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Sarete santi

SARETE SANTI

L’immagine di copertina ci introduce alla lettura di queste pagine. Essa si trova in un monastero del deserto di Giuda, vicino a Gerico. La pietra davanti all’immagine di Gesù ricorda il tempo trascorso dal Signore nel deserto a lottare per noi e a vincere, con la sua obbedienza alla Parola di Dio, la tentazione di vedere il Padre come un Dio dei poteri invece che il Dio dell’amore, il Padre che ama tutti e apprezza la bontà di tutta la sua creazione!

Gesù, attorniato dagli angeli che lo servono, ci attende nella sua santità, ci vuole uniti a sè, perché solo la sua vita è degna di Dio ed è come il Padre l’ha pensata. Noi siamo stati vinti dal male, e il maligno continua a tentarci per impedirci di avvicinarci a Gesù! Lui lo vince, per cui a noi non resta che godere della sua vittoria! Stando uniti a lui, umili e semplici, supereremo le prove che il Padre permette, perché possiamo dimostrargli amore e fedeltà.

Ci mettiamo con umiltà e con gioia sulla strada della santità: essa è già tracciata, su di essa abbiamo la guida sicura, e certamente arriveremo a godere la pienezza di vita del Padre di tutti!

Don Vigilio Covi

 

1.

“Ad immagine del Santo che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta; poiché sta scritto: Voi sarete santi, perché io sono santo” (Pt 1,15-16). Così scrive San Pietro alle comunità cristiane dell’Asia Minore. Con parole simili anche San Paolo nelle sue lettere ci ricorda che siamo stati scelti per essere santi, che abbiamo la vocazione alla santità. Gli apostoli fanno eco alle Scritture, che ripetutamente insistono: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lev 19,2)!

Proveremo a esplorare le varie fasi della strada della santità. Che cosa significa essere santi, che cosa comporta, come si realizza? Da una parte ci vien detto: “Siete santi”, dall’altra: “Santificatevi” o “Diventate santi”. Nel libro dell’Apocalisse c’è questa esortazione: “Il santo si santifichi ancora” (22,11).

Ci soffermeremo su questi due aspetti della santità, quello che non dipende da noi e quello che si compie solo con la nostra partecipazione. Spero di non peccare di presunzione ad affrontare questo argomento. Lo faccio solo perché confido che lo Spirito Santo aiuterà voi e me ad avvicinarci a Gesù, che è “il santo di Dio” (Gv 6,69) e a realizzare così quella santità della nostra vita di cui la Chiesa ha bisogno per presentarsi al mondo e compiere la sua missione in mezzo agli uomini!

Anzitutto non possiamo dimenticare che il termine santo è un termine che qualifica Dio. Dio solo è santo! E perciò soltanto lui potrà usare questo attributo anche per persone o cose, che egli riconosce sue, di sua proprietà. Dio solo è santo, ed è tre volte santo, come cantano i Cherubini, secondo la testimonianza di Isaia profeta (Is 6,3).

Esaltate il Signore nostro Dio,

prostratevi allo sgabello dei suoi piedi,

perché è santo.

Esaltate il Signore nostro Dio,

prostratevi davanti al suo monte santo,

perché santo è il Signore, nostro Dio. Sal 99,5.9

 

2.

“Io, il Signore, Dio vostro, sono santo”! Che significa dire che Dio è santo? Il termine santo viene spiegato in vari modi. Il latino sanctus porta con sé la sfumatura della separazione da tutte le cose create, ritenute profane: è messo da parte per servire solo per il culto. L’ebraico dice pressappoco la stessa cosa: consacrato, destinato a Dio, purificato, pronto per essere adoperato nel culto. Il greco, la lingua usata dagli apostoli e dagli evangelisti, nei loro scritti adopera il termine hagios, che etimologicamente significa “senza terra”, che sta cioè al di fuori o al di sopra della terra. Ciò che è al di fuori della terra non dipende da essa né dai suoi movimenti. Dio è santo: egli non cambia, non passa dall’amore all’odio quando gli uomini si ribellano o disubbidiscono a lui. Così possiamo e dobbiamo capire l’affermazione di Gesù: “Il Padre vostro celeste… fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5,45). Egli infatti è santo, non si lascia influenzare dagli avvenimenti terreni, nemmeno dai comportamenti umani! Dio Padre rimane sempre Padre, e ci guarderà sempre con occhi di Padre! Dio è santo: per noi è una certezza gioiosa, una sicurezza: quando guardiamo a lui non lo troveremo mai cambiato. Egli sarà sempre così come ci è stato fatto conoscere sia dalla bontà della creazione che dalla Parola di Gesù, il Figlio prediletto. Ciò significa pure che egli non può essere considerato a immagine dell’uomo, cioè non lo conosciamo guardando gli uomini, piuttosto questi sono destinati a conformarsi a lui, perché creati “a sua immagine e a sua somiglianza”. L’uomo perfetto è quello che porta in sè la pienezza dell’amore divino! Noi dobbiamo perciò imparare da Dio, osservare la sua santità come qualcosa che ci deve appartenere, se vogliamo essere uomini veri, completi, maturi. L’uomo, fin che non sarà santo, non sarà uomo in pienezza, non sarà realizzato del tutto!

Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi

il figlio dell'uomo perché te ne curi?

Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli,

di gloria e di onore lo hai coronato:

gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,

tutto hai posto sotto i suoi piedi! Sal 8,4-7

 

3

L’uomo santo è colui che porta in sè la vita di Dio, il solo santo! E chi può essere se non l’Unigenito Figlio di Dio? Gesù perciò è chiamato “il santo di Dio”. In lui, in Gesù, vediamo la santità, la possiamo quasi toccare, e soprattutto accogliere in noi, perché egli stesso ha detto: “Chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”! “Io sono nel Padre e voi in me e io in voi”! La santità in noi comincia quindi nel momento del nostro Battesimo! In quel momento veniamo accolti nella vita d’amore di Dio Padre Figlio e Spirito Santo! In quel momento diveniamo membra del Corpo di Cristo, la Chiesa! Nel Battesimo diventiamo “santi”. E non importa se comprendiamo o no: il dono di Dio è tale anche per i bambini che non capiscono nulla!

Potremmo paragonare la santità ad una medaglia! Immagina di averne una tra le mani: di essa puoi considerare tre elementi: il materiale con cui è fatta e le immagini impresse sui due lati. La nostra santità è fatta col materiale dell’amore di Dio Padre! È quello che noi siamo perché egli ci ha accolti nella sua Vita, ce l’ha donata, ci ha arricchiti del suo santo Spirito! Ciò è avvenuto nel Battesimo. E le due facce? Potremmo vedere in una di esse la riproduzione della vita e della morte di Gesù, quella morte con cui egli si è offerto al Padre in un atto d’amore unico e irripetibile; sull’altro lato la risurrezione del Signore, la vita nuova che egli dona a chi crede in lui e si unisce a lui nel morire alle cose della terra, vita gioiosa e preziosa, vita da cui sgorga sempre nuova forza per sopportare e affrontare disagi e croci e persino persecuzioni, vita che desidera e cerca di esprimersi in un amore concreto verso tutti!

Di questo gioisce il mio cuore,

esulta la mia anima;

anche il mio corpo riposa al sicuro,

perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro,

né lascerai che il tuo santo veda la corruzione.

Mi indicherai il sentiero della vita,

gioia piena nella tua presenza,

dolcezza senza fine alla tua destra. Sal 16,9-11

 

4.

Già anticamente c’è stato chi ha proposto un percorso di santità per i cristiani. È famosa l’opera di un certo Giovanni, vissuto come monaco sul monte Sinai. Egli ha scritto “La scala del paradiso”, descrivendo la vita cristiana come il salire i gradini di una lunga e ripida scala: per questo è stato soprannominato Climaco, dalla parola “scala” in latino. Io non mi sogno nemmeno di fare una cosa del genere, sia perché bisognerebbe essere avanti su quella scala, - ed io non lo sono -, sia perché voi siete già a buon punto nell’amore a Gesù Cristo, fonte e modello di ogni santità! Ciò nonostante, pensando che anche qualcosa di imperfetto può essere utile, provo a dirvi qualcosa su quest’argomento. Cominciamo col renderci conto della nostra situazione.

Siamo uomini, eredi di Adamo, di quell’Adamo che ha messo tra sè e Dio un po’ di pensieri, di dubbi, di sospetti persino. Egli ha sospettato che Dio fosse in qualche modo attento ad impedirgli di raggiungerlo, geloso della sua libertà, e, dubitando del suo amore di Padre, ha ignorato i suoi insegnamenti. Quante volte questi dubbi e questi pensieri sono ancora presenti in noi e ci impediscono di abbandonarci ai disegni di Dio, anzi, ci fanno pronunciare dei giudizi contro di lui: « Perché Dio non fa, perché permette, non dovrebbe, se ci fosse un Dio questo non succederebbe… » e così via. Queste domande e questi pronunciamenti tengono il nostro cuore distante da lui, e la nostra mente non cerca nemmeno più la Parola e la sapienza del Padre! Forse arriviamo ancora a dire « Padre nostro che sei nei cieli… », ma senza dare importanza a queste parole, impedendo che esse trasformino il nostro cuore. La santità che abbiamo ricevuto in dono fin dal battesimo trova grande inciampo in questi nostri pensieri.

Lo stolto pensa: «Dio non esiste».

Sono corrotti, fanno cose abominevoli, nessuno fa il bene.

Dio dal cielo si china sui figli dell'uomo

per vedere se c'è un uomo saggio che cerca Dio.

Tutti hanno traviato, tutti sono corrotti;

nessuno fa il bene; neppure uno. Sal 53,2-4

 

5.

San Pietro (1Pt 1,18) scrive che abbiamo ereditato una “vuota condotta” dai nostri padri, e da questa siamo stati liberati grazie al “sangue prezioso di Cristo”! Il nostro modo di vivere è una “vuota condotta”, cioè una vita vana, fondata su futilità, e quindi non ci soddisfa mai, perché ogni giorno ci porta le sue illusioni e conseguenti delusioni. È la fede in Gesù e l’amore a lui che danno significato a tutto, rendono piene e significative le nostre ore e i nostri giorni. Se non ci fosse questa novità, perché vivere? Le nostre gioie sarebbero molto brevi, sarebbero senza profondità, soltanto allegria passeggera. E le nostre sofferenze diverrebbero insopportabili. Perché soffrire? Cercheremmo in ogni modo di eliminare la sofferenza fisica e morale, ricorrendo pure a metodi irragionevoli. Non è irragionevole il ricorso a maghi e cartomanti, a guaritori d’ogni tipo? Eppure quante persone svuotano il proprio portafoglio nel loro, pur di avere soltanto la promessa di un sollievo! L’eredità che abbiamo ricevuto da Adamo è ben povera cosa, e chi non ha saputo o voluto sostituirla con il dono di Dio, il suo Figlio, si ritrova ogni giorno sempre più deluso e s’avvicina alla disperazione. La delusione che accompagna la nostra vita ci porta in molti modi ad aumentare il carico di sofferenza del mondo, perché ci apre la porta a commettere e giustificare una lunga serie di peccati. Nella nostra vuota condotta non riusciamo ad accorgerci della presenza e della sofferenza degli altri, ci chiudiamo nel nostro egoismo, cerchiamo sempre nuovi stimoli per stuzzicare i nostri sentimenti e la nostra allegria. E diventiamo superficiali, incapaci di discernere ciò che fa male a chi ci sta vicino, incapaci di vincere le tentazioni, anche quelle più terribili che portano a dividere le famiglie. Dentro questa vuota condotta deve entrare la novità, che dia significato alla vita dell’uomo, un significato divino, deve entrare la santità di Dio!

