Venite, applaudiamo al Signore!
Venite, applaudiamo al Signore!
Salmo 95 (94)
Ogni giorno, da duemila anni, la comunità dei cristiani, la Chiesa, inizia le sue giornate cantando un salmo d’invito alla preghiera. Di solito questo Salmo è il 95. Lo scegliamo, insieme con alcuni versetti dell’Apocalisse, per introdurci alla conoscenza e contemplazione del Padre.
La pienezza della rivelazione di Dio Padre ci viene donata da Gesù, anzi, dallo Spirito che Gesù risorto alita su di noi. Questo santo e vivificante Spirito ci illumina pure tutte le Scritture, affinché in esse possiamo trovare quei lineamenti del volto di Dio, che poi riconosciamo presenti e operanti nella vita, nelle parole, nei sospiri del Figlio suo!
Vieni, Santo Spirito, aprici mente e cuore, aprici occhi e orecchi, e ameremo il Padre del Signore Gesù, e - trasformati dalla sua Luce - diverremo strumento della sua rivelazione al mondo, che egli ama e vuole salvare!
Don Vigilio Covi
1.
1 Venite, applaudiamo al Signore,
acclamiamo alla roccia della nostra salvezza.
2 Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia.
Mi sono recato più volte nella città in cui, con la benedizione della Chiesa, la nostra comunità è presente in Turchia. È una città totalmente islamica, e i suoi abitanti sono molto fedeli e attenti a seguire le indicazioni e i precetti dati loro dal Corano e dalle tradizioni sunnite. Al mattino presto, quand’è ancora buio, risuona e riecheggia più volte il canto dall’alto dei minareti. Non comprendo le parole arabe, che vengono trasformate in ampie modulazioni: m’è stato detto però il loro significato. Esse sono una affermazione dell’unicità di Dio, una professione di fede in lui e in Maometto, ritenuto suo profeta; si concludono con il ripetuto invito: «Venite alla preghiera, pregare è meglio che dormire!» Lo stesso canto quasi e le stesse parole risuonano con forza altre quattro volte lungo la giornata accompagnando il movimento del sole fino al suo scomparire all’orizzonte. Venite alla preghiera!
Mi sono ricordato di questo canto questa mattina, quando con tutta la Chiesa di Dio ho iniziato la giornata cantando: «Venite, applaudiamo al Signore!». Tutti insieme ci invitiamo gli uni gli altri e accogliamo l’invito che risuona dalle labbra dei fratelli: Venite, applaudiamo al Signore!
Chi è questo «Signore» che ci invitiamo ad applaudire e acclamare? Già il fatto di volerlo applaudire rivela che Egli è una persona importante, è Qualcuno cui dobbiamo molto, è Uno che ha suscitato gioia e speranza nel nostro cuore. Applaudirlo o acclamarlo è un voler attirare l’attenzione anche degli altri sulla sua presenza, una Presenza che è ricchezza e benedizione per tutti.
Applaudirlo è perciò al tempo stesso manifestazione di gioia, frutto della sua vita e amore agli uomini distratti, perché, richiamati dal canto, concentrino - rivolgano cioè al centro comune - il loro sguardo e il loro ascolto.
Il primo motivo che suscita ammirazione verso Dio è espresso dall’immagine che richiamiamo: «roccia della nostra salvezza».
Ci spostiamo nella cultura della vita ancora nomade o seminomade del popolo d’Israele, che doveva difendersi da incursioni e razzie di tribù rivali e mettersi al sicuro da nemici di varia natura. Il luogo più adatto a tale scopo è qualche altura rocciosa sulla quale nessuno possa arrampicarsi e dalla quale facilmente si possa respingere l’attacco di nemici o predoni.
La rupe della salvezza, il luogo irraggiungibile per il nostro peggiore nemico è il cuore di Dio! Quando ci fissiamo in lui, chi ci può far del male? Egli è un papà. Il nostro salmo non sa usare ancora questa parola, ma già comincia a suscitare in noi quei sentimenti e a provocare quegli atteggiamenti che nascono e crescono alla presenza di un papà, di un vero papà. Li vedi quei bambini che, la sera, quando sentono i passi del papà salire le scale, di ritorno dal lavoro, si alzano felici e battendo le mani gli corrono incontro?
Ecco, noi siamo quei bimbi, che di mattino, appena svegli, già ci accorgiamo del nostro Papà e gli battiamo le mani perché egli starà tutto il giorno con noi, non ci lascerà nemmeno per un momento, e noi staremo sicuri e sereni, senza temere di nulla. Alla sua presenza ci sentiamo come su una roccia, al sicuro: possiamo andare e venire, cantare, lavorare e riposare; nessuno ci raggiungerà per farci del male. Dio, il nostro Dio, ci ha posto al sicuro nelle sue braccia, braccia di papà forte e vigilante. Egli è rupe di salvezza!
Posso continuare a ringraziarlo, anche per te, posso cantare e unirmi al tuo canto di gioia e libertà!
Venite, applaudiamo al Signore!
2.
3 Poiché grande Dio è il Signore,
grande re sopra tutti gli dei.
4 Nella sua mano sono gli abissi della terra,
sono sue le vette dei monti.
5 Suo è il mare, egli l'ha fatto,
le sue mani hanno plasmato la terra.
Per applaudire il nostro Dio abbiamo dei motivi; il principale è la scoperta che facciamo, o la rivelazione che ci viene data, della sua grandezza. Egli è grande! La parola ‘grande’ si addice solo a lui, perché non c’è nulla e nessuno che lo superi, anzi, tutte le cose e tutte le persone, confrontandosi con lui, risultano davvero piccole, se non addirittura insignificanti.
Egli è grande Dio: cosa vuol dire la parola ‘grande’? I significati possono essere molteplici e vari, e dipendono da ciò che metto a confronto al mio Dio, quando sto davanti a lui; con questo termine confesso la mia piccolezza, una mia sostanziale incapacità a stare alla pari con lui. Egli è grande, perciò non lo giudico, non gli insegno nulla, non pretendo di essere considerato da lui, non lo raggiungo. Egli è grande, perciò vivo sempre facendo conto su di lui, sulla sua potenza e capacità, come il bambino che confessa e proclama la grandezza di suo papà e perciò non teme i compagni e non dispera dei piccoli guai che commette: il papà può aggiustare tutto!
Egli è grande anche di fronte a tutte le immagini di Dio che l’uomo si forma, e di fronte a tutte quelle cose che pretendono di avere nel mio cuore il posto riservato da sempre al vero Dio!
«Grande re sopra tutti gli dei!» Tutti gli dei, cioè tutte le cose e abitudini e usanze che hanno un peso nella vita, quelle realtà cui io non vorrei rinunciare, quei valori che mi hanno dato soddisfazione e quelle realtà da cui spero gratificazione, tutti questi “dèi” sono sottomessi al mio grande Dio! Egli è il re, colui cui io permetto di dominare in mezzo a tutte le realtà importanti. Queste, se Egli regna su di loro, rimangono realtà belle, strumenti di vita e non divengono idoli di morte.
Se invece dimentico la grandezza di Dio, la sua priorità su tutto, ogni cosa diviene un assoluto, diventa idolo che soffoca la vita.
«Grande re sopra tutti gli dei»: la sua grandezza, una grandezza amata e benefica, permette il ridimensionarsi di tutto il resto, che viene ad occupare il proprio posto in un ordine della vita e del creato che si armonizza con semplicità.
La grandezza di Dio è la grandezza del papà, che orienta, corregge, dà valore alle piccole cose e tiene a freno quelle più grandi, tutto per il bene dei suoi figlioli.
«Nella sua mano sono gli abissi della terra!».
Se osservo la grandezza del mio Dio non mi fa più paura nulla: gli abissi della terra sono quelle zone nascoste della vita umana sulle quali io non ho alcun potere; sono quelle circostanze del nostro cammino che non possiamo dominare, dentro le quali ci potremmo solo perdere: malattie, disastri sociali, ingiustizie, situazioni impenetrabili alle limitate capacità sia dei singoli che della società.
«Nella sua mano…» La grandezza di Dio è tale che egli può adoperare, redimere, rendere utili anche queste emergenze che a me fanno solo paura. Anche questo è nella sua mano: di che cosa e di chi avrò paura? Le sue mani sono quelle che hanno plasmato la terra, e perciò la conoscono bene; sono le mani che accarezzano le montagne irraggiungibili e giocano con le profondità dei mari.
Quel Dio cui applaudiamo merita davvero gli applausi. Ogni cosa che per noi ha del tremendo e del pauroso, del misterioso e dell’incerto, per lui è come giocattolo che il papà custodisce e passa di volta in volta alle mani e allo sguardo stupito dei suoi bambini, lo consegna loro e poi lo riprende per custodirlo di nuovo.
Dio è grande davvero, grande come un papà agli occhi del suo bambino! Per lui l’immensità degli oceani e l’altitudine dei monti sono piccole cose tranquille: cercherò di guardare anch’io alle mani che le hanno plasmate e allora non sarò preso da paura o da timore di fronte ad esse. Grande è solo il nostro re, Dio, il Padre!
3.
6 Venite, prostrati adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha creati.
In questa - ormai nostra - preghiera del mattino continuiamo l’invito già risuonato all’inizio: Venite! A chi faccio io questa proposta? Chi voglio chiamare a partecipare al mio applaudire, alla mia gioia, alla mia contemplazione? Chi sta ascoltando queste mie parole? Chi accoglierà la chiamata e muoverà i suoi passi insieme con i miei?
Vorrei che nessuno fosse sordo, vorrei che nessuno dormisse ancora. Io non pongo limiti: venite! Chiunque può udire la mia voce che chiama: vorrei gridarla anch’io dall’alto del campanile e darle ali perché arrivi lontano ed entri da ogni porta e finestra insieme alla prima luce dell’aurora!
Venite!
Può venire il peccatore, colui che sente pesare sul cuore azioni compiute senza amore, può venire il povero, il debole, colui che soffre per il peccato di altri, ma può venire anche colui che sta facendo soffrire, può venire il papà che non è stato capace di fare il segno di croce in presenza dei suoi figli, può venire la sposa che ha risposto male allo sposo, può venire il bambino preoccupato dei suoi compiti da portare a scuola e quello contento d’aver completato l’album di figurine! Può venire l’anziano che non ha dormito stanotte e può venire il giovane felice d’aver ricevuto ieri il sorriso più bello dalla ragazza dei suoi sogni.
Venite!
Che cosa faremo? Come continueremo l’applauso al nostro grande Dio? Faremo così: ci prostreremo, adorando! Piegheremo le ginocchia, curveremo le spalle, toccheremo la terra con la fronte! Cercheremo di abbassarci talmente da non porre più ostacolo alla luce, in modo che essa non debba creare zone d’ombra. Ci metteremo nella posizione di colui che vorrebbe scomparire perché risplenda in tutto il suo fulgore la Presenza di Colui che amiamo!
Prostrati adoriamo!
La parola «adorare» è nata dal cuore di una mamma che invitava il bambino ad accostare la mano alla bocca per mandare dalla finestra un bacio al papà già sceso per andare al lavoro!
Venite, adoriamo!
Esprimiamo con piccoli gesti il nostro amore a Colui che non possiamo abbracciare, a Colui che non possiamo raggiungere né con le mani né con la bocca, ma e mani e bocca ancora si muovono verso di lui!
Prostrati adoriamo!
Il nostro gesto di amore coinvolge non solo mani e bocca, ma tutto il nostro essere, corpo e anima. Il corpo si piega, si rannicchia, si abbassa, le ginocchia toccano terra in una posizione di non resistenza, quasi a dire la volontà di essere impotenti, disarmati completamente. Questi movimenti del corpo ci aiutano a piegare pure quell’orgoglio che in noi non muore mai, che continua a rimettersi nella stessa posizione anche dopo esser stato piegato, come una molla, come un ramo di una pianta che si rialza quando cadono i frutti che lo tenevano abbassato.
Venite, adoriamo, in ginocchio!
Il nostro orgoglio e la nostra superbia devono piegarsi subito, fin dal mattino, davanti al nostro Dio e alla sua grandezza, altrimenti oggi potremo credere d’esser padroni di noi stessi e delle cose che ci sono affidate, e non vedremo più la bellezza del creato né udremo la voce del Creatore e faremo soffrire coloro che da noi attendono gioia! Piegando le ginocchia e curvando la fronte «davanti al Signore che ci ha creati» si spezzerà quell’orgoglio che tende a trasformarsi in superba autosufficienza e in inutile e dannosa vanagloria.
Siamo davanti a colui che ci ha creati: come potremo dimenticare le nostre origini?
Usciamo dalle mani che con molta cura e attenzione hanno reso concreto un amore infinitamente sapiente!
Nessun uomo, scienziato e ricercatore, è ancora riuscito a mettere in luce tutta la sapienza degli infiniti invisibili congegni che legano le varie particelle del nostro sangue a tutti gli organi di cui è intessuto il nostro corpo!
Ci inginocchiamo davanti a colui che ci ha creati, e che conosce quindi non solo la funzionalità delle singole cellule delle nostre membra, ma anche il loro significato in ordine al nostro ultimo fine, lo scopo del nostro essere qui ora.
Egli ci ha messi qui, egli ha pensato questo tempo come il migliore per noi, e noi adatti per le circostanze in cui ci troviamo. Egli è davvero il «Signore»: piego le ginocchia davanti a lui, nell’attesa che egli manifesti i suoi desideri e i suoi progetti dentro i quali impegnare tutto il mio amore e la mia volontà!
Venite, adoriamo!
4
Egli è il nostro Dio
e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce.
Ci troviamo ancora in ginocchio e continuiamo l’invito all’adorazione rivolto a tutti gli uomini. Ad essi abbiamo presentato la grandezza di Dio, una grandezza che noi percepiamo ogni volta che apriamo gli occhi sulle piccole e grandi cose che ci circondano e ogni volta che li chiudiamo per sondare le profondità del nostro cuore e dei ricordi della nostra vita passata e i sogni per quella futura. Ora continuiamo a parlare di lui: «Egli è il nostro Dio»!
È una confessione preziosa. È come dire: noi non siamo soli. C’è qualcuno che noi riconosciamo presente e operante, qualcuno più grande di noi a cui preme la nostra esistenza, a cui abbiamo affidato la nostra storia. Noi non siamo protagonisti se non del nostro rapporto con lui. Chi vuol conoscerci deve conoscere anche lui, chi vuole incontrarci deve incontrarsi con lui, chi ci vuol bene riceve il suo favore, chi si fa nostro nemico si rende nemico a lui! Egli è il Signore Dio: siamo perciò al sicuro, perché colui che ci ha creati, ci ha amati, e continua ad amare e apprezzare l’opera delle sue mani! Egli è il nostro Dio!
Col termine «dio» ci siamo abituati ad indicare quella realtà cui gli uomini fanno continuo riferimento per le loro scelte. Per questo diciamo che qualcuno ha come dio il denaro, altri il potere, altri il piacere sessuale, altri la gloria umana, anche se acquistata solo con sforzo di muscoli atletici o di intelligenza organizzativa e scientifica. Queste seducenti realtà che tanto attirano e possiedono il cuore di molte persone, sono in pratica degli «dèi»; degli dèi però traditori e ingannatori che non riescono a spiegare il passato dell’uomo né a dargli speranza per l’eternità. Il loro influsso s’interrompe bruscamente e inesorabilmente con la morte, se non addirittura con una semplice malattia o con un imprevisto insuccesso. Sono perciò dèi che noi riteniamo idoli, vanità, nulla! T’appoggi su di loro, ed ecco, sei appoggiato sul vuoto!
Io mi appoggio su colui che tiene in mano le stelle e ha creato la mia vita. Egli è il nostro Dio. A lui posso fare riferimento sicuro, tanto che proprio in questo riferimento a lui si rivela la mia e la nostra identità. Chi sono io? Chi siamo noi?
Siamo «il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce».
Ecco chi siamo noi, ecco chi sono io. Io non sono solo, ma membro di un popolo, perché colui che ha amato e creato me non ha pensato solo a me. Siamo popolo del suo pascolo! Egli non si è limitato a creare, ma continua ad occuparsi di noi, proprio come un pastore che non solo acquista le pecore, ma, una volta acquistate, pensa a condurle, nutrirle, difenderle, curarle, farle riposare.
Ogni cosa che ci succede trova la sua spiegazione e il suo significato in questa cura del Pastore grande ed eterno. Noi siamo davvero riconoscibili soltanto alla luce del rapporto che Lui, il Pastore, ha con noi. Senza questo rapporto, chi saremmo noi? Un po’ di fumo che si disperde, erba che, falciata, dissecca, rami tagliati di cui non si conosce l’albero di provenienza, lattine abbandonate ai bordi della strada. Ecco però che il rapporto che abbiamo col nostro Dio rivela la nostra più profonda e bella identità.
Verso un Dio che si rivela pastore attento e premuroso nasce in noi affetto, cresce fiducia, e, di quando in quando, nelle occasioni di difficoltà grandi, sorge in noi il desiderio di lasciar fare a lui: ci abbandoniamo alla sua cura come il bambino alle braccia della mamma. Allora non chiamiamo più il nostro Dio soltanto nostro pastore, ma troviamo per lui più connaturale la parola che solo il cuore osa pronunciare: padre! papà!
Non oseremmo formulare queste sillabe semplicissime se non l’avesse fatto già, per primo, Colui che si è abbandonato alle mani di Dio fin dentro la propria morte.
Egli ha osato pronunciare questo nome persino dall’alto della croce, alla presenza di coloro che l’avevano giudicata presunzione meritevole di morte. Proverò anch’io ad osare rivolgermi a Colui che mi ha creato con la confidenza e la fiducia che questa parola comporta. Pensa pure quello che desideri di me; considerami presuntuoso oppure infantile… sono però certo che la risposta del Padre al mio atteggiamento verso di lui sarà un sorriso, e un tendermi le braccia per sostenermi, per lavarmi e curarmi!
Noi, «gregge che egli conduce»! Noi, amati continuamente, seguiti passo passo, osservati con cura premurosa, diciamo:
Padre! Tu sei il nostro Dio, ti adoriamo amandoti!
5.
8 Ascoltate oggi la sua voce:
«Non indurite il cuore,
come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto,
9 dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova
pur avendo visto le mie opere.
L’invito ad applaudire, render grazie e adorare è riecheggiato dalle mie labbra, ma io pure l’ho udito rivolto a me da coloro che cantano con me queste parole nel buio del mattino! Pure il nostro Dio, che non dorme mai, ha udito il nostro desiderio di riconoscere la sua grandezza e di godere della sua cura benevola e sapiente. Egli vede il nostro affetto di bambini, e fa come una mamma! Una mamma, al bambino che si sveglia, rivolge per prima la parola: le sue sono parole dolci che esprimono un amore continuo, parole di tenerezza che invogliano il figlio ad alzarsi per vivere la giornata come un grande atto d’amore, parole ferme che orientano il bambino alle sue attività, ai suoi impegni personali e di famiglia, alle sue responsabilità quotidiane. Il bambino ascolta.
E se non ascoltasse?
«Ascoltate oggi la sua voce!»
Dio è come una mamma: egli ha vegliato, ha custodito i suoi figli come il pastore il gregge; ora che noi siamo svegli egli ci rivolge la parola: parola dolce, parola tenera, parola forte, indicazioni sicure. Egli ci ama, noi non facciamo come i bambini capricciosi che rifiutano la tenerezza e ignorano le attese della mamma.
«Non indurite il cuore!»
Questo invito mi viene rivolto con preoccupata insistenza perché ormai è risaputo che io, ripiegato su me stesso, anche se odo la voce del mio Dio, non le do ascolto, continuo a seguire i miei pensieri e miei ragionamenti, a coltivare i miei desideri e i miei sogni.
Continuo a ripetere la storia che s’è svolta nel deserto di Refidim. Là il popolo che seguiva Mosè si mise a lamentarsi e a protestare. Aveva già avuto varie dimostrazioni forti della presenza e della potenza del suo Dio; era già stato ascoltato in maniera inaspettata e miracolosa, esaudito in modi sorprendenti!
Nel deserto aveva trovato l’acqua salata, e Dio l’addolcì; era senza pane, e Dio fece scendere la manna; era senza carne, e Dio mandò quaglie in abbondanza! Ora manca l’acqua, e il popolo non ha fiducia, si lamenta e protesta. Dio poteva aspettarsi un gesto di abbandono fiducioso alla sua sapienza, avrebbe desiderato vedere il popolo in attesa paziente e sicura del nuovo intervento prodigioso. Nulla!
Nel deserto di Refidim il popolo fa contestazione (= Meriba) quando viene messo alla prova (= Massa).
È un popolo che non s’accorge dell’amore e della tenerezza con cui viene seguito e guidato dal suo Dio, come il bambino che non s’accorge dell’amore premuroso e previdente della mamma!
Noi non vogliamo ripetere questa «storia»! Vogliamo imparare dagli errori del passato, e anche dai nostri già commessi, e ritenere il nostro Dio capace di realizzare le promesse. Il suo sguardo posato su di noi è uno sguardo d’amore previdente, è lo sguardo di chi sa e può intervenire, ma non può dirmi tutto: del resto ciò impedirebbe la fiducia e la serenità che caratterizzano il rapporto di chi si ama reciprocamente!
«Ascoltate oggi la sua voce!»
Ho applaudito il mio Dio, l’ho ringraziato e adorato. Ora sto in attesa della sua Parola! La sua Parola è la luce per i passi che muoverò in questo giorno. La sua Parola è intelligente, è sapiente, è sicura, perché è parola di colui che mi ha creato e amato senza infedeltà!
«Parla, Signore, il tuo servo t’ascolta!»
Egli conosce la mia vita, il mio futuro, i risvolti della mia vita con gli altri e della loro vita con me. Solo di lui mi posso fidare, solo della sua parola. Egli non me la lascerà mancare, egli continuerà a pronunciare il mio nome e a chiamarmi a collaborare con lui.
Ascolterò!
Ascolterò oggi: i miei progetti a breve scadenza li metterò da parte, li lascerò cadere.
Ascolterò oggi: ogni momento sarò pronto a cambiare i miei disegni e programmi.
Oggi Dio è interessato alle mie risposte, oggi egli gode della mia fiducia e della mia obbedienza.
Oggi posso ascoltare, oggi posso dare una prova di adorazione vera al mio Dio, che mi parla come un papà!
Oggi compirò il gesto più tipico del figlio: ascolterò la voce che in molti modi farà giungere al mio orecchio e al mio cuore l’amore veramente paterno e materno del Dio più grande di tutti gli dei!
6.
10 Per quarant'anni mi disgustai di quella generazione
e dissi: Sono un popolo dal cuore traviato,
non conoscono le mie vie;
11 perciò ho giurato nel mio sdegno:
Non entreranno nel luogo del mio riposo».
È ancora Dio stesso che parla. La sua voce tenera e dolce non manca di assumere toni forti e decisi. Egli sa che gli uomini sono fragili: corrono continuamente il rischio di ripetere l’esperienza di Adamo. Come quegli si è lasciato ingannare dal serpente, così noi ci lasciamo sedurre dalle apparenze. Il popolo che aveva sperimentato in Egitto l’amore potente del suo Dio, continua a cadere nella sfiducia verso di lui. Ogni difficoltà, occasione per lasciar fare a lui, diventa invece momento di rottura. Dio è paziente, ma non è cieco né insensibile:
«Per quarant'anni mi disgustai di quella generazione».
Egli «soffre» per la mancanza di fiducia continuamente riscontrata nei suoi beneficati. Egli non si arrende troppo in fretta: è lento all’ira! Prima di decidere qualche provvedimento attende, e attende ancora. Quarant’anni! Quarant’anni sono una vita. Dio attende una vita prima di pronunciarsi. Alla fine non c’è più nulla da sperare: questa generazione è incorreggibile, ma almeno diventi lezione per quelle che verranno.
«Sono un popolo dal cuore traviato».
Il male è nel profondo, addirittura nel cuore, là dove sorgono i pensieri e dove si prendono le decisioni. Il male è nelle radici.
Dio non abbandona il popolo, no, non lo abbandona. Ma egli non può nemmeno lasciare che continui a ribellarsi, a lamentarsi e quindi a disobbedire: si rovinerebbe! Un popolo che non accoglie la sapienza di Dio si condanna allo sfacelo. Un popolo che per quarant’anni vive seguendo i propri istinti rischia l’autodistruzione. A Dio preme il futuro di questo popolo e perciò, come vero chirurgo, usa il bisturi.
« Sono un popolo dal cuore traviato,
non conoscono le mie vie».
È davvero preoccupante la situazione. C’è ignoranza e non c’è buona volontà. Questo popolo ignora le vie della vita e non ha volontà di cercarle. È come un figlio che cerca la droga. Il padre, che vuole essere padre, che vuole dare nuovamente vita al figlio, ricorre al rimedio estremo: lascia il figlio fuori casa. Lo consegna alla miseria più nera. Potrebbe sembrare crudeltà, ma il padre sa che questo è l’unico rimedio che gli resta. Il figlio, trovandosi privato di tutto, anche di ciò che riteneva fosse suo di diritto, comincerà a modificare i propri pensieri, comincerà ad ascoltare la voce del padre, comincerà a cercare di vincere le proprie tendenze e ad opporsi ai propri veri nemici.
Così Dio ha agito col suo popolo:
«Non entreranno nel luogo del mio riposo.»
Li lascia fuori casa. Non li fa entrare là dove hanno sempre sognato di arrivare. Così s’accorgono che nella loro casa c’è qualcuno che li accoglie sì, ma non per litigare! Si accorgono che Dio non è tale solo di nome, che egli non va sfruttato, ma obbedito. Senza obbedienza a Dio, la sua casa, consegnata all’uomo, non sarebbe più casa, luogo di riposo e di felicità, ma diverrebbe luogo di tormento e di disordine.
Il salmo, iniziato con gioia e con l’applauso al Dio vivo e Salvatore, termina con l’avvertimento e lo stimolo alla vigilanza. A Dio stesso preme che noi possiamo continuare a vivere nella gioia, e perciò ci mette in guardia dalla tentazione, sempre ricorrente, di far conto solo di noi senza pensare a lui!
Noi non vogliamo rimanere esclusi dal riposo di Dio, noi vogliamo godere la comunione con lui, essere accolti dal suo abbraccio gioioso e paterno. Per questo continuiamo a tenerci in ascolto, continuiamo a donare fiducia al Signore, ad abbandonarci nelle sue braccia!
Continuiamo l’adorazione e la contemplazione del suo volto e della sua opera!
Passano gli anni e Dio non invecchia mai. Le sue parole sono sempre vive, come appena pronunciate. Il suo cuore è sempre pronto, le sue mani non si sono stancate di sostenere la terra.
Io continuo a cantare: Venite, applaudiamo al Signore!
Venite, qui c’è la Vita, qui c’è la vera felicità: applaudiamo al Signore!
7.
Grandi e mirabili sono le tue opere,
o Signore, Dio onnipotente;
giuste e veraci le tue vie, o Re delle genti! (Ap 15,3)
È il cantico dell’Agnello, fiorito sulla bocca dei vincitori che hanno attraversato la morte come Mosè aveva attraversato il Mar Rosso. E come Mosè cantò un inno di gioia e di lode, così i redenti che hanno vinto la «bestia» lodano il loro Dio e Padre!
Coloro che sono stati fedeli a Gesù hanno un cuore puro, sono capaci di uno sguardo limpido e penetrante. Ci uniamo a loro per lodare e benedire il Signore, pronunciando anche noi le loro parole!
«Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore, Dio onnipotente»!
Il nostro sguardo si alza al volto del Padre dopo aver visto la grandezza e bellezza delle sue creature. Sono queste a risvegliare la nostra ammirazione e la nostra riconoscenza.
I fiori, dai più semplici a quelli più strani, le infinite varietà di foglie, lo stupendo variare delle nubi nel cielo, il cinguettio degli uccelli ignari del nostro ascolto, il complicatissimo e ordinatissimo congegno del nostro organismo sono solo alcune delle mirabili e grandi opere di Dio; sono sufficienti però a farci aprire la bocca per cantare e lodare e dire: Tu sei onnipotente!
I redenti che cantano nell’eternità questo inno non pensano, però, né ai fiori né alle nubi. Per loro questo nostro mondo visibile è passato per sempre. Essi stanno pensando a quelle opere meravigliose del Padre che hanno avuto come conclusione la loro salvezza! Essi pensano all’Incarnazione del Figlio di Dio, mistero tanto sublime quanto per noi inimmaginabile: Dio divenuto uomo, e questo, solo perché tra gli uomini, tutti peccatori, ci fosse Dio!
Quale solidarietà di Dio con l’uomo! Attraverso l’Incarnazione del Figlio, Egli ci ha mostrato la sua Paternità! Non l’avremmo altrimenti conosciuta né potuto goderla!
I redenti pensano alla Passione e alla Morte di Gesù, ulteriore mistero della povertà di Dio. Egli, consegnando il Figlio alla morte, si umilia di fronte a tutti gli uomini e a tutto il creato. Ma ecco, cosa inaspettata, proprio quest’umiliazione estrema rivela pienamente la grandezza del suo amore. Gli umili e i semplici, i puri di cuore, e coloro che non hanno nulla da perdere, comprendono questo mistero.
I redenti ancora pensano alla Risurrezione di Gesù, mistero così vivo che rivela l’onnipotenza del Padre! La morte regna nella creazione, e spaventa ogni essere vivente. Conosciamo davvero il Padre quando egli risuscita il Figlio dai morti! Questo mistero ci manifesta il vero e ultimo significato della Paternità di Dio: egli è Padre per sempre, egli dona la vita che sorpassa i confini del tempo, egli vince l’invincibile nemico dell’uomo.
Tutti i misteri dell’amore di Dio riguardano noi, uomini, noi peccatori!
Tutti i misteri del suo amore passano per il Figlio, uomo con noi, perciò i redenti cantano la gloria di Dio contemplando le sue opere che ci lasciano stupiti e ammirati.
Con loro diamo anche noi al Padre questo bellissimo titolo: Re delle genti!
Tutti i popoli, e non solo quello d’Israele, gli possono ubbidire! Tutte le genti, tutti i popoli hanno la stessa dignità: sono sudditi dello stesso Re, sono amati dallo stesso Re, sono guidati dall’unico Re!
Egli è un Re che indica dei comportamenti, che chiede a tutti le stesse cose: «giuste e veraci le tue vie!».
I redenti sanno che i voleri, le vie di Dio sono giuste: giuste perché portano alla santità chi le percorre; portano ad amare nel modo in cui Dio stesso ama, conducono chi li osserva ad essere santificati, anzi possiamo dire ‘divinizzati’!
Non solo giusti sono i voleri di Dio, ma anche «veraci»! Essi infatti corrispondono a lui, che è Verità, e corrispondono al vero bene dell’uomo stesso, perché lo guidano a realizzare pienamente il suo essere, a soddisfare tutte le sue aspirazioni, anche quelle più profonde che egli non sa nemmeno d’avere. Queste ispirazioni, infatti, di natura spirituale, solo quando sono appagate fanno gustare all’uomo le gioie più profonde e belle: Dio lo sa, e ci conduce con amore sapiente sulle sue vie che ci portano a dissetarci nel profondo, a godere la piena comunione con lui e tra noi!
Così il nome di Padre, con cui ci rivolgiamo a lui, assume dimensioni ancora più belle e ampie!
Con gioia sempre crescente dunque pronunciamo questo nome con cui Gesù, il Figlio, si rivolgeva a Dio con dignità e tenerezza!
8.
Chi non temerà, o Signore,
e non glorificherà il tuo nome?
Poiché tu solo sei santo. (Ap 15,4ab)
I redenti continuano a manifestare il loro stupore per la grandezza e bellezza di Dio. Essi l’hanno sperimentata, essi ne godono. E si meravigliano che qualcuno sulla terra possa ancora rimanere insensibile all’amore del Padre. Egli è l’unico che deve essere temuto e glorificato!
Che significa «temere il Signore»? Un Dio così grande e così buono, che vuole solo salvare il peccatore, non fa paura. Egli non è quel dio che va in cerca delle trasgressioni per punirle, quel dio che sta nascosto per poter cogliere in fallo il disobbediente e castigarlo, quel dio che gode delle sofferenze dell’uomo per potergli dire: hai visto? Te l’avevo detto io!
No, di Dio non hanno paura i redenti, che si sanno amati e perdonati, accolti e santificati. Essi sanno che il loro Dio non è la bellacopia del dio dei pagani, tutto potere e severità, un dio che ha bisogno di essere rabbonito dalle nostre offerte, dai nostri sacrifici e dal nostro comportamento. Egli è già buono, egli è già benevolo verso di noi, egli sta già cercando le strade per farci uscire dai vicoli ciechi in cui ci siamo smarriti.
Come fare a dire un grazie adeguato a tanto amore? Come faremo a rispondere a gesti di misericordia così inaspettati? Come potremo mantenere fede al dono di grazia che abbiamo ricevuto?
Ecco il timore che ci pervade di fronte a Dio. È il timore di non essere all’altezza, o meglio, di non essere piccoli abbastanza per accogliere e far fruttificare tutta la ricchezza di cui siamo ritenuti degni.
La misericordia che ho ricevuto e la pazienza che il Padre ha avuto per me sono tanto «lunghe», che io non sarò capace né di dire un grazie sufficiente, né di portare alla luce e rendere attuale quella stessa pazienza e misericordia nei miei rapporti col prossimo. Temo di far offesa al mio Dio tenendo nascosto il tesoro del suo amore di cui ho goduto, temo di non riuscire a trasmettere ad altri il dono che rende bella e serena la mia vita.
Ci può essere qualcuno che ha questo «timore»? Certamente, coloro che si sono accorti che Dio è Padre, coloro che hanno avuto l’annuncio della propria redenzione!
Coloro che lo «temono» lo vogliono pure «glorificare»!
«Chi non glorificherà il tuo nome?». Che cosa significa la parola «glorificare»?
Quando nel nostro mondo si vuol glorificare qualcuno, si pensa a metterlo su di un piedistallo, come si fa con i vincitori di gare atletiche, o a mettere su di un piedistallo la sua immagine, per abbellire qualche piazza di città. Non credo che Dio goda di una gloria simile!
Egli è degno di un’altra «gloria». La vera gloria, quella che lo fa «godere», è il vedere che Egli occupa il cuore dell’uomo! Io glorifico il mio Dio, quando penso solo a diffondere il suo modo di fare, l’amore, quando mi occupo di ciò di cui lui si occupa, quando col mio modo di vivere e di sperare faccio conoscere il suo modo di agire e le sue promesse! Io lo glorifico quando prendo decisioni che fanno eco al suo amore per ogni uomo, buono o cattivo che sia, quando tutto il mio essere trasmette la bellezza della sua luce e il calore del suo cuore!
Chi comincia a «conoscere» il Padre cerca in tutti i modi non solo di farlo conoscere ad altri, ma soprattutto di diventare una concretizzazione della sua Bontà e della sua Verità! In questo modo la gloria che gli diamo non è fatta solo di parole o di gesti di apparenza e di convenienza.
«Poiché tu solo sei santo!»
Io temo e glorifico il mio Dio perché egli è l’unico che si può dire: «santo»!
Egli è al di sopra e al di fuori della terra e quindi al di fuori dell’egoismo che rende la terra valle di lacrime.
Egli è al di sopra, e non è la causa di tutto quel male che rende la terra luogo di paure e di disperazioni.
Egli è al di fuori, e perciò non è imputabile di quel peccato che pervade tutto ciò che viene fatto dall’uomo. Poiché egli è fuori di questo mondo, può entrarvi portando purezza e gioia, consolazione e speranza, luce e carità!
Egli è santo!
Con la sua santità è venuto, si è avvicinato al mondo, lo ha sollevato e persino cambiato!
Mandando il suo Figlio, che ora nel mondo vive risorto dai morti e rimane con noi tutti i giorni, il Padre ha manifestato a tutti la sua santità, il suo amore agli uomini, tutti peccatori, tutti bisognosi di nuova vita!
Con i redenti anch’io perciò canto: «Tu solo sei santo»! Tu, Padre mio e nostro!
9.
Tutte le genti verranno
e si prostreranno davanti a te,
perché i tuoi giusti giudizi si sono manifestati. (Ap 15,4cd)
Il canto dell’Agnello accompagnato dalle arpe si conclude con questa gioiosa certezza:
«Tutte le genti verranno
e si prostreranno davanti a te»!
Nel mondo diviso dalle molte immagini di Dio, diverse e contrastanti, che l’uomo si è «costruito», ecco un segno di speranza: tutte le genti davanti all’unico Dio, tutti i popoli davanti al Padre di tutti, per riconoscerlo, per prostrarsi in adorazione e quindi per ubbidirgli con amore! È l’unica condizione che ci permette la speranza di poter godere una convivenza di pace sul nostro pianeta!
Molte voci auspicano questa pace, e l’attendono come frutto di un convergere delle varie fedi in uno sforzo comune di tolleranza o di collaborazione. Purtroppo si dimentica che questo sforzo comune degli uomini è già stato tentato, ed è finito a Babele con una dispersione e inimicizia ancora maggiore.
Gli uomini che agiscono con la loro buona volontà si scontrano con la buona volontà degli altri uomini, ritenendo ciascuno migliore la propria!
L’unica speranza è il Padre! Gesù è entrato nella morte per aprirci i cieli e per aprire il nostro cuore e la nostra mente affinché possiamo vedere, conoscere e amare il Padre! Gesù è morto per dare a Dio l’occasione di risuscitarlo e così conoscere e amare un Dio capace di dare la vita, Papà!
Coloro che conoscono il Padre, grazie alla rivelazione dataci dalla vita e dalla morte di Gesù, possono vivere nella pace, a qualunque popolo e nazione e lingua e razza appartengano, perché si riconoscono fratelli!
Conoscere il Padre è vita eterna! Amare il Padre è fonte di fraternità tra gli uomini. Chi si accontenta di chiamare Dio soltanto Dio non ha amore per tutti e non ha forza per vincere il proprio e l’altrui egoismo. Ce ne rendiamo conto guardando da vicino le altre religioni che si mescolano sulle nostre strade.
La speranza per la pace nel mondo e per la gioia degli uomini è posta unicamente e totalmente nel conoscere, riconoscere, temere e glorificare il Dio del Signore Gesù Cristo, Padre santo e buono! Il futuro dell’umanità, la nuova città – quella che i santi, che cantano la gloria di Dio, già contemplano, è il vero luogo della pace: là, infatti, tutti gli uomini saranno rivolti al Padre, non più ripiegati su di sé nella ricerca del benessere o della supremazia di una nazione sull’altra.
Quando tutti i cristiani guarderanno con amore al Padre, e attireranno in questo sguardo anche gli ebrei e i musulmani, e diventeranno un segno perché anche il cuore degli induisti e dei buddisti si apra a dire grazie, allora vedremo il regno di Dio!
Quando gli uomini dicono a Dio: sei mio Padre, allora Gesù vede il frutto della sua vita e della sua morte e vede compiersi la gioia della sua risurrezione!
Tutti gli uomini prostrati davanti al Padre, «perché i tuoi giusti giudizi si sono manifestati»!
Quali sono i ‘giusti giudizi’ di Dio?
La morte e la risurrezione di Gesù, “il Giusto servo che giustifica molti”: ecco i giudizi di Dio che vuole la salvezza degli uomini!
I ‘giusti giudizi’ di Dio lo manifestano come Padre misericordioso, Padre che ama e pazienta e attende il figlio peccatore per far festa! E coinvolge il figlio unico, il prediletto, fino a dargli la morte, non come castigo, ma come atto di amore da compiere per poter togliere il castigo della morte a tutti gli altri figli che l’hanno meritata.
Mi prostro davanti a te, Padre, con tutti i redenti, con coloro che hanno vinto il mondo e si sono aggrappati al Figlio tuo! Con loro canto la tua lode, con loro canto la bellezza di Gesù, il più bello tra i figli dell’uomo, che dona la sua bellezza divina a tutti gli uomini di ogni popolo e lingua!
Tu sei grande, ma soprattutto tu sei buono e sei degno di essere amato e glorificato da tutti! Padre mio, Padre nostro, Padre di Gesù! Gloria a te!
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Nihil Obstat: D. Iginio Rogger, cens. Eccl., Trento, 26 giugno 1999
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