo nati dalla verità”. Oggi è difficile l’uso di questo termine, la verità! In un clima di relativismo come il nostro è facile pensare che la verità non esiste, o meglio, che per ciascuno è vero ciò che meglio gli pare. La domanda che Pilato rivolse a Gesù - “Che cos’è la verità?” - non risuona più da nessuna parte e così nessuna risposta viene attesa. Perciò Giovanni ci sorprende quando nella sua prima lettera esordisce con questa affermazione: “Siamo nati dalla verità”. Egli ci presenta la verità come la nostra madre, o come l’ambiente in cui noi abbiamo ricevuto l’esistenza. Che cosa intendeva dire con il termine verità? Questo termine presuppone che ci siano delle realtà nascoste, ma importanti per comprendere la nostra vita stessa e lo scopo di essa. C’è una verità piccola, ed è la risposta alle piccole domande che riguardano i singoli fatti che avvengono attorno a noi e di cui qualcosa ci rimane nascosto: Quando è successo? Come? Dove? Chi è stato? Questi piccoli e quotidiani interrogativi ci lasciano intuire che deve esserci anche una verità grande, come risposta a domande più impegnative: Da dove vengo io? Dove sono incamminato? Chi guida il mondo? Chi ci sta aspettando oltre questo tempo che fugge? C’è una regola per vivere in modo da godere pace tra tutti?
La verità è quindi il venire alla luce di ciò che è nascosto, e che è importante, come sono importanti le radici per un albero. Anch’esse sono nascoste, pur mentre danno vita e sostegno a grandi piante da frutto. Esse ci sono e lavorano, benché molti vi passino sopra senza vederle, senza pensare ad esse o addirittura versando su di esse il veleno che le danneggia.
La verità è ciò che nessuno vede, ma che sostiene tutti. Proprio Giovanni nel suo vangelo ci dice: “Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”. La grande verità è il venire alla luce di colui che nessuno ha mai visto, eppure è il nostro Creatore e colui che ci sostiene, e questi viene conosciuto da noi tramite il Figlio che assume la nostra carne, Gesù.
Gesù è quindi la verità, la manifestazione di Dio, la radice della nostra esistenza, il luogo in cui siamo nati, in cui abbiamo vita vera. Come possiamo essere certi che noi proveniamo da lui e che quindi siamo anche noi divini, figli di Dio? In noi è presente l’amore, quell’amore che si manifesta nel nostro offrirci, donarci gratuitamente, come si offre e si dona gratuitamente Dio stesso. Questa è la prova che noi siamo suoi, che da lui riceviamo la linfa vitale, da lui scaturisce la nostra energia.
Giovanni insiste nella sua lettera su questa certezza, e può insistere perché ricorda le parole stesse del Signore, che ha usato la parabola della vite e dei tralci per descrivere il suo rapporto con i discepoli. La pagina evangelica odierna infatti usa questa immagine. I tralci vivono perché uniti alla vite, e fin che le sono uniti portano frutto. Se fossero staccati non vivrebbero e sarebbero inutili, da bruciare. I tralci sono oggetto delle cure del vignaiolo, che li passa uno per uno tagliando e potando. Fuori metafora, i discepoli ricevono vita e capacità di essere utili al mondo dal Signore, e godono delle attenzioni del Padre. Queste attenzioni sono le potature, fatti che possono anche far soffrire. Il discepolo cerca quindi, sempre e nonostante tutto, di tenersi unito a Gesù. È lui il segreto della verità della sua vita, della sua realizzazione, della preziosità della sua esistenza. Ci si tiene uniti a Gesù ascoltandolo e vivendo le sue parole, obbedendo ai suoi insegnamenti.
La prima lettura ci offre un esempio concreto. Paolo si è da poco convertito e viene a Gerusalemme. Qui incontra solo sofferenze: anzitutto gli altri credenti non si fidano di lui, hanno paura ad accoglierlo nella loro comunità. Poi sono gli Ebrei di lingua greca a volerlo addirittura uccidere. Deve quindi fuggire. Egli sperimenta le potature di Dio. Sarà grazie a queste potature che egli si formerà e si preparerà ad essere sostegno agli altri credenti e ad essere missionario per il mondo pagano. Si rifugia nella sua città natale, Tarso, donde lo preleverà Barnaba per iniziare l’evangelizzazione della grande città di Antiochia. Verità della sua vita è e rimane Gesù, fondamento di tutta la sua nuova esistenza!

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6ª Domenica di Pasqua - B
1ª lettura At 10,25-27.34-35.44-48 dal Salmo 97 2ª lettura 1Gv 4,7-10 Vangelo Gv 15,9-17

“Dio non fa preferenza di persone”: così parla Pietro quando arriva in casa del centurione romano Cornelio. L’apostolo si è accorto, con sua stessa sorpresa, che per Dio tutti gli uomini sono uguali, tutti amati da lui, tutti ritenuti degni di unirsi al Figlio e quindi di ricevere lo Spirito Santo. Per un ebreo - e Pietro era ebreo - questa novità è sconvolgente, perché scopre di non avere precedenza alcuna di fronte a Dio. Ormai, con la venuta di Gesù, il popolo ebraico ha adempiuto la sua missione, e anch’esso deve mettersi dietro al Messia insieme agli altri per seguirlo. Se Dio non ha più motivo di fare preferenze, nemmeno noi. Nostro compito è diffondere la luce e la pace di Dio, cioè il suo amore, e diffonderlo sempre, ovunque, a tutti, senza lasciarci ostacolare da nulla.
Gesù parla di amore ed esorta i suoi discepoli a rimanere nel suo amore. Il suo amore si rivolge a tutti, come egli stesso ci ha lasciato vedere in varie occasioni. Egli ha amato gli ebrei, ma anche la donna pagana, ha amato i benpensanti, ma anche mendicanti e lebbrosi e malati emarginati dalla loro società, ha amato gli uomini, ma anche le donne e i bambini, e persino i samaritani e i cosiddetti peccatori. Io rimango nel suo amore quando condivido la sua attenzione a tutti questi, cioè ad ogni uomo, perché ogni uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio. Per riuscire ad amare tutti è necessario, e sufficiente, “rimanere” nell’amore di Gesù. Chi ama Gesù, infatti, cerca di imitarlo, e di ascoltarlo, e riceve luce e forza per continuare l’amore, cioè la vita di Dio. Dio infatti è amore, ci ripete l’evangelista Giovanni nella sua lettera ai cristiani: “Dio è amore”!
Spesso è difficile per noi vivere nell’amore, parlare con amore, pensare con amore e fare ogni cosa che si fa come un dono gratuito del nostro cuore. È difficile, perché l’egoismo e l’orgoglio e la vanità sono sempre lì che ci vogliono guidare e dominare. Per questo Gesù deve usare il termine comandamento. Egli ci “comanda” di amare! Ci comanda di imitarlo nell’amore e ci comanda di amarci gli uni gli altri perché lui ci ha amati. Noi ci siamo abituati a considerare l’amore come fosse un sentimento, e così ci siamo abituati a pensare che l’amore non si può comandare. È vero, se l’amore fosse un sentimento bisogna aspettarlo quando viene. Il sentimento dell’amore, come quello della simpatia e quello dell’attrazione reciproca non dipende dalla nostra volontà, o perlomeno non sempre. Il sentimento dell’amore non può essere comandato. L’amore vero però, cioè il dono di se stessi, non è un sentimento. L’amore vero è l’offerta di sè nella ricerca del vero bene di un’altra persona o di molte altre persone, anche a costo di fare fatica e di sottomettersi a qualche sofferenza. L’amore vero costa. Questo amore può essere comandato. Il bello è che chi ubbidisce a questo comando non sente il peso della costrizione, ma sente crescere in sè la gioia e la libertà. Quando Gesù ci comanda di amarci gli uni gli altri sa di avviarci alla gioia vera, di metterci sulla strada che ci darà le più grandi soddisfazioni, e soprattutto sulla strada che crea rapporti veri con i fratelli e con tutti.
Dobbiamo dire anche che il comandamento “amatevi gli uni gli altri” ci avvia a vivere la vita stessa di Dio. Dio Padre e Figlio e Spirito Santo vivono amandosi l’un l’altro: tra di loro la gara dell’amore non è finita. Essi vivono tra di loro un’unica relazione, quella dell’amore che dona all’altro fiducia e obbedienza. E così la loro unità è perfetta, tanto da potersi chiamare un unico Dio! Gesù ci chiama non più servi, ma amici, perché anche noi, obbedendo al suo nuovo comandamento, entriamo nella sua stessa vita, nella vita di Dio.
L’origine dell’amore è la vita di Dio, non la nostra volontà. Per questo san Giovanni può dirci che non siamo stati noi ad amare Dio, ma lui ha amato noi, e per dimostrarcelo e realizzarlo, ha mandato il suo Figlio a morire per i nostri peccati. L’amore di Dio è Gesù. Gesù quindi è anche il nostro più vero e più grande amore per chiunque vogliamo amare. Se non doniamo Gesù, e lo facciamo vivendo la sua Parola, non amiamo nessuno!

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Ascensione del Signore - B
1ª lettura At 1,1-11 dal Salmo 46 2ª lettura Ef 4,1-13 Vangelo Mc 16,15-20

“Fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo”: così san Luca ci narra l’esperienza vissuta dagli apostoli sul monte degli ulivi. Essi non videro più Gesù. Una nube per un momento ha sostituito la sua figura e poi non videro più nemmeno quella. Provate a immaginare ciò che può essere avvenuto nel loro intimo. Si ritrovano da soli, senza più la sicurezza di vedere il volto e di sentire la Parola rassicurante e autorevole del Maestro. Rimane in loro l’eco delle sue ultime parole, che a loro volta risvegliano il ricordo delle altre da lui pronunciate in svariate occasioni. Essi devono rallegrarsi del fatto che se ne sia andato: questa gioia è segno che lo amano davvero. E devono amarsi gli uni gli altri, e amarsi significa servirsi reciprocamente. Riaffiorano i ricordi delle loro discussioni su chi deve essere ritenuto il primo, il capo tra loro, e di conseguenza le risposte ricevute dal Signore: ognuno deve cercare di essere grande umiliandosi nel servizio, perché è grande colui che serve il più piccolo. Inizia tra di loro la gara di chi serve di più. Ora, rimasti soli, essi cominciano a capire e a rendersi conto che il regno di Dio è nelle loro mani, o, meglio, che esso dipende dalla loro umiltà.
Gesù ha dato loro l’ordine di andare in tutto il mondo. Ma come partire? In che direzione muoversi? Chi li può orientare in queste nuove scelte? Dove prendere il coraggio per iniziare una nuova vita? Intanto ubbidiscono all’ultima Parola ricevuta: “Ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre «quella, disse, che voi avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni». Rimangono nel luogo nascosto, in attesa. In quel silenzio cominciano a mettere radici nel loro intimo e a maturare come semi di grano le parole ricevute e ascoltate in quegli ultimi mesi.
L’Ascensione di Gesù è una tappa importante nella storia degli apostoli, e quindi della Chiesa tutta. Questa comincia a vivere da sola, senza poter contare sulla presenza visibile del Maestro, come il bambino che nasce: quando viene staccato dalla madre, deve respirare da solo, cominciare a nutrirsi con la propria bocca, imparare a muoversi indipendentemente dalla madre, che lentamente e gradualmente si allontana da lui.
Gesù ha assicurato ai discepoli la sua continua presenza accanto a loro, ma di questa presenza si accorgeranno solo quando gli ubbidiranno. Allora egli dal suo nascondimento agirà, quando essi renderanno visibile la loro fede e il loro amore per lui. Il nemico sarà vinto, il loro parlare sarà compreso da tutti i popoli, le loro mani saranno prodigiosa medicina per i sofferenti della terra. Misteriosamente, ma efficacemente, essi si accorgeranno di essere accompagnati da lui. La Chiesa continua lungo i secoli ad essere il luogo dove Gesù è presente e dona agli uomini la sua pace e la sua salvezza. Ed egli, seduto alla destra di Dio, non è né lontano né in ozio!
Godiamo di questo mistero: esso dà valore e garanzia ai carismi che Dio ha distribuito sulla terra. Noi infatti obbediamo ai pastori e apostoli perché Gesù li vivifica dall’alto, restiamo uniti tra noi perché dall’alto egli ci guarda e ci guida. Egli è alla destra del Padre, perciò nulla gli sfugge: non possiamo ingannarlo, né tradirlo. La più sicura e bella dimostrazione della verità di questo mistero è la nostra unità. I tentativi di divisione e gli atti di disubbidienza nella Chiesa sono impedimento a credere che Gesù sia alla destra del Padre: per questo sono gravissimo peccato e scandalo pesante. San Paolo proprio in questo giorno ci rinnova l’esortazione ad essere uniti, benché ci costi la fatica di sopportare i fratelli e l’umiltà di camminare al passo degli altri.
Celebriamo la vita della Chiesa, come corpo che si lascia guidare dal suo Capo: questi non usa i ragionamenti e le motivazioni della terra, perché respira la sapienza e la potenza di Dio. Preghiamo per la Chiesa e per la missione che oggi essa ha ricevuto: essere il suo Corpo sulla terra, per portare con la vita e la parola il suo vangelo a tutti i popoli.

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Pentecoste - B
1ª lettura At 2,1-11 dal Salmo 103 2ª lettura Gal 5,16-25 Vangelo Gv 15,26-27; 16,12-15

“Vieni, Santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore, alleluia”: così abbiamo cantato per accogliere la proclamazione del Vangelo.
La Chiesa chiama lo Spirito Santo. È lui che la rende Corpo di Cristo, è lui che fa di ogni suo membro il tempio di Dio. La Chiesa lo chiama non solo oggi, ma lo chiama tutti i giorni, perché è lui quel “pane quotidiano” di cui ha bisogno per essere la dimora di Dio e per compiere la propria missione nel mondo. È lo Spirito Santo il pane che nutre e rafforza i singoli membri del Corpo di Cristo, che impedisce ad esso di smembrarsi e di dividersi. Ed è lui che trasforma il pane eucaristico in cibo di vita eterna e il vino in sangue dell’alleanza e bevanda di salvezza. È ancora lo Spirito Santo che fa della Chiesa l’edificio spirituale in cui il Padre può accogliere quelli che amano Gesù. È lo Spirito Santo che rende la Chiesa strumento di pace e di benedizione per tutti quelli che la incrociano sulle strade del mondo. È lo Spirito Santo che, accolto nei cuori e nella vita di ogni fedele, gli fa portare quel frutto che lo fa riconoscere figlio di Dio! È proprio di questo frutto che oggi ci parla San Paolo nella seconda lettura. Dio, rispondendo alla preghiera di Gesù, ha mandato il suo Spirito proprio in vista del molteplice frutto che esso porta nella vita dell’uomo, e quindi a trasformare le relazioni vissute dagli uomini tra di loro.
Ci è sempre utile risentire le caratteristiche del frutto dello Spirito, così come le ha descritte San Paolo. Esso, come abbiamo udito, non è qualcosa di materiale o qualche particolare opera che viene svolta con impegno dai fedeli. Esso è invece il clima che si crea nei rapporti interpersonali tra i credenti: “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sè”. Ognuna di queste nove parole è una miniera di bellezza, di desideri santi, di grazia. Oggi vorrei fissare la vostra attenzione su di uno di questi aspetti del frutto dello Spirito, quello che mi pare sia spesso assente nella vita di molti cristiani, e la cui assenza genera una catena di gravi sofferenze: la fedeltà. Lo Spirito Santo presente in noi ci rende “fedeli”. La fedeltà è una delle caratteristiche dell’amore di Dio per il suo popolo e per tutta l’umanità. L’amore di Dio è fedele: ciò significa che esso è sempre presente, su di esso puoi contare in ogni momento, perché non viene mai meno. Anche se tu fossi peccatore e ribelle al tuo Dio, egli è fedele e continua ad avvolgerti nel suo amore. La fedeltà dell’amore di Dio ce la descrive Gesù anche nella parabola del padre che attende il figlio prodigo. Ebbene, la fedeltà è frutto dello Spirito. Perché ci sia fedeltà nella nostra vita è necessario che ci sia lo Spirito Santo!
Mi vengono in mente i coniugi: il matrimonio infatti è fondato sull’amore, e appunto sull’amore fedele. Se non c’è fedeltà, la famiglia non regge, se gli sposi non vivono la fedeltà nel loro amore essi soffrono e i figli non maturano serenamente. La fedeltà nell’amore è necessaria perché tutti i rapporti che si instaurano nella famiglia, sia tra gli sposi che tra i genitori e i figli e tra i fratelli, diventino stabili, armoniosi, sicuri e gioiosi. La fedeltà è frutto dello Spirito, quindi, perché gli sposi siano fedeli, devono farsi riempire di Spirito Santo dal Signore, e questo accade quando essi pregano! La preghiera personale e la preghiera comunitaria, le devozioni e soprattutto le celebrazioni dei Sacramenti sono le riserve dello Spirito Santo! Quando una famiglia non prega, anche se gli sposi si fossero uniti in matrimonio in chiesa, come può essere presente in essa lo Spirito Santo? Dove attingeranno forza e volontà per essere fedeli l’un l’altro? Se in una fontana non entra acqua, presto si prosciugherà. Se nella famiglia non continua ad arrivare Spirito Santo, in quella famiglia verrà meno anche la fedeltà.
“Vieni, Santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore, alleluia”. Continuiamo questa preghiera, donando al Signore spazi di tempo, non solo scampoli. Se la fedeltà ci preme, troveremo il tempo da dedicare a Dio perché egli possa riempirci e rivestirci del suo Spirito. Vivremo le celebrazioni settimanali, non saltuariamente, ma con fedeltà, in modo sempre più vivo e partecipato. Iniziamo a rafforzare le nostre famiglie e la nostra società facendo spazio allo Spirito Santo nella nostra vita: non tarderemo a vedere il frutto! E diverremo testimoni credibili di Gesù, come lui stesso ha detto nel breve brano del vangelo di oggi.

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Ss.ma Trinità - B
1ª lettura Dt 4,32-34.39-40 dal Salmo 32 2ª lettura Rm 8,14-17 Vangelo Mt 28,16-20

Gesù e gli apostoli parlano con tanta tranquillità e sicurezza di Dio Padre, come Padre di Gesù, di questi come del Figlio amato e unito al Padre, e dello Spirito Santo come dono che il Padre ci manda tramite il Figlio e che il Figlio chiede per noi al Padre. Sono tre persone che vivono un’unione d’amore perfetto, che sono distinte e diverse, ma non fanno nulla da sole, nulla in contrapposizione l’una all’altra. Per questo noi affermiamo che esse sono un solo Dio, ma non come unica persona, bensì come unica comunione che ci coinvolge nella sua relazione d’amore. Se noi pensiamo al Padre, Gesù è contento e lo Spirito Santo rende quel nostro pensare ricco d’amore. Se pensiamo a Gesù, il Padre gode e lo Spirito Santo ci rende obbedienti al Figlio. Se pensiamo allo Spirito Santo, Padre e Figlio sono coinvolti e presenti con la ricchezza della loro consolazione e fortezza.
L’amore che anima le tre divine persone e le unisce si trasmette a noi. San Paolo ce lo assicura quando dice che lo Spirito ci rende figli di Dio e ci fa gridare “Abbà”, cioè: Padre! Padre Figlio e Spirito Santo sono uniti dall’amore, tanto che San Giovanni ha potuto scrivere: “Dio è amore”! e Dio in quest’amore vuole accogliere anche noi, benché peccatori. Per questo, come dice Gesù nel vangelo di oggi, ha inviati gli apostoli col comando: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Battezzare significa immergere, far entrare: Dio attende tutti i popoli dentro la bellezza e la grazia del suo amore. La sua vita d’amore è come un vortice che vuole attirare tutti noi trasformandoci e donandoci di partecipare alla sua pienezza di vita e di luce gioiosa. Ciò avviene quando impariamo ad osservare quanto il Figlio ha insegnato. Per questo gli apostoli devono insegnare quanto è uscito dalla bocca di Gesù. Gli uomini spontaneamente non avrebbero capacità di arrivare con la propria intelligenza e il proprio ragionamento a quella conoscenza di Dio che Gesù ci ha rivelato, e quindi nemmeno a vivere in comunione e in pace gli uni con gli altri. Siamo troppo impregnati di egoismo, che trasuda da ogni nostra opera, anche da quelle buone.
Mosè diceva, come abbiamo udito dalla prima lettura, che nessun popolo ha udito insegnamenti così sapienti come quelli che Dio ha rivelato. Quelli sono la via della felicità di chi li vive e dei loro discendenti. Se vogliamo dare gioia e futuro ai nostri figli, dobbiamo ubbidire a Dio! Ubbidendo a lui ascoltiamo Gesù, ascoltando Gesù entriamo nell’amore e diffondiamo l’amore attorno a noi. L’amore poi è l’ambiente in cui la nostra vita si sviluppa e si sente realizzata. Gesù perciò è necessario ad ogni uomo, e con Gesù vediamo il Padre e siamo da lui accolti e riceviamo il dono di essere guidati dallo Spirito Santo e di trasmetterne la luce e la sapienza a chi ci avvicina.
Oggi facciamo festa perché ci è stata data questa profonda conoscenza di Dio, anzi, perché ci è stato concesso di esservi immersi grazie al battesimo. Questo per noi è grande privilegio, ma soprattutto anche grande responsabilità. Condividiamo l’amore di Dio, e quest’amore ci fa essere rivolti a tutti gli uomini che ci circondano per amarli. Li amiamo davvero quando li aiutiamo a entrare anch’essi in quel vortice d’amore in cui noi ci troviamo, dentro l’amore gratuito di Dio. Li aiutiamo quando trasmettiamo la conoscenza di Dio che a noi è stata donata, quando li rendiamo partecipi della Parola di Gesù e della pazienza e benevolenza dello Spirito.
Godiamo del nostro Dio, godiamo di conoscerlo, come nessun altro popolo al mondo lo conosce. Non ce ne facciamo un vanto, ma un impegno. Che nessuno passi vicino a me senza sentire il calore e vedere la luce del mio Dio!

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Ss.mo Corpo e Sangue del Signore - B
1ª lettura Es 24,3-8 dal Salmo 115 2ª lettura Eb 9,11-15 Vangelo Mc 14,12-16.22-26

Gesù parla di alleanza nuova. Mosè stabilì l’alleanza tra Dio e il popolo con il sangue di giovenchi. L’alleanza era seria, tanto che il popolo ha capito e ha promesso: “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto”. Un popolo che ha Dio per alleato può starsene tranquillo, benché circondato da nemici più forti e agguerriti. Avere Dio per alleato significa sicurezza, stabilità, progresso. Per godere l’alleanza con Dio è necessario obbedire ai suoi comandi e quindi porre attenzione continua alla sua voce. Questo è ciò che il popolo non riesce a fare, perché quando gode di prosperità dimentica alleati e benefattori e si abbandona all’amore delle cose buone raggiunte, che per lui rischiano di diventare così degli idoli.
Dio, il Dio misericordioso e fedele, non abbandona il popolo idolatra. Pur lasciando che soffra, perché si accorga delle conseguenze nefaste dell’idolatria, lo segue con attenzione ed escogita un altro modo di stringere alleanza, un’alleanza tale, che non possa mai più essere infranta nemmeno dal peccato e dall’idolatria. Per stabilire questa alleanza si offre il Figlio, che assume per questo un corpo di carne, un corpo mortale, per poter donare il proprio sangue in sacrificio al posto di quello dei giovenchi.
Gesù dice infatti ai discepoli: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti”. È una nuova alleanza, tanto nuova da essere quasi inconcepibile. L’amore di Dio si manifesta pienamente con questa alleanza, dove l’impegno è solo suo. Il popolo, cioè gli uomini, hanno tutto e solo da guadagnare: non viene loro chiesto nulla, se non che bevano quel sangue, mangino quel corpo, e si lascino trasformare da questo nuovo cibo e da questa nuova bevanda. Questi si chiamano perciò «Eucaristia», cioè azione di grazie. Noi abbiamo solo da ringraziare. La nostra riconoscenza non è solo una parola. Vogliamo essere davvero riconoscenti, e perciò offriamo a Gesù quella vita che egli stesso ci dona: viviamo per lui, gli diamo attenzione e obbedienza, facciamo posto in noi al suo santo Spirito. A differenza delle precedenti alleanze, per le quali era necessario obbedire a dei comandi quasi come dei servi, offriamo amore, obbedienza da figli, un’obbedienza che viene dall’amore e non dal timore di rimanere senza alleato.
Oggi facciamo festa: riconosciamo il Corpo di Cristo e il suo Sangue come la nostra ricchezza più grande, il dono di cui non possiamo esser privi, perché saremmo privi di Dio. Questi non sarebbe più nostro alleato! Fin che è con noi il Corpo e il Sangue di Cristo possiamo contare sulla presenza di Dio con noi, possiamo quindi sperare e cantare di gioia, nonostante i pericoli e anche le sofferenze quotidiane.
In molti luoghi possiamo osservare come sia venuta meno la speranza e la fiducia, la gioia e la serenità. Guardiamo con attenzione: là, in quei luoghi, è venuta meno l’attenzione alla presenza eucaristica, è venuta meno la partecipazione all’Eucaristia, per cause diverse. C’è chi non partecipa all’Eucaristia perché ha impostato la propria vita su strade che ignorano la comunione ecclesiale, come la convivenza senza la benedizione del Sacramento nuziale. C’è chi non partecipa all’Eucaristia perché non vive eucaristicamente, cioè non fa della propria vita un render grazie, ma continua a vantar diritti e perciò ignora i propri doveri e la propria obbedienza a Dio: egoismo e peccati sono diventati il suo pane quotidiano.
Oggi dichiariamo pubblicamente a noi gli uni agli altri, ma anche a tutti uscendo dalla chiesa in processione, che fonte della nostra speranza e del nostro amore alla vita e alla società è l’alleanza con Dio, quell’alleanza che è concretizzata dal Corpo e dal Sangue di Cristo Gesù, che si è offerto per noi e per tutti. La nostra processione diventa un invito missionario, invito a considerare che la stranezza di quel Pane, centro di un popolo, è fonte di vita vera, vita piena di amore vero!

Nulla osta: P.Modesto Sartori, ofm capp, Cens. Eccl., Arco, 18/10/2014

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