Sono l'obbrobrio dei miei nemici,

il disgusto dei miei vicini,

l'orrore dei miei conoscenti;

chi mi vede per strada mi sfugge.

Sono caduto in oblio come un morto,

sono divenuto un rifiuto. Sal 31,12s

 

6.

La santità entrerà gradualmente nella nostra condotta, passo dopo passo, o gradino su gradino, come su di una scala che ci viene messa davanti. La percorreremo con Gesù: è la scala della santità! Prima di affrontare questa scala ci prepariamo psicologicamente con questa domanda: è una scala che sale o una scala che scende? Se immaginiamo Dio in alto, pensiamo automaticamente la scala della santità come una scala in salita, che ci permetta, gradino per gradino, di raggiungerlo! Se, invece di immaginarlo, guardiamo colui che ce lo manifesta, Gesù, il Figlio, allora vediamo che egli si è abbassato fino ad essere nostro servo, si è abbassato nelle acque del Giordano, si è abbassato nella morte, e nella morte di croce. Allora la scala della santità che deve raggiungere Dio e Gesù è una scala in discesa! “Imparate da me, che sono mite e umile”, ci ha detto. Per imparare l’umiltà dobbiamo scendere, gradino per gradino, fino ad arrivare al rinnegamento di noi stessi; in noi risplenderà la luce pura e vera di Dio. La scala che sale e la scala che scende. Adamo volle affrontare quella che sale, con le sue forze, con le sue idee, con la sua decisione. Quella che scende l’ha affrontata Gesù, accettando giorno per giorno la volontà del Padre. Dov’è arrivato Adamo? Non è arrivato a Dio, benché avesse voluto raggiungere la statura di Dio! Egli è arrivato ad accusare e a denunciare Dio di fronte alla propria coscienza, ma questa sua ostinazione lo ha portato a trovarsi lontano da lui, dagli uomini, dalla propria pace e da se stesso, e a mettersi persino in lotta con tutto il creato. La scala in salita non la dobbiamo affrontare con le nostre visuali e con le nostre forze: quella scala ce la farà percorrere Dio stesso, con i suoi metodi e con la sua forza. La scala che sale è un ascensore: esso sale man mano che noi percorriamo i gradini della scala in discesa. Dio ha dato la massima esaltazione al Figlio quando questi è arrivato all’ultimo gradino della scala che scende!

Signore, non si inorgoglisce il mio cuore

e non si leva con superbia il mio sguardo;

non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze.

Io sono tranquillo e sereno

come bimbo svezzato in braccio a sua madre,

come un bimbo svezzato è l'anima mia. Sal 131,1-2

 

7.

Ci troviamo sempre più in alto sulla scala che sale verso Dio, man mano che percorriamo i gradini della scala che scende. Noi ci preoccupiamo di scendere, e Dio si occupa di innalzarci, di portarci vicino a sè, di rivestirci del suo amore infinito. Noi scendiamo nelle acque del battesimo, e ci ritroviamo già figli di Dio, già così in alto, oltre i confini del tempo e dello spazio. Il battesimo è l’ascensore con cui il Padre ci attira a sè e ci fa santi, ci fa suoi. Il battesimo Gesù l’ha voluto per noi: egli stesso ha ordinato ai suoi apostoli di battezzare tutte le genti facendole sue discepole!

Il Battesimo è un atto che coinvolge due persone: colui che si fa battezzare e colui che battezza. Colui che si fa battezzare arriva a questa decisione perché vuole accettare nella sua vita il Signore Gesù come suo salvatore ed essere membro del suo Corpo, vuole professare la fede della Chiesa nell’unico Dio, Padre Figlio e Spirito Santo, vuole vivere tutta la sua vita in comunione con gli altri credenti! Colui che battezza non agisce per conto proprio, ma come ministro della Chiesa che accoglie al proprio interno il nuovo figlio di Dio. Colui che si fa battezzare si ritiene chiamato da Dio stesso a cambiare la propria vita donandogliela, e si prepara orientando i propri desideri alle cose di lassù e si dispone ad obbedire alla Chiesa con umiltà. Colui che battezza sa di compiere un atto che è sacramento dell’azione di Dio. Le sue parole e il suo gesto di versare l’acqua sul battezzando sono riconosciuti in cielo: Dio riconosce quel figlio di Adamo come proprio figlio, e Gesù lo associa a sè, al proprio Corpo santo offerto in sacrificio gradito al Padre. Da questo momento il battezzato è veramente santo. La sua vita non è più vita d’uomo erede del peccato, ma vita di figlio erede della grazia di Dio! Il battezzato continuerà a vivere in questo mondo, dove sarà costantemente insidiato dall’egoismo, ma Dio ha preparato altri doni perché il figlio suo non si perda!

Annunzierò il decreto del Signore.

Egli mi ha detto: «Tu sei mio figlio,

io oggi ti ho generato». Sal 2,7

 

8.

Il battezzato gode d’esser diventato figlio di Dio, ma si accorge della propria incapacità, inadeguatezza, debolezza. Perciò egli guarda in alto, e ottiene lo Spirito di Dio, quello promesso da Gesù. L’imposizione delle mani del vescovo e l’unzione del S.Crisma trasmettono al cristiano, che vuol essere fedele e perseverante e che viene confermato, lo stesso Spirito Santo con i suoi doni, frutto della sua presenza nell’uomo. Ricevere lo Spirito Santo significa essere divinizzati, avere Dio in sè. Non diventiamo Dio, ma, se così si può dire, lo conteniamo, come un recipiente fragile e senza valore può contenere un tesoro inestimabile. Dobbiamo essere sempre coscienti di questa doppia realtà: il tesoro che è in noi è meraviglioso, divino, ma noi siamo sempre deboli, fragili, possibili peccatori. La vita santa è in noi, ma dobbiamo continuamente vigilare e anche faticare perché il recipiente non venga rovesciato o non si rompa e perda il suo tesoro. Qui sta l’importante differenza tra la nostra fede e le credenze delle religioni orientali: per loro l’uomo stesso è parte o scintilla di Dio. Noi sappiamo invece di custodirlo tutto in noi, ma come in un fragilissimo involucro! Il Sacramento della Cresima è il dono che sigilla la nostra santificazione e che ci impegna a custodire la vita di Dio. Come avverrà? La vita di Dio è amore, perciò la custodiamo impegnandoci a rimanere uniti tra noi per donare al mondo i segni e le opere dell’amore del Padre! Per questo ai cresimati si chiede di non limitarsi ad essere cristiani che pensano solo a ricevere, ma di diventare cristiani che danno testimonianza della loro fede con opere concrete! Per esempio: da chi è cresimato ci si aspetta che non vada a Messa per ricevere soddisfazioni o per fare un’esperienza che piace, ma per arricchire la comunità con la sua presenza, la sua preghiera, la sua disponibilità.

Quanto è grande la tua bontà, Signore!

La riservi per coloro che ti temono,

ne ricolmi chi in te si rifugia

davanti agli occhi di tutti. Sal 31,20

 

9.

Siamo sulla strada della santità. Il cristiano è vaso fragile che contiene il tesoro della vita di Dio. Le realtà fragili richiedono continua cura e manutenzione! E per questo ecco un nuovo dono di Dio, un dono inimmaginabile! Egli ci nutre e ci disseta col suo stesso Corpo e col suo Sangue versato. I segni sacramentali del suo amore, che giunge “fino alla fine”, diventano Pane e Vino, nostro cibo e nostra bevanda. Concretamente facciamo esperienza dell’unione con Dio, e questo in un ambiente di comunione reciproca con gli altri credenti. In questa circostanza sperimentiamo che Dio è davvero l’Emmanuele, il “Dio con noi”, non il Dio « con me »! L’Eucaristia è comunione con Dio che nutre la comunione con gli altri credenti. Per questo possiamo godere di questo dono-nutrimento solo tramite la Chiesa, comunità dei fedeli. Questi sono tutti bisognosi di nutrirsi, perché tutti fragili, tutti peccatori. Non ci meravigliamo dei peccati dei nostri fratelli, ma della bellezza e grandezza del Sacramento dell’Eucaristia che ci unisce in Chiesa santa e santificatrice! Il cristiano, cui preme la sua santità, ogni domenica farà di tutto per essere presente e partecipe all’Eucaristia, e farà di tutto per rendere la celebrazione bella e degna di Dio e accogliente e gradita per i fratelli più deboli. La santità dell’uomo riceve forza ogni volta che partecipa all’Eucaristia, e perciò - se può - vi partecipa ogni giorno. Con la bocca mangiamo un pezzetto di pane, ma nel nostro essere entra l’energia di Dio che ci trasforma in dono d’amore e di sapienza!

Davanti a me tu prepari una mensa

sotto gli occhi dei miei nemici;

cospargi di olio il mio capo.

Il mio calice trabocca.

Felicità e grazia mi saranno compagne

tutti i giorni della mia vita,

e abiterò nella casa del Signore

per lunghissimi anni. Sal 23,5-6

 

10.

Movendoci sulla scala della santità ci accorgiamo che la nostra fragilità è reale. Ogni giorno siamo tentati dal male e ogni giorno il maligno riesce ad afferrarci e renderci colpevoli. Pigrizie, pensieri malvagi, azioni scorrette, gesti superficiali, sentimenti invidiosi e sensuali, infedeltà e menzogna fanno capolino nella nostra mente e se ci trovano poco decisi ci faranno cadere. Il recipiente della santità si screpola e si rompe o si rovescia! Com’è grande il nostro Signore! Gesù ha già previsto un efficace rimedio, che, accolto con amore, non solo aggiusta, ma rafforza la nostra stabilità. È il sacramento della penitenza, o confessione. Gesù ha visto la volontà del Padre di far conoscere agli uomini la sua misericordia. Incontrando gli uomini Gesù ha visto dove la misericordia di Dio doveva riversarsi e così non ha evitato l’incontro con grandi peccatori. Ha visto il loro bisogno e desiderio e li ha perdonati. Ha dato alla sua Chiesa (e a chi poteva darli?) il compito e la possibilità di continuare ad incontrare i peccatori e i vasi rotti per risanare e ristabilire nell’amicizia con Dio e nell’armonia con gli uomini! Tu ti sei confessato ancora. Non è una grazia speciale che ti risana, rappacifica, ti fa godere la tua santità? Quali scuse sai trovare per evitare questo sacramento? Non sono scuse: sono nuovo peccato di diffidenza, di orgoglio, di odio verso te stesso. È il maligno che non ti vuol vedere in ginocchio davanti ad un ministro di Dio, non vuole veder procedere la tua conversione, non sopporta che ti incontri con Gesù!

Se consideri le colpe, Signore,

Signore, chi potrà sussistere?

Ma presso di te è il perdono:

e avremo il tuo timore.

Io spero nel Signore,

l'anima mia spera nella sua parola. Sal 1303-4

 

11.

La fragilità che sperimentiamo sulla scala della santità è anche quella del nostro corpo. Debolezze innate, ereditate, peccati voluti di vario genere, nostri e altrui, distrazioni e noncuranze influiscono anche sul nostro corpo e lo rovinano. Malattie e incidenti ci fanno soffrire e fanno soffrire chi ci ama e chi, di conseguenza, deve curarsi di noi. La nostra santità ne risente? Con la malattia del corpo e le debolezze psichiche arrivano le tentazioni e gli scoraggiamenti, e le tentazioni prendono forza e impediscono la preghiera, talvolta ci spingono a dubitare dell’amore di Dio. Dio ci ama ancora, nonostante questo. Gesù ha allungato la mano a toccare il lebbroso, ha curato e guarito un’infinità di persone bisognose di vedere l’amore del Padre. E ai suoi ha consegnato e ordinato anzitutto di essere attenti agli infermi. Chi è malato perciò che cosa deve fare? Deve curarsi non solo della salute, ma anzitutto della santità, e vivere l’esperienza del dolore unito a Gesù, alla sua croce, al suo sacrificio. Chi è malato chiamerà i responsabili della Chiesa, i presbiteri. Chiederà la loro preghiera e l’unzione con l’olio della guarigione integrale. Il male viene dal peccato dell’uomo, proprio e altrui, e perciò è necessaria la preghiera della comunità, è necessaria la conversione di tutti. Il Signore ha legato a questa preghiera e Unzione la forza della guarigione, sia spirituale che fisica! Quanta consolazione e forza i cristiani malati ricevono da questo sacramento! E quanta capacità di essere, nella malattia, testimoni di Gesù!

Sono stremato dai lunghi lamenti,

ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio,

irroro di lacrime il mio letto.

I miei occhi si consumano nel dolore,

invecchio fra tanti miei oppressori.

Il Signore ascolta la mia supplica,

il Signore accoglie la mia preghiera. Sal 6,7-8.10

 

12.

Siamo chiamati da Dio ad essere santi, ed egli, come abbiamo visto, ci fornisce gli aiuti necessari. La via della santità non può prescindere dall’appartenenza alla Chiesa, la comunità che Gesù stesso ha iniziato chiamando gli apostoli a stare con lui. E la Chiesa è un edificio ben costruito, un popolo ben strutturato, un corpo ordinato. Alle persone che lo compongono Dio ha donato carismi e ministeri diversificati, doni che servono a tutti. Uno dei ministeri necessari e sempre presente è quello dell’apostolo. Chi svolge questo servizio-ministero oggi lo chiamiamo Vescovo. Chi è il vescovo? È un fedele che, dopo adeguata preparazione e dopo aver dato prova di fedeltà al Signore, amore alla comunità e capacità di governo, viene scelto per guidarla nella fede. Egli si serve di altri fedeli, che vengono associati a lui tramite il sacramento detto “Ordine Sacro”: essi si chiamano diaconi e presbiteri. Il diacono aiuta il vescovo soprattutto nel rispondere alle necessità delle varie povertà della comunità cristiana, il presbitero collabora nella formazione spirituale dei fedeli e nell’annuncio del vangelo, nel guidare la preghiera e nell’amministrare i Sacramenti. Il sacramento dell’Ordine Sacro avviene tramite l’imposizione delle mani del Vescovo e l’unzione col Sacro Crisma. Esso viene conferito solo a uomini, preparati spiritualmente e culturalmente. Tutta la comunità cristiana viene interpellata dal vescovo perché esprima il proprio assenso ad ammettere un uomo a questo ministero. Esso è un servizio necessario alla comunità, e chi lo esercita necessita di grande equilibrio, delicatezza, fermezza di fede, amore al Signore e ai suoi fedeli. Per questo tutti ci sentiamo impegnati a pregare per coloro che sono già stati ordinati, e pure perché altri rispondano qualora Dio li chiamasse a questo compito. “Pregate il padrone della messe, perché mandi operai alla sua messe”: sentiamo che quest’invito di Gesù ci esorta, anche se non esclusivamente, a pregare perché tra i giovani ci sia chi risponde all’invito interiore di Gesù o al bisogno della Chiesa per offrirsi a lui ad accogliere questo ministero importante.

Ho trovato Davide, mio servo, con il mio santo olio l'ho consacrato;

la mia mano è il suo sostegno,

il mio braccio è la sua forza. Sal 89,21-22

 

13.

Alla santità siamo chiamati tutti, qualunque strada intraprendiamo nella vita. Come abbiamo già visto essa è il vivere in comunione con il Signore Gesù e con la sua Chiesa. In comunione con lui deve vivere ogni cristiano per rimanere sulla strada che ci porta al Padre. Ogni cristiano perciò fa le sue scelte, soprattutto quelle importanti che operano una svolta nella vita, in unità con i fratelli di fede e con la benedizione del Signore, che riceve tramite la preghiera di tutta la comunità e tramite la Parola del ministro di Dio. Mi riferisco alla scelta dei cristiani di iniziare quella convivenza che chiamiamo “famiglia”. Due cristiani, uomo e donna, non cominciano nemmeno a vivere insieme se non sono sicuri che questa è la volontà di Dio, e se da lui non ricevono benedizione. Essi perciò mettono sì alla prova i propri sentimenti e la propria capacità di amare, ma non si accontentano di questo, perché sanno di non potersi fidare del tutto di se stessi soltanto. Essi chiedono aiuto anche alla comunità. Ascoltano il consiglio di chi in essa ha esperienza e lungimiranza, e chiedono di essere accompagnati da un padre spirituale. Desiderano comprendere i significati spirituali dell’amore coniugale, il ruolo della famiglia nel disegno di salvezza per tutto il popolo, le condizioni necessarie per essere come coniugi un segno di Dio. Vogliono inoltre godere degli strumenti necessari per maturare, perseverare e crescere nell’amore e per trasmetterlo ai propri figli. Per questi fedeli ecco il Sacramento del Matrimonio. In esso Dio benedice e consacra il loro amore, lo assume come proprio, e trasforma l’impegno dei due cristiani in una missione che egli stesso affida loro: amatevi l’un l’altro fino alla fine, amatevi per rivelare col vostro amore come Cristo ama la Chiesa e come la Chiesa è obbediente al suo Signore! Con questa Parola e benedizione gli sposi avranno pace, e, se continueranno a condividere la preghiera e la fede, cresceranno nell’amore reciproco e avranno luce e serenità nei compiti nuovi, gioiosi e difficili che li attendono.

Beato l'uomo che teme il Signore e cammina nelle sue vie.

Vivrai del lavoro delle tue mani, sarai felice e godrai d'ogni bene.

La tua sposa come vite feconda nell'intimità della tua casa;

i tuoi figli come virgulti d'ulivo intorno alla tua mensa. Sal 128,1-3

 

14.

Il nostro Dio ha previsto molti aiuti per il cammino che, da peccatori, ci porta ad accogliere la sua santità. Noi chiamiamo sacramenti gli aiuti più consistenti che celebriamo o una sola volta in vita o, qualcuno, più e più volte. Il sacramento della riconciliazione è un dono di cui possiamo godere spesso, anche mensilmente o settimanalmente, e quello dell’Eucaristia anche ogni giorno. Essi ci vogliono sostenere nel desiderio e volontà di manifestare la nostra condizione di figli di Dio anche esteriormente, con tutta la nostra condotta. Il nostro impegno morale, di obbedienza ai comandamenti di Dio, infatti, non è tanto una risposta al desiderio di essere perfetti, quanto invece al volere che la nostra vita sia una rivelazione della bontà e della sapienza del Padre! La ricerca della perfezione della nostra umanità è il traguardo di molte filosofie o religioni, in particolare di quelle orientali, come in passato lo è stato per vari orientamenti dei pagani, stoici ed epicurei! L’impegno del dominio di se stessi è la meta agognata da buddisti e yogi, da persone attente alla buona educazione e alla pace interiore. Noi non ci ritroviamo in queste posizioni. Con la nostra vita noi vogliamo dar gloria al nostro Dio e Padre, vogliamo farlo conoscere a tutti, come Gesù l’ha fatto conoscere a noi. Egli ci ha dato in tal modo la certezza che siamo amati da sempre e per sempre, anche se non siamo capaci di una vita esemplare. Il nostro impegno non è un ripiegamento su noi stessi, nemmeno per diventare migliori, ma siamo e diventiamo santi volendo con il nostro comportamento dar gloria al nostro Dio. Nel rapporto con lui entra in noi lo Spirito Santo, che ci trasforma e ci fa non solo migliori, ma addirittura nuovi!

Ti loderò, Signore, Dio mio, con tutto il cuore

e darò gloria al tuo nome sempre,

perché grande con me è la tua misericordia:

dal profondo degli inferi mi hai strappato. Sal 86,12-13

 

15.

Perché comportarci onestamente, con fatica e talora ricevendo ingratitudine? Noi vogliamo, con il nostro comportamento, rivelare Dio ai nostri fratelli! Per esprimermi con correttezza: il nostro comportamento non deve ostacolare il Padre a rivelare se stesso! Tenendo vivo questo scopo cerchiamo di vedere quale potrebbe essere il fondamento su cui impostare il nostro impegno per una vita onesta, giusta e irreprensibile. Moltissimi passi delle Sacre Scritture ci ripetono in maniera martellante: “Principio della saggezza è il timore del Signore” (Sal 111,10)! “Fondamento della sapienza è il timore di Dio” (Prov 1,7). “Principio della sapienza è temere il Signore” (Sap 1,12). “Purifichiamoci da ogni macchia della carne e dello spirito, portando a compimento la nostra santificazione, nel timore di Dio” (2Cor 7,1). Il timore di Dio non deve mai mancare. Da esso viene saggezza, sapienza, forza per una vita che sa andare contro corrente. Timore di Dio non significa aver paura di lui, ma nutrire per lui un amore tanto forte da non volerlo assolutamente offendere, e nemmeno disattendere i suoi benché minimi desideri. Il timore di Dio è dono dello Spirito Santo, e viene coltivato costantemente dalla nostra umiltà e compunzione. La compunzione è uno dei primi segni dell’umiltà, e viene dalla consapevolezza di essere peccatori, di essere sempre debitori verso Dio, anche se la coscienza non avesse nulla di grave da rimproverarci. Il timore del Signore ci avvia all’umiltà. Anche san Benedetto assegna al timore del Signore il primo gradino della scala dell’umiltà. Questo grande santo ha provato a disegnare questa scala, e l’ha dotata di ben dodici gradini! Li possiamo raggiungere e percorrere tutti partendo dal timore del Signore.

Il timore del Signore è puro, dura sempre;

i giudizi del Signore sono tutti fedeli e giusti,

più preziosi dell'oro, di molto oro fino,

più dolci del miele e di un favo stillante. Sal 19,10-11

 

16.

Prima di vedere con san Benedetto i gradini dell’umiltà, ci fermiamo alla scuola di un altro grande santo, San Bernardo, che ci aiuta a riconoscere i dodici gradi della superbia. La superbia non è soltanto il contrario dell’umiltà, ma è il modo con cui il diavolo, Satana, si impossessa della nostra vita. Questo Santo ci aiuta a riconoscerla dentro alcuni comportamenti che ci sono abituali e ai quali noi non diamo molto peso. Egli vede come primo gradino della superbia sia la “curiosità, l’andare alla ricerca di ciò che non ci riguarda”. È superbia: ci allontana dai nostri compiti e ci fa essere superficiali, ci avvicina alla capacità di ribellarci alla volontà di Dio. Il secondo gradino è la “leggerezza, il parlare senza discernimento”: parlare senza pensare a quel che si dice, senza mettere i nostri pensieri a confronto con la Parola di Dio! Noi diremmo che questo è stoltezza, ma chi è stolto è davvero superbo: vorrebbe far passare per buona la propria ignoranza, pur avendo a disposizione la sapienza di Dio! Terzo gradino, scrive san Bernardo, è “l’allegria degli stolti”. Gli stolti di cosa si rallegrano? Essi sono contenti di cose superficiali, di ciò che produce il piacere d’un momento, di quel che si mangia o si beve, di vittorie passeggere e inutili, come quelle sportive o come le vincite di denaro, e la loro gioia diventa allegria chiassosa che riempie tempo e spazio di rumore, di risate, di parole inutili. Altro gradino è “l’ostentazione di sè, con il parlare continuamente”! È la continuazione della stoltezza, continuazione di superbia, come se la mia persona potesse essere tanto importante da togliere spazio alla Parola di Dio, alla sua sapienza, e quindi al silenzio che serve per ascoltarla. Chi parla continuamente non ascolta, quindi non ama: ritiene di essere tanto importante da occupare il tempo e le energie degli altri. Quinto gradino: “il culto di sè, vantarsi delle proprie cose”. Chi continua a usare il pronome “io” e l’aggettivo “mio” vede solo se stesso, e ignora gli altri, come non ci fossero. Per lui Dio pure resta lontano! È facile soffermarsi su questi gradini. Noi cercheremo di conoscerli, per formarci un sano e attento discernimento.

Anche dall'orgoglio salva il tuo servo

perché su di me non abbia potere;

allora sarò irreprensibile,sarò puro dal grande peccato. Sal 19,14

 

17.

Il sesto gradino sarebbe “l’arroganza: credersi il migliore”. Forse ci sembra di non esserci mai soffermati in questo pensiero. Può darsi che non ce ne siamo accorti. Infatti, talora ci arrabbiamo perché qualcuno dice male di noi. Non diciamo d’essere il migliore, ma poco ci manca! Settimo gradino è la “Presunzione, ingerirsi in ogni cosa”. Capita anche a me…, nonostante mi ritenga davvero umile (!), di voler dare il mio parere in ogni situazione, e di avere quindi il diritto di essere sempre interpellato! I prossimi gradini sono la “Difesa delle proprie colpe”: è così difficile piegare il capo, accettare di essere riconosciuti colpevoli, che pur di non far brutta figura, difendiamo e troviamo giustificazioni per i nostri peccati, dimenticando che per essi Gesù è morto. Talora siamo capaci poi di una “Confessione ipocrita di colpe non commesse per ingannare l’opinione altrui”. Anche questa è superbia, anzi, è una superbia perfida: cercare di farci applaudire dai peccatori, da quelli che si vantano delle proprie malvagità. Questi a volte si ritengono grandi nel mondo, e noi vogliamo stare alla pari con loro, perché nessuno rida di noi! Ci preme di più essere ritenuti eguali agli altri che essere giudicati da Dio. La “Ribellione contro i superiori e i fratelli” è il decimo gradino, che porta inevitabilmente a vantarci della “Libertà di peccare”. Ormai con questi passi siamo molto lontani dal santo timor di Dio. Siamo arrivati molto in basso, all’ultimo stadio della superbia, “L’abitudine al peccato”. Quando c’è l’abitudine al peccato, nemmeno ci accorgiamo in quale situazione ci troviamo. Per far risplendere nuovamente la santità che Gesù vuol vivere in noi occorrerà molta fatica, sarà necessario cominciare a ricordarci della giustizia di Dio, quella giustizia che non sopporta il male e non può accordarsi con atteggiamenti orgogliosi.

Signore, non si inorgoglisce il mio cuore

non vado in cerca di cose grandi,superiori alle mie forze.

Io sono tranquillo e sereno

come bimbo svezzato in braccio a sua madre,

come un bimbo svezzato è l'anima mia. Sal 131,1-2

 

18.

Abbiamo visto con San Bernardo quanto lontano da Dio ci porta il cammino della superbia: dovremo lottare sempre contro questo veleno che ostacola il manifestarsi della santità di Dio in noi. Vedremo ora, aiutati da San Benedetto, come si articola il cammino dell’umiltà, l’atteggiamento che fa da base e da ambiente naturale alla santità. Il grande patrono dell’Europa vede anche l’umiltà del cristiano come il progredire su di una scala che ci allontana gradualmente dal peccato per portarci vicini alla bellezza dell’amore del Padre. L’umiltà è la realizzazione della Parola di Gesù: “Chi si abbassa sarà innalzato”. A noi sembra che il progredire nell’umiltà sia una discesa, ma di fatto invece ci fa salire, come fosse un salire da abissi di tenebra verso la luce e verso l’aria pura, dove possiamo respirare a pieni polmoni. San Benedetto parte dal “Timore del Signore” per passare poi al “Compiere la volontà del Signore”. Abbiamo già considerato il primo gradino: il timore del Signore non è paura di lui, bensì il vivo desiderio di non offenderlo. Sappiamo certamente che la disobbedienza a lui è un male per noi, perché è il rifiuto della sua sapienza e del vero bene per la nostra vita. Il timore del Signore è quindi appena il primo timido passo dell’umiltà, perché in esso l’amore al Signore è mescolato con l’apprensione per eventuali conseguenze dolorose: potremmo dire, con un concetto che oggi non è più di moda, che l’amore del Signore si mescola con la paura del castigo dell’inferno. E questa paura diviene prevalente. La si supera poi gradualmente, cominciando a compiere la volontà di Dio, dapprima quasi come fosse un obbligo, un non poter farne a meno. Quest’atteggiamento non è bello, ma almeno si va verso Dio e si comincia a sperimentare la bontà dei suoi ordini. In tal modo si passa senza fatica al terzo gradino, che è “Accogliere con amore l’obbedienza”. Quando sai che colui che ti dà degli ordini ti ama, puoi cominciare ad obbedirgli con amore. L’umiltà così inizia a prendere forma e consistenza.

Indicami, Signore, la via dei tuoi decreti

e la seguirò sino alla fine.

Dammi intelligenza, perché io osservi la tua legge

e la custodisca con tutto il cuore. Sal 119,33-34

 

19.

Quarto gradino dell’umiltà per S.Benedetto è “Obbedire anche quando costa sofferenza”. Ubbidire è sempre faticoso, perché è disporsi a rinunciare alla propria volontà. Talora questa rinuncia è dolorosa, perché comporta ammettere che il nostro modo di vedere e di pensare è imperfetto, se non addirittura sbagliato. E il gradino seguente è appunto “Confessare le proprie colpe”. È davvero un bel passo nell’umiltà non solo ammettere a noi stessi, ma anche dirlo ad altri chiedendo perdono, che sappiamo di aver sbagliato, anzi, di aver peccato. Questa umiltà ci dispone a vedere il bene negli altri e ad “Accontentarsi sempre di ogni cosa”. Chi si accontenta non è superbo, anzi, è come dichiarasse che Dio può servirsi di ogni cosa per il nostro bene, che quanto avviene è anzitutto nelle mani di Dio. Prossimi gradini sono “Credersi con convinzione il primo dei peccatori” e “Attenersi in tutto alla regola e all’obbedienza”. Quest’umiltà non giudica gli altri, anzi li ritiene superiori. Si comprende perciò come il nuovo passo sia “Parlare solo se interrogati”: noi non abbiamo nulla di meglio, non ci riteniamo importanti o necessari. L’ubbidienza è diventata un modo di vivere serio, e perciò attendiamo anche a parlare soltanto quando per gli altri la nostra parola è degna di attenzione. Questo atteggiamento ci fa essere attenti agli altri, che possono dire cose importanti, anche se non fossero capaci a prima vista di esprimersi. Di conseguenza riusciremo a “Non ridere come gli stolti” e a “Parlare pacatamente, umilmente, saggiamente”! Per il nostro santo siamo arrivati così al culmine dell’umiltà, cioè a “Manifestare anche all’esterno l’umiltà del cuore”, come la nostra Madre Maria Ss.ma e come Gesù, il Figlio di Dio!

Prima di essere umiliato andavo errando,

ma ora osservo la tua parola.

Tu sei buono e fai il bene,

insegnami i tuoi decreti. …

Bene per me se sono stato umiliato,

perché impari ad obbedirti. Sal 119,67-68.71

 

20.

S.Benedetto ci ha aiutati a vedere come progredisce l’umiltà. Noi ci chiediamo ancora perché dobbiamo essere umili. L’umiltà è la caratteristica di Gesù, che non ci ha chiesto di imitarlo se non nell’umiltà: “Imparate da me che sono mite e umile”. Egli non ha mai voluto imporsi a nessuno, ha lasciato libertà a tutti, persino a Giuda. Ha apprezzato i piccoli, ha ascoltato i più poveri, ha portato anche i ricchi a considerarsi servi di tutti. L’umiltà è anche la caratteristica di Maria: “Ha guardato l’umiltà della sua serva”. Non ci vuole molto a notare l’umiltà della madre di Gesù se rileggiamo quanto i vangeli ci dicono di lei. Ed è sua umiltà anche il fatto che i vangeli stessi non le diano molto rilievo. Maria è umile, ed è la Madre da cui impariamo tutto: avrà imparato da lei anche Gesù? E lei avrà perseverato nell’umiltà guardando a Gesù? Chi poteva sentirsi più grande di Maria? Ma ella deve aver pensato: « Se il Figlio di Dio diventa così piccolo da aver bisogno di me, quanto piccola devo farmi io, povera ragazza di un popolo peccatore »! Noi abbiamo altri motivi per rintuzzare il nostro orgoglio e desiderare di crescere nell’umiltà. Siamo noi i peccatori: abbiamo dato spazio al peccato di Adamo nel nostro cuore, nei nostri pensieri, nelle parole e nelle azioni. Abbiamo permesso che la superbia del maligno facesse capolino nei nostri comportamenti e non ci siamo premurati nemmeno di chiedere aiuto ai nostri fratelli per accorgercene. I nostri peccati devono almeno servire a questo di buono: a reprimere l’orgoglio che ci fa gonfiare. Non sono i peccati che fanno qualcosa di buono: dal male non può venire bene. Noi dobbiamo, ricordando quanto siamo peccatori, avere compunzione e stare bassi. La nostra umiltà deve crescere pure considerando che i nostri fratelli sono amati da Dio. Egli non ama loro più che noi: non possiamo quindi essere gelosi; ma li ama, e perciò noi diventiamo umili anche di fronte a loro. In essi è presente la grazia di Dio. Se m’innalzo sopra un fratello, m’innalzo sopra l’amore di Dio!

Non ricordare i peccati della mia giovinezza:

ricordati di me nella tua misericordia,per la tua bontà, Signore.

Buono e retto è il Signore,

la via giusta addita ai peccatori. Sal 25,7-9

 

21.

Camminando nella santità di Dio e partecipando ad essa, ci ritroveremo nel cuore vari atteggiamenti e desideri che prima avremmo considerato anormali. Uno di questi è il desiderio di solitudine. Sembra che la solitudine oggi sia un male insopportabile che fa soffrire giovani e anziani, che fa ammalare moltissime persone. Chi cammina nella santità si accorge della presenza di Dio accanto a sè, dentro di sè, in ogni momento. Questa certezza lo tiene occupato, e contento. Quando t’accorgi di non essere mai solo, la tua pace e la tua gioia cresce, la tua maturità si approfondisce. Già Gesù sapeva di essere solo, anche quando si trovava in mezzo alla folla, perché non era compreso e nessuno condivideva fino in fondo il suo cammino. A questo proposito egli disse: “Io non sono solo, perché il Padre è con me!”. Chi vive seriamente la comunione con il Padre e con Gesù, inizia a comprendere il perché nella Chiesa ci siano anche le vocazioni contemplative e quelle eremitiche. Il Signore chiama uomini e donne a vivere permanentemente in silenzio e in solitudine con lui. Queste persone hanno il ruolo di essere profezia ed esempio per tutti gli altri cristiani, che imparano a valorizzare i tempi in cui sono soli, senza doverli riempire per forza di futilità, di quelle esperienze o parole o immagini che possono essere addirittura dannose, come quelle propinate da molti programmi televisivi. L’esempio di chi riempie tutto il proprio tempo con la presenza di Dio, e così dimostra che lui è necessario e sufficiente al nostro cuore, è di incoraggiamento e sostegno per molti a valorizzare o a cercare momenti, ore e giorni di solitudine.

«Chi mi darà ali come di colomba,

per volare e trovare riposo?

Ecco, errando, fuggirei lontano,

abiterei nel deserto.

Riposerei in un luogo di riparo

dalla furia del vento e dell'uragano». Sal 55,7-9

 

22.

La solitudine è una buona medicina per rafforzare la nostra fede, l’adesione intima al Signore Gesù e il nostro abbandono alla volontà del Padre. Alla fede dobbiamo dedicare tutta la nostra attenzione. Essa non è un dono che possiamo dare per scontato, non è qualcosa che una volta acquisito ce l’abbiamo per sempre, come un oggetto che possiamo tenere in casa o nelle nostre tasche. La fede è un movimento continuo del nostro cuore e della nostra mente, un movimento che può crescere non tanto in quantità, quanto piuttosto in qualità! È la qualità della nostra fede che spesso lascia a desiderare. Una qualità scadente di fede ci può lasciare l’illusione di essere dei credenti, senza mai maturare interiormente, senza divenire mai testimoni credibili di Gesù risorto. Quando la nostra fede è di qualità scadente? Quando noi pensiamo a Dio con l’intento di ottenere qualcosa da lui, allora la nostra fede è interessata, egocentrica. Lo scopriamo quando non ci sentiamo esauditi nei nostri desideri: allora tendiamo a lamentarci, e siamo quasi disposti a smettere di credere! Questa fede è di qualità molto scadente, tanto da non riconoscerla nemmeno come fede cristiana. La fede cristiana si affida alla sapienza di Dio, più acuta e lungimirante della nostra, e tiene conto della croce di Gesù, con cui egli ci ha salvato e a cui noi dobbiamo e vogliamo conformarci per essere riconosciuti figli da Dio! Camminando verso la santità di Dio la nostra fede deve rimanere sempre di qualità alta, profonda, seria, una fede che ci porti a somigliare a Gesù Cristo quando si è offerto al Padre.

Ho creduto anche quando dicevo:

«Sono troppo infelice».

Che cosa renderò al Signore

per quanto mi ha dato?

Alzerò il calice della salvezza

e invocherò il nome del Signore. Sal 116,10-13

 

23.

La nostra santità è basata sulla fede. E la fede deve essere sicura e dello stesso tipo di quella di Gesù! Una fede che lascia posto alla pretesa di essere ascoltati da Dio nei nostri desideri materiali, o alla lamentela perché egli ci permette di sperimentare la croce della povertà o della malattia o dell’incomprensione, non è una fede di qualità. La fede adulta è quella della nostra Madre, di Maria: è una fede che la rende disponibile a realizzare la Parola del Padre, a offrire la propria vita ai disegni per noi ancora sconosciuti di Dio, a soffrire pur di testimoniare la grandezza di Gesù. La fede di Maria rispecchia quella stessa di suo Figlio! La fede degli apostoli ha percorso un lungo cammino di conversione: da fede interessata o malata, come spesso è la nostra, è diventata simile o uguale a quella della Madre. Ella è non solo maestra di preghiera, ma anche di fede vera e perfetta. Guardiamo anche la fede dei santi, quelli che veneriamo come esempio per noi: Marta, tanto per citare una santa che godeva l’amicizia del Signore, ha maturato la sua fede in questo modo: dal “credo che tu sai fare miracoli” è arrivata a dire “credo che tu sei il Signore”. Da « credo che fai » a « credo che sei »! Il suo sguardo si è purificato: non guardava più a Gesù col desiderio di un miracolo, ma per stabilire un rapporto vivo con lui! Questa fede potrebbe esprimersi così: « Mio Dio, Padre santo, ti adoro e ti ringrazio. Ti ringrazio perché ci sei, grazie perché hai mandato tuo Figlio a soffrire per noi, grazie perché l’hai risorto dai morti: per merito suo tu ci perdoni i peccati. Grazie per il tuo santo Spirito che ci fa simili a Gesù. Eccomi a compiere con lui la tua volontà. Manifestamela nei modi più utili per me e per il tuo Regno. Se la tua volontà è difficile da realizzare o prevede che io soffra, eccomi ancora, titubante e debole sì, ma fiducioso nella forza che viene da te e dal tuo santo Spirito. Grazie, Padre, che ci sei, grazie che sei nascosto, ma sempre presente!».

Allora ho detto: «Ecco, io vengo.

Sul rotolo del libro di me è scritto,

che io faccia il tuo volere.

Mio Dio, questo io desidero,

la tua legge è nel profondo del mio cuore». Sal 40,8-9

 

24.

La nostra fede, man mano che, crescendo e maturando, cambia d’aspetto, fa cambiare pure la nostra vita, i rapporti col prossimo e la preghiera. Ciò che potremmo dire della preghiera lo potremmo dire della vita e della fede. Il nostro credere è il rapporto che si instaura tra noi e Gesù, Figlio di Dio. I suoi discepoli credevano già all’inizio, quando hanno cominciato a seguirlo e quando hanno gustato il vino pregiato a Cana. Ma ogni volta che Gesù manifestava qualcosa di nuovo della propria identità, la fede dei suoi cambiava, si approfondiva, maturava, e trasformava la loro preghiera e le loro attese. E ancor più quando Gesù rivelava che il suo cammino avrebbe comportato la croce. Allora il credere, avvicinando gli uomini a lui, li allontanava dal modo di pensare e di comportarsi del mondo. I discepoli stessi non erano sempre pronti a questo passaggio. Ne abbiamo una prova addirittura dalla reazione di Simon Pietro, che reagì con forza al primo annuncio della passione, del rifiuto da parte delle autorità e della morte in croce. La sua fede non era ancora maturata, e quindi tutta la sua vita era immersa nello spirito mondano, tanto da far dire a Gesù quella parola forte e per noi inattesa: “Dietro di me, Satana. Tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”! È molto importante perciò per noi non accontentarci di dire “io credo”; dobbiamo vedere come è la nostra fede. E poi dobbiamo fare il passo che la innalzi alle dimensioni adeguate alla croce di Gesù. Possiamo cominciare a chiederci: « La sofferenza mia o degli altri mette in discussione il mio credere? La mia fede mi porta ad amare il mio Dio comunque? ». La risposta ci rivela di che tipo è la nostra fede. Se non è ancora come quella di Gesù, con umiltà possiamo chiedergliela. L’umiltà è d’obbligo. Senza umiltà la fede non avanza, non resiste, non cambia.

A te, mia forza, io mi rivolgo:

sei tu, o Dio, la mia difesa.

La grazia del mio Dio mi viene in aiuto,

Dio mi farà sfidare i miei nemici. Sal 59,10-11

 

25.

Quando la nostra fede matura, porta frutto. E frutto della fede sono la speranza e la carità. Una fede matura non permette che ci abbattiamo: la fede è abbandono all’amore del Padre, che ha assicurato la sua presenza costante. “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla! Anche andassi per valle tenebrosa, non temerei alcun male, perché tu sei con me!” Questo salmo esprime una speranza frutto di fede semplice e forte, matura! Frutto della fede è appunto la speranza. Speranza è la certezza dell’intervento di Dio, capace di mantenere le sue promesse. La nostra santità è ricca di serenità, che deriva dalla sicurezza che le mani di Dio sono mani di Padre, sempre pronte a difenderci dal male, o pronte ad adoperare le nostre difficoltà e sofferenze per la costruzione di un futuro degno di lui, dove la nostra gioia e la sua gloria vanno di pari passo. Fede e speranza vanno a braccetto, possiamo dire, si integrano e si sostengono a vicenda. Grazie alla fede siamo sicuri di non essere mai abbandonati da Dio, e sicuri che tutto concorre al bene, anche le apparenti sconfitte. La nostra paziente attesa dei beni promessi da Dio fortifica la nostra fede, che continua a maturare e a stabilizzarsi. Quando il nostro credere non si appoggia su altri desideri che quello di godere della presenza di Dio, allora comincia a portare frutto di carità. La carità vera è quella che ci fa somigliare a Dio nel donare senza riserve e con prudenza il nostro tempo, le energie e le attenzioni ai fratelli e a tutte le persone che si pongono sulla nostra strada. La nostra fede ci mette in relazione con quel Dio che ama, e perciò dalla fede scaturisce amore paziente, prudente, fedele. Quest’amore è la carità: è molto importante che la nostra carità riceva sempre la sua luce e la sua forza da Dio e dalla nostra fede in lui!

Io sono tranquillo e sereno

come bimbo svezzato in braccio a sua madre,

come un bimbo svezzato è l'anima mia.

Speri Israele nel Signore,

ora e sempre. Sal 131,2-3

 

26.

La carità è l’amore che Dio stesso esercita nei riguardi degli uomini. Il suo amore più grande e, possiamo dire, il fondamento perenne del suo amore è il Figlio. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”, ha detto Gesù stesso. Vogliamo vedere l’amore di Dio? Guardiamo Gesù! Vogliamo gustare l’amore di Dio? Accogliamo Gesù. Vogliamo imitare l’amore di Dio? Diamo Gesù agli uomini. Dobbiamo divenire capaci di osservare l’interezza dell’amore di Dio, senza lasciarci condizionare dalle attese umane. Le attese umane possono tradirci, confonderci, farci precipitare nel male e nella disobbedienza a Dio stesso. L’amore vero è quell’atteggiamento di disponibilità che dice sempre il proprio sì. Così è detto di Gesù: “In lui c’è stato il sì”. Il sì di Gesù è un sì detto a Dio, che chiede soltanto azioni conformi alla sua santità. Anche in noi dev’esserci solo il sì, ma anche per noi il sì dev’essere detto a Dio, anche quando richiesto dagli uomini. Un sì detto all’uomo, ma che risulti disobbedienza a Dio, non è santità per noi e non produce vita e bene per nessuno. Molti cristiani sono stati ingannati dal loro desiderio e volontà di dire sempre sì a tutti. Credevano d’essere generosi, di essere caritatevoli, di essere grandi! Quando però quel sì agli uomini era un no alla Parola di Dio e ai suoi comandamenti, allora è stato inganno. Quanti cristiani si sono trovati indotti in errore e trascinati al male dal loro desiderio di essere disponibili sempre e comunque senza discernere se quanto veniva loro chiesto era conforme alla volontà di Dio! Dobbiamo essere sempre vigilanti, “prudenti come i serpenti”, direbbe Gesù, perché l’amore non può essere disobbedienza a Dio, e questa non è amore vero. La nostra santità perciò si avvale sempre del nostro ragionamento, per confrontare le richieste degli uomini con la Parola di Dio e con le necessità della Chiesa.

Le sue opere sono splendore di bellezza,

la sua giustizia dura per sempre.

Ha lasciato un ricordo dei suoi prodigi:

pietà e tenerezza è il Signore.

Egli dá il cibo a chi lo teme,

si ricorda sempre della sua alleanza. Sal 111,3-5

 

27.

Nel percorso della nostra santità corriamo vari rischi e pericoli. Possono essere un pericolo le cose che riteniamo buone e positive: esse possono imporsi al nostro desiderio, tanto da farci dimenticare la Parola di Dio e la sua chiamata, i compiti che egli ci ha affidato, la preminenza assoluta di Gesù su tutti e su tutto. Esse, proprio perché buone, riescono ad esercitare una sorta di seduzione, che può diventare negativa. Nel cammino della nostra santità, il percorso di unione a Gesù, è necessario stare attenti a non mettere nulla davanti a lui, in particolare proprio cose e azioni che appaiono belle e buone. Le eresie e le divisioni nella Chiesa sono sorte perché qualche cosa “buona e bella” ha preso il sopravvento su Gesù. Gli esempi sono numerosissimi. Ci può servire ricordarne uno narrato nel vangelo stesso. L’amore ai poveri è certamente una cosa buona e bella, necessaria, raccomandabile e anche santa. Se però l’amore ai poveri prende il sopravvento sull’amore a Gesù, la comunione e l’unità dei discepoli viene rovinata, e si finisce con il tradire Gesù stesso. Senza sminuire l’importanza dell’amore ai poveri, Gesù stesso ha dato precedenza alla propria persona. Egli è la loro prima necessità, loro ricchezza vera e profonda. Le cose belle e buone attirano l’attenzione e la simpatia, ma se messe al posto di Gesù, portano lontano da lui e impediscono l’edificazione della Chiesa. Se messe al posto di Gesù, le cose belle e buone nascondono qualche nostro difetto o peccato. Giuda si illudeva di amare i poveri. Egli dava invece posto al proprio amore al denaro.

Ho detto a Dio: «Sei tu il mio Signore,

senza di te non ho alcun bene».

Per i santi, che sono sulla terra,

uomini nobili, è tutto il mio amore.

Si affrettino altri a costruire idoli:

io non spanderò le loro libazioni di sangue

né pronunzierò con le mie labbra i loro nomi. Sal 16,2-4

 

28.

Sul percorso della nostra santificazione dobbiamo fare attenzione ai molti pericoli che ci vogliono ostacolare. Gesù stesso ha raccomandato di non scandalizzare e di non lasciarci scandalizzare, cioè non dobbiamo lasciar porre impedimenti sul nostro cammino con lui. Egli poi ha pregato il Padre perché ci custodisca dal maligno, che tenta continuamente di impedirci di essere santi, vuole tirarci indietro a pensare come pensa il mondo e a fare ciò che il mondo fa. Contando sulla preghiera di Gesù stesso possiamo armarci delle armi dello Spirito, per difenderci e allontanare da noi il pericolo di abbandonare la fede e l’obbedienza alla Parola di Dio. È San Paolo che ci parla delle “armi dello Spirito”, necessarie per la vita cristiana. Egli scrive agli Efesini (6,11): “Rivestitevi dell'armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo”. Così ci rendiamo conto che, pur volendo noi vivere in modo da piacere a Dio e da essere disponibili e pronti a servire nel bene i fratelli, dobbiamo essere vigilanti e cauti, perché il nemico può servirsi di molte realtà e di molti fatti per ostacolarci. Rivestire significa mettersi addosso per portare costantemente qualche cosa che di per sè non abbiamo, qualche cosa che può venirci dato dall’esterno. L’armatura di Dio è un qualcosa che possiamo ricevere da Dio, e che certamente non serve a far del male, bensì a difendersi dagli assalti del nemico e dalle sue mosse, o a spaventarlo perché si allontani da noi. Questo ce lo dice chiaramente: “La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”. Noi dobbiamo lottare non contro gli uomini: per essi offriamo la nostra fatica e la nostra vita, secondo l’esempio di Gesù. La nostra vigilanza è impegnata a rifiutare e allontanare quegli “spiriti” che fanno soffrire anche le persone che ci circondano: sono gli spiriti di vanità, di orgoglio, di amore al denaro, di sensualità, di egoismo, di superiorità, e tanti altri.

Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò timore?

Se contro di me si accampa un esercito,

il mio cuore non teme;

se contro di me divampa la battaglia,

anche allora ho fiducia. Sal 27,1.3

 

29.

San Paolo descrive le difese di cui il cristiano deve essere fornito per perseverare nella fede e per riuscire a difenderla dai pericoli costanti che incontriamo nel mondo. “State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace” (Ef 6,14-15). La prima cosa di cui è necessario disporre è “la verità”. Se non abbiamo certezze non possiamo camminare, è come inciampassimo sempre nei nostri stessi vestiti. Per verità intendiamo una retta conoscenza di Dio, di Dio Padre e del Figlio suo Gesù Cristo, e anche dello Spirito Santo che ci illumina. Verità è anche la conoscenza di noi stessi come figli di Dio, destinati a maturare verso la statura di Gesù, portatori di uno Spirito che è solo amore. Verità è conoscere l’importanza e la necessità di essere uniti nella Chiesa, per diventare insieme luogo di abitazione e manifestazione della vita di comunione della Trinità Ss.ma! Queste certezze ci rendono saldi e fermi, e tengono lontana la tentazione di cedere nella professione della nostra fede. Altra difesa della vita divina in noi è “la giustizia”. San Paolo la paragona ad una corazza, un’arma che ci permette una certa tranquillità. La giustizia è l’obbedienza ai comandamenti di Dio, la ricerca di aderire in tutto alla sua volontà. Quando gli obbediamo, Dio ci vede giusti, persone cresciute proprio secondo il suo disegno. Lo zelo per diffondere il vangelo, per far conoscere che Gesù è l’amore di Dio per gli uomini, è necessario per muoversi in questo mondo. San Paolo paragona questo zelo alle scarpe! Le scarpe permettono al soldato di muoversi e camminare senza paura di essere morso da serpenti, punto da spine o da sassi appuntiti o da piccoli espedienti del nemico. Hai desiderio e volontà di dare la buona notizia dell’amore del Padre a chi è oppresso, a chi ha paura, e per questo vive immerso nel materialismo e nell’edonismo? Se hai questo amore per gli uomini niente ti fa paura!

Tu sei la mia roccia e il mio baluardo,

per il tuo nome dirigi i miei passi.

Mi affido alle tue mani;

tu mi riscatti, Signore, Dio fedele. Sal 31,4.6

 

30

“Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno”. La fede dev’essere sempre a portata di mano e messa davanti, bene in vista, come lo scudo. In tal modo le frecciate del nemico non arrivano a farmi del male, perché la fede ha la forza e la capacità di spegnere la malvagità del nemico! Già abbiamo parlato della fede, di che qualità dev’essere. Ora l’apostolo ci dice che dobbiamo averla sempre in mano: non possiamo permetterci di decidere e di fare nulla senza chiedere consiglio alla nostra fede! Essa deve avere sempre il peso preponderante nelle scelte, sia nelle scelte di vita che nelle decisioni quotidiane. Quando decidi quale professione scegliere, quale lavoro intraprendere, con chi condividere la vita come coniuge, dove comprare casa, ecc., fa’ in modo che intervenga la fede. Quando ti alzi la mattina, quando esci di casa, quando incontri qualcuno, quando parli con i tuoi figli e con i tuoi fratelli, interpella sempre la tua fede: potrai camminare sempre a testa alta, con sicurezza. “Prendete anche l’elmo della salvezza”: altro elemento che fa parte dell’armatura di Dio da indossare è la “salvezza”! Che cosa intende San Paolo? Da altri passi delle sue lettere sembra che per salvezza egli intenda l’essere libero dall’influsso del mondo. Questo mondo cerca di mettere paura al cristiano perché receda dalla sua unione con Gesù e dall’appartenenza alla Chiesa. Lo fa con la derisione, l’esclusione, il disprezzo, l’indifferenza, la minaccia, e infine con la persecuzione. Essere al di sopra di queste cose in modo che non riescano a modificare o a farci abbandonare la nostra fede, è salvezza! La strada per arrivarvi è dichiarare apertamente l’appartenenza a Gesù e l’amore alla sua Chiesa. “Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rm 10,10). Essa è l’elmo, la difesa della testa: un’arma che dà sicurezza, e coraggio di intrufolarsi là dove cadono anche colpi duri e imprevisti!

Il Signore è la mia forza e il mio scudo,

ho posto in lui la mia fiducia;

mi ha dato aiuto ed esulta il mio cuore,

con il mio canto gli rendo grazie. Sal 28,7

 

31.

“Prendete anche… la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio”. Finalmente, dopo varie armi di difesa, San Paolo ne propone una che spaventa il nemico e ci permette di avanzare. È un’arma speciale: la spada dello Spirito, e fuori metafora questa è la Parola di Dio! Se il cristiano non ha la Parola di Dio, in che si distingue dal pagano? Se non ho la Parola di Dio sono in balia delle parole degli uomini, sono senza orientamento sicuro, senza certezze, sempre timoroso di tutto e di tutti. La Parola di Dio mi dà modo di avere una mia identità, di essere fermo nelle mie posizioni, di essere - pur con umiltà - stabile nelle scelte, di avere chiarezza sul futuro. La Parola di Dio mi sostiene con la sua sapienza, che nessuno può superare. Quando la Parola di Dio è sicura nel mio cuore e sulle mie labbra, io sono tranquillo. La forza stessa di Dio mi rende coraggioso e pronto non solo a difendere me stesso, ma anche a propormi come difesa per gli altri. La Parola di Dio è una ricchezza immensa. Cercherò di essere sempre aggrappato alla Parola di Dio, di muovere i miei passi senza mai staccarmene. Il primo frutto che noto da quando tengo in mano la Parola di Dio è che nasce in me con frequenza la preghiera, che prende il via proprio da quella Parola. Non per nulla San Paolo continua dicendo: “Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi”. La preghiera è il respiro del cristiano, ma ne parleremo più avanti.

La tua parola, Signore,

è stabile come il cielo.

La tua fedeltà dura per ogni generazione;

hai fondato la terra ed essa è salda. Sal 119,89-90

 

32.

Abbiamo considerato, aiutati da San Paolo, alcuni strumenti necessari a difendere la nostra fede e la nostra santità dai molti nemici che ci circondano o ci occupano il cuore. Una cosa è da ricordare: noi abbiamo bisogno dell’aiuto dei fratelli. Il Signore Gesù, quando è venuto a salvarci, ha fatto in modo che i suoi discepoli stessero insieme a lui, ma anche insieme tra loro. Egli non ha previsto che i figli di Dio stessero soli, isolati gli uni dagli altri, non ha previsto che ognuno potesse arrangiarsi o intendersela da solo con lui. Egli ci ha riuniti, in modo che possiamo aiutarci gli uni gli altri con i doni diversi di cui lo Spirito Santo ci ha dotati. La nostra persona è realizzata veramente quando viviamo in comunione e in comunità. Lo stesso Spirito Santo è Spirito di comunione, e Dio è Padre di tutti, e Gesù è unico Signore che si dona nel segno del pane e del vino che vengono assunti insieme, in modo che diventino strumento di comunione sia con lui che tra noi. Così ognuno che crede in lui, inizia il cammino della vita nuova di credente con il battesimo, e questo viene celebrato dalla Chiesa! Il battezzato viene affidato ad un padrino, una persona credente che lo aiuti nei primi passi, che nelle varie situazioni della vita gli indichi le soluzioni di fede e lo sostenga nel viverle, e gli sia di esempio nell’essere membro attivo della comunità cristiana. Il cristiano deve sapere che non è da solo nel credere e nell’amare e seguire Gesù, ma non basta che lo sappia, è necessario che lo sperimenti ogni giorno. Questo non vale solo per i bambini, vale per tutte le età! Se tu hai Spirito Santo vivi la tua fede in comunione con gli altri credenti. Se non vivi in comunione con gli altri forse è segno che non hai Spirito Santo, che questo si è ritirato da te o tu lo hai rattristato.

Ecco quanto è buono e quanto è soave

che i fratelli vivano insieme!

E' come olio profumato sul capo,

che scende sulla barba,

sulla barba di Aronne,

che scende sull'orlo della sua veste. Sal 133,1-2

 

33.

Hai visto di certo un fuoco all’aperto, un falò: vari legni ammucchiati e a contatto l’uno con l’altro bruciano facendo una bella fiamma! Se uno di quei legni si stacca dagli altri, si spegne, non collabora più a produrre luce e calore. Se fin dall’inizio si tengono i vari legni separati l’uno dall’altro, nemmeno si accendono. È un piccolo esempio di come sia necessaria l’unità tra i cristiani. Essi devono essere uniti concretamente, non solo idealmente. Gesù ha pregato il Padre con forza perché conceda unità ai suoi discepoli, e ha raccomandato con forza ai discepoli stessi di rimanere uniti a lui, come tralci alla vite, per essere uniti tra loro non con un legame umano, ma divino! La nostra santità non cresce se non in comunione con gli altri credenti. La nostra santità perciò ha bisogno di piccoli e frequenti momenti di fraternità, nei quali possiamo praticare l’amore reciproco, il perdono reciproco, la sopportazione e l’aiuto fraterno. Siamo tutti portatori di handicap spirituali e affettivi, quindi non dobbiamo assentarci dalla comunità parrocchiale perché gli altri (parroco compreso) non sono come dovrebbero essere. Nemmeno tu sei come dovresti: gli altri sopportano i tuoi difetti, anche quelli che tu non conosci o non ammetti. Come puoi ergerti a giudice dei fratelli di Gesù prima di aver praticato l’amore fino alla fine? Vuoi conservare la santità che hai ricevuto e vuoi vederla crescere? Diventa membro attivo della tua comunità parrocchiale, e attivo non solo per “fare” qualche servizio, ma per rendere viva la sua preghiera, per rendere quotidiano il suo ascolto della Parola, per rendere visibile la sua carità.

Gerusalemme è costruita

come città salda e compatta.

Là salgono insieme le tribù,

le tribù del Signore,

secondo la legge di Israele,

per lodare il nome del Signore. Sal 122,3-4

 

34

Il Papa Benedetto XVI, in Brasile (2007), ha detto così: “Che cosa ci dà la fede in Dio? La prima risposta è: ci dà una famiglia, la famiglia universale di Dio nella Chiesa cattolica. La fede ci libera dall'isolamento dell'io, perché ci porta alla comunione: l'incontro con Dio è, in sé stesso e come tale, incontro con i fratelli, un atto di convocazione, di unificazione, di responsabilità verso l'altro e verso gli altri.” Il nostro essere Chiesa è il dono di Dio a chi crede in lui! La nostra vita nella Chiesa è il modo con cui Dio ci libera dalla cattiva solitudine e dalla tristezza che ne consegue. La nostra comunione è sempre dipendente dalla fede nel Padre e nel Signore Gesù, e quindi l’unità tra noi cristiani viene mantenuta non solo e non tanto dalla nostra buona volontà, ma dal nostro essere uniti a Gesù Cristo nei modi che egli stesso ci ha donato. La nostra capacità di comunione è data dall’essere uniti come tralci alla vite, che è il Signore risorto! Non possiamo perciò illuderci di poter essere Chiesa sana e santa senza ricorrere, ognuno di noi, al sacramento della riconciliazione con una certa frequenza, e senza nutrire il nostro spirito con il pane che viene dall’alto! Quando io ero ragazzo i miei genitori mi mandavano tutti i sabati a confessarmi: ora posso dire che non mi ha fatto male, anzi! A lungo andare maturava in me non solo la coscienza del bene e del male, ma anche la capacità di discernimento sui pensieri e sulle azioni, la capacità di distinguere tentazioni da peccati, e la capacità di distinguere tra peccato e peccatore. Avvicinandomi con frequenza all’incontro con Gesù che perdona, maturava in me non solo il senso della misericordia di Dio, ma anche la consapevolezza che essa non è uno scherzo e nemmeno la bonarietà di una persona incosciente che non tiene conto delle conseguenze delle nostre azioni.

Il Signore ha scelto Sion,

l'ha voluta per sua dimora:

«Questo è il mio riposo per sempre;

qui abiterò, perché l'ho desiderato. Sal 132,13-14

 

35.

Oggi nessun genitore manda tutti i sabati i propri figli al sacramento della riconciliazione: non ci sono molti sacerdoti a disposizione, e soprattutto è diminuita la sensibilità spirituale dei fedeli. Vorrei dire di più: è diminuito il desiderio della santità. I cristiani che amano il Signore Gesù e vogliono dargli gloria con la propria vita cercano di incontrarlo di frequente per ricevere il suo perdono sacramentale. Per questo non attendono di avere commesso peccati gravi, perché sanno che siamo sempre peccatori e sempre si annida in noi, anche in modi impercettibili, il peccato del mondo. Il perdono ricevuto tramite l’assoluzione del sacerdote è una grande grazia che toglie il peso che ci impedisce di essere gioiosi, di essere generosi, di dar buona testimonianza al Signore Gesù. Chi cammina verso la santità vuole essere sempre un segno e uno strumento adatto alla gloria di Dio, e perciò accoglie come un dono la possibilità di ricuperare la freschezza spirituale della vita interiore. Molte persone si giustificano dicendo: è difficile confessarsi! Questo è vero solo per chi si confessa per motivi egoistici, per eliminare da sè il rimorso o per poter dire d’aver ubbidito ad un precetto, e non è vero invece per chi fa della confessione un atto d’amore a Gesù e al Padre. Se vuoi far fare bella figura a Gesù, oppure vuoi essere disponibile a Dio per la sua opera d’amore tra gli uomini, allora non farai fatica a mettere alla luce i tuoi peccati consegnandoli al ministro della Chiesa, a vincerne la vergogna, e non sarai nemmeno tanto pignolo nella scelta del sacerdote. Dobbiamo abituarci a fare tutto quello che facciamo per amore, mai per egoismo, anche quando preghiamo o chiediamo a Dio perdono. Ne avremo il frutto di esser perdonati e “restaurati” in tutto il nostro essere: se noi facciamo tutto per amore, tutto ci riuscirà più facile e il frutto sarà maggiore!

Crea in me, o Dio, un cuore puro,

rinnova in me uno spirito saldo.

Insegnerò agli erranti le tue vie

e i peccatori a te ritorneranno. Sal 51,12-15

 

36

Celebriamo il sacramento della riconciliazione anche come ‘anticamera’ dell’Eucaristia, in preparazione all’unione sacramentale con il nostro Signore e Salvatore. Non possiamo unirci a lui se non gli chiediamo di perdonarci! Prima di celebrare l’Eucaristia è normale e doveroso celebrare il Sacramento della riconciliazione. L’Eucaristia è il dono più grande che Gesù ci ha lasciato: è grande perché è davvero comunione: comunione con lui, comunione con il Padre, comunione con i fratelli. Nella comunione è posto il segreto della gioia del cristiano e di ogni uomo. La solitudine genera tristezza, la comunione genera festa! L’uomo, ogni uomo, è fatto per la festa! Non c’è festa senza comunione, e tanto più intima e profonda è questa, tanto più vera e duratura è la festa. L’Eucaristia è sacramento di comunione con Gesù, e attraverso di lui con il Padre e con gli altri cristiani. La comunione eucaristica produce capacità di sviluppare una certa sintonia anche con gli altri, con i non credenti. Nella comunione eucaristica, vissuta consapevolmente e profondamente, prende concretezza anche la nostra santità, la nostra divinizzazione! La nostra santità, alla fin dei conti, è la strada per diventare come Dio, perfetti nell’amore. L’Eucaristia è quindi il cibo della nostra vita, anima e corpo e spirito, il cibo che alimenta e fa crescere la nostra capacità di amare, di essere non solo a Dio uniti, ma anche trasformati in lui. Il cristiano che si avvicina a comprendere questa verità si accosta sempre più all’Eucaristia, ogni volta che gli se ne presenta l’occasione. Molte persone hanno scoperto questo dono e cercano perciò di partecipare alla Messa tutti i giorni! Questo è il segno più sicuro dell’apprezzamento della propria fede, il dono che fa crescere il fedele in maturità, l’appuntamento che trasforma le giornate in eternità e le rende fruttuose per il Regno di Dio!

Davanti a me tu prepari una mensa

sotto gli occhi dei miei nemici;

cospargi di olio il mio capo.

Il mio calice trabocca. Sal 23,5

 

37.

Durante la celebrazione eucaristica ha un posto importante la preghiera che Gesù ci ha insegnato, il «Padre nostro»! Questa è la preghiera per eccellenza; si potrebbe quasi dire che è l’unica preghiera, quella cui devono conformarsi tutte le altre. Che cos’è la preghiera per il cristiano? Per che motivo e a quale scopo egli prega? Quando è utile pregare? Bisogna pregare anche quando non veniamo esauditi? Abbiamo sempre molte domande a riguardo della preghiera: e io non sono certamente in grado di rispondere a tutte. I miei peccati mi impediscono di parlare della preghiera in modo profondo ed esauriente, tuttavia ritengo mio dovere almeno cominciare. Chi ama molto il Signore e chi è compenetrato profondamente di lui potrà completare! Gli apostoli, da buoni ebrei, erano capaci di pregare: recitavano i salmi sia nella sinagoga che in casa. Essi però, vedendo Gesù pregare, lo hanno interrogato: “Maestro, insegnaci a pregare”! Essi si erano accorti che il modo di pregare di Gesù era nuovo. E Gesù ha risposto alla loro domanda donando il «Padre nostro»! Da quel momento essi hanno compreso che la preghiera del credente in Gesù è differente dalla preghiera degli altri, soprattutto dei pagani. Quando essi hanno dovuto esprimersi in greco, lingua di pagani, si sono sentiti in dovere di coniare una parola nuova per esprimere il pregare cristiano. La parola usata dagli evangelisti non ha più il significato inteso dai pagani, cioè domandare per ottenere da Dio cose che l’uomo non riesce a darsi da solo. Per Gesù, e quindi per i cristiani, pregare è protendersi verso Dio per godere della sua presenza, desiderare di immergersi in lui, di essere trasformati. I cristiani quindi sanno che la preghiera non li lascia così come sono, anzi, essi stessi desiderano che avvenga in loro qualche cambiamento, perché desiderano crescere verso la statura di Gesù, figlio che offre se stesso a compiere la sapienza del Padre.

O Dio, tu sei il mio Dio, all'aurora ti cerco,

di te ha sete l'anima mia,

a te anela la mia carne,

come terra deserta,

arida, senz'acqua. Sal 63,2

 

38.

Ciò che Dio guarda e valuta e caso mai apprezza nella nostra preghiera è il desiderio che la fa sorgere e che le fa da anima: quando preghi desideri cose del mondo per il tuo benessere e la tua comodità, o desideri ciò che Dio ha promesso? Desideri essere simile a lui? Desideri diventare uno che realizza i disegni di Dio? Desideri collaborare con lui alla salvezza degli uomini? Desideri seminare amore nel mondo? Desideri che Gesù venga accolto, conosciuto, amato, con tutta la forza del suo Spirito e con la pienezza del suo amore crocifisso? Per noi pregare è coltivare ed esprimere questi desideri che ci portano vicino al cuore di Dio, ci fanno cercare le cose di lassù. Quando il Padre vede questi desideri nella nostra preghiera, anche se essa fosse disturbata, anche se non riuscissimo a completarla come vorremmo, poco importa. Egli apprezza ed esaudisce il nostro desiderio, che è anche suo. Tutto questo lo impariamo proprio dalla preghiera che Gesù ci ha insegnato. Egli infatti con le sue parole fa fare un grande salto di qualità alla nostra preghiera. Egli ci fa cominciare dicendo: “Padre nostro”. Queste semplici parole ci vogliono mettere a diretto contatto con Dio, ci fanno guardare a lui con amore, con l’amore di chi lo conosce e vuole conoscerlo ancora di più. Dio per noi non è una persona lontana, distante, disinteressata. Egli è colui cui la nostra vita preme più che a noi stessi. La nostra vita è dono suo, realizzazione sua. Dicendo “Padre” sottolineiamo il fatto che egli è responsabile del nostro vivere, gli esprimiamo riconoscenza, gli diciamo che lui è importante per noi e che per noi è importante tutto quello che lui ha in mente sia per noi che per il mondo. Dicendo “Padre” gli diciamo il nostro desiderio di vederlo, di stargli vicino, di sentir battere il suo cuore, di partecipare a realizzare i suoi grandi disegni nel creato e nell’umanità!

Egli mi ha detto: «Tu sei mio figlio,

io oggi ti ho generato. Sal 2,7

 

39.

Guardando il Padre e imparando a pregare, vediamo che egli è Padre “nostro”! Il suo amore paterno non permette che sviluppiamo egoismo o gelosia: egli è nostro Padre, un Padre che ha altri figli da amare, che non è tutto solo per me, ma che piuttosto si serve anche della mia vita per esprimere la sua paternità per molti altri. La preghiera che Gesù ci fa pronunciare è in tal modo scuola di contemplazione e scuola di fraternità. Se pronunciamo la parola «Padre» con amore diventiamo figli, capaci di vedere colui che nessuno ha mai visto, e capaci di stabilire con lui un rapporto di confidenza e di rispetto, di adorazione e di abbandono fiducioso alla sua mano provvidente. Dicendo “che sei nei cieli” continuiamo la contemplazione, col desiderio di penetrare nei segreti della vita divina. Dire “che sei nei cieli” è come dire «che sei nascosto», ma anche «che sei dovunque», oppure «che ci sei anche se non ti possiamo raggiungere» e ancora «che non possiamo comandarti o usarti per i nostri scopi terreni». Le prime parole che Gesù ci offre per la nostra preghiera ci dicono come deve essere impostato il nostro rapporto con Dio: è il rapporto vivo di chi lo conosce già, ma vuole conoscerlo ancora per scoprire tutta la ricchezza del suo cuore e della sua mente. Quando vorrò prendermi del tempo da dedicare alla preghiera cercherò di approfondire questo aspetto, di continuare la contemplazione con il desiderio di far parte della sua vita, cioè del suo amore! Questo avvicinarmi al Padre mi porterà a offrirmi perché la mia vita gli dia gloria, gli faccia far bella figura nel mondo in cui vivo. Questo è uno dei significati del “sia santificato il tuo nome”; non sono io a santificare il nome di Dio, ma io desidero che la sua paternità sia conosciuta e riconosciuta. È lui stesso che santifica il suo nome, e lo fa - come ci dice il profeta Ezechiele (c 36) - attraverso il suo popolo. Dio santifica il suo nome radunando, purificando e donando il suo santo Spirito. Io perciò mi offro per essere riunito nella Chiesa, per essere liberato dalle idolatrie che sono i vizi degli uomini, e per portare in me lo Spirito Santo che Gesù alita sui suoi discepoli!

Cantate al Signore un canto nuovo,

cantate al Signore da tutta la terra.

Cantate al Signore, benedite il suo nome,

annunziate di giorno in giorno la sua salvezza. Sal 96,1-4

 

40

Dio potrà gradire la mia preghiera quando vedrà che i suoi desideri sono accolti da me come da un figlio attento. Perciò ecco che gli esprimo il desiderio “venga il tuo regno” e “sia fatta la tua volontà”. Perché il mondo diventi regno di Dio, egli ha mandato Gesù, e per realizzare la sua volontà, cioè la pienezza del suo amore, egli ha voluto che Gesù salisse la croce. Gesù offre anche a noi la possibilità di partecipare alla sua missione, per questo ci suggerisce di esprimere nella preghiera il desiderio che si realizzi quel Regno dove il Padre può creare ordine tra gli uomini secondo la sua sapienza, un ordine che viene dall’amore e porta ad amare! E a Gesù preme che anche noi facciamo la volontà del Padre, una volontà che è salvezza per noi e per tutto il mondo: in vista di questa salvezza ci fa desiderare la sua volontà, più sapiente e lungimirante delle nostre povere volontà, mosse per lo più da egoismi e dalla voglia di soddisfare i bisogni immediati. La preghiera più importante di Gesù stesso è stata quella pronunciata nell’orto degli ulivi: “Padre, non la mia, ma la tua volontà sia fatta”! Con quella preghiera egli si preparava a portare la croce. La croce gli ha procurato sofferenza e morte, ma da essa è venuta la sua gloria e la salvezza per il mondo. Noi vogliamo fare la volontà del Padre anche quando essa ci porta a morire a noi stessi; siamo però certi che alla fine il Padre ci conduce alla gioia e alla gloria. La vita dei santi, che la Chiesa ci propone come esempi di vita, è spesso una illustrazione di questo percorso dalla croce alla gioia e alla gloria. Noi non amiamo la croce in sè o la sofferenza, ma amiamo la volontà del Padre, anche quando essa comporta dolore o tribolazione. Insegnandoci a pregare Gesù ci insegna quindi anzitutto a desiderare i desideri di Dio, a cambiare i nostri modi di essere e di pensare, a protenderci con tutte le nostre forze verso il Padre, a costo di un’autentica profonda conversione!

Scaturisca dalle mie labbra la tua lode,

poiché mi insegni i tuoi voleri.

La mia lingua canti le tue parole,

perché sono giusti tutti i tuoi comandamenti. Sal 119,171-172

 

41.

Dopo averci orientati al Padre, ecco che Gesù ci concede nella preghiera di pensare a noi e alle nostre necessità. Ogni giorno noi pensiamo al pane, a tutto ciò che è necessario alla vita, e spesso facciamo fatica ad assicurarcelo. “Chiedete, e vi sarà dato”, ha detto una volta ai discepoli. Ora nella sua preghiera ci fa chiedere il pane di ogni giorno. Noi pensiamo istintivamente a tutto ciò che alimenta il nostro corpo, a ciò di cui riteniamo d’aver bisogno. Pensava a questo anche Gesù? Non ha egli detto che “il Padre vostro sa ciò di cui avete bisogno ancor prima che glielo chiediate”? Gesù ci fa dire “Dacci… il nostro pane”: a «noi» il «nostro». Chi è quel «noi»? Chi prega la preghiera di Gesù sono i discepoli radunati attorno a lui. Quel «noi» è perciò la Chiesa. Qual è il pane di cui ha bisogno la Chiesa per essere sempre unita, sempre forte nell’amore, significativa e servizievole nel mondo, testimone di Gesù? Ecco il pane quotidiano che chiediamo con fede: esso è il pane che alimenta l’unità, l’Eucaristia, e tramite essa lo Spirito Santo, che sostiene in noi la forza di amore reciproco, di comunione, di pace tra tutti. Chiedendo il pane per «noi» non pensiamo soltanto alla fame dello stomaco, ma alla fame di amore e di verità che fa soffrire il mondo. Quella fame può essere saziata dalla Chiesa, se essa è veramente Chiesa, unita a Gesù, salda nella fede e nella comunione dei suoi membri. Dacci oggi il nostro pane quotidiano! E perché la comunione possa essere alimentata ecco che i peccati devono sparire, devono perdere la loro efficacia. Sono i peccati che dividono la Chiesa, la rendono instabile e incapace di dare segni di speranza al mondo e di attirarlo al Salvatore. Continuiamo perciò la preghiera chiedendo perdono dei peccati. Dio è misericordioso e gode di perdonare, ma se noi non ci umiliamo non gli permettiamo di farlo. Ci riconosciamo perciò peccatori, bisognosi della sua compassione. Segno che desideriamo il suo perdono con tutto il nostro desiderio è il fatto che anche noi abbiamo compassione dei fratelli che sono stati vinti dalla tentazione e ci hanno trattato senza amore. Anche questo diciamo al Padre, senza vantarci e con umiltà: il peccato dei nostri fratelli non è forse segno che noi non li abbiamo aiutati? Anche del loro peccato noi chiediamo perdono.

Beato chi ha per aiuto il Dio di Giacobbe, chi spera nel Signore suo Dio,

Egli è fedele per sempre, rende giustizia agli oppressi,

dá il pane agli affamati. Sal 146,5-7

 

42.

Dopo aver chiesto perdono al Padre, Gesù vuole che gli domandiamo anche di non cadere di nuovo. Siamo deboli e fragili. La forza del male e dei pensieri malvagi è grande. Noi sappiamo come Eva ha ceduto alla tentazione, come hanno ceduto il popolo nel deserto e poi anche i grandi re Davide e Salomone e gli stessi discepoli del Signore. Le tentazioni da cui chiediamo di essere custoditi sono quelle che ci vorrebbero separare dall’amore del Padre, ma anche quelle che ci vogliono dividere gli uni dagli altri, quelle che vorrebbero distruggere l’unità della Chiesa. Non mi limito perciò a chiedere d’essere custodito io, ma supplico il Padre di proteggere tutti i fratelli e le sorelle. Le mie e le loro sconfitte danneggiano la comunione che fa della Chiesa una famiglia, anzi, la famiglia di Dio. Le tentazioni non provengono da Dio, perché egli non vuole il male. Dicendo “Non indurci in tentazione” non intendiamo dire che è lui che ci induce al male. Egli semmai mette alla prova la nostra fedeltà, oppure permette che ci troviamo nell’occasione di dar prova del nostro amore e della nostra obbedienza alla sua Parola. È il nostro nemico a trasformare queste occasioni in tentazioni, in attrazioni al male, alla disubbidienza o alla ribellione. Non ci dobbiamo meravigliare e nemmeno scoraggiare: proprio perché siamo sulla strada che manifesta la santità e che ci porta a perfezionarla, abbiamo bisogno di essere messi alla prova. E man mano ci avviciniamo al traguardo, il nemico di Dio e degli uomini farà di tutto per distoglierci dal nostro cammino e impedirci di essere rivelatori di Dio. Saremo perciò sempre vigilanti, e lo saremo anche per i nostri fratelli. Se il Signore ci dona sapienza e discernimento saremo vigilanti anche per tutta la comunità e per la Chiesa che vive nel nostro paese e nella nostra regione. Molte volte il Signore si serve della parola e dell’esempio di uno per far sì che altri si accorgano che certi pensieri o atteggiamenti o comportamenti sono tentazione.

Manda la tua verità e la tua luce;

siano esse a guidarmi,

mi portino al tuo monte santo e alle tue dimore. Sal 43,3

 

43.

L’ultima invocazione della preghiera donataci da Gesù è destinata a tenerci umili e ad affidarci del tutto al Padre. “Liberaci dal male”! Chi traduce letteralmente dal testo greco direbbe “strappaci dal maligno”. È una supplica accorata, come quella di chi è già afferrato da colui che lo vuole uccidere e non può difendersi da solo. È vero che il maligno ci ha già afferrati: il peccato di cui abbiamo chiesto perdono ne è la prova, e ne è prova anche la forza che la tentazione ha su di noi. Ne sono prova le divisioni che regnano tra i cristiani e quelle che hanno tolto credibilità alla Chiesa. Ne sono prova anche molte sofferenze create dal peccato dei singoli o da quello sostenuto da intere popolazioni, come ad esempio la leggerezza con cui si considera l’aborto, oppure con cui si accettano e si permettono le relazioni sessuali d’ogni tipo o ci si abitua a stimolare i negozianti e obbligare i commessi a lavorare di domenica. È molto espressiva l’immagine usata da S.Pietro nella sua prima lettera: “Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi” (5,8-9). Il leone ci ha afferrati, chi ci può strappare dai suoi artigli? Ci rivolgiamo al Padre. Soltanto lui, con la sua potenza d’amore e con lo sguardo di Gesù, può soccorrerci. Senza il suo strappo forte noi saremmo perduti. Chiedendo al Padre di liberarci dal Maligno noi gli chiediamo di non badare ai nostri lamenti e alle nostre lacrime, ma di usare tutta la sua forza per allontanarci dal pericolo. Questa preghiera ci vuole umili, coscienti della nostra debolezza e incapacità, ma anche decisi di non cercare false compassioni verso noi stessi. L’opera del Padre può essere paragonata a quella del chirurgo, che non bada ai lamenti del suo paziente pur di strappargli ciò che lo fa soffrire, anche a costo di farlo sanguinare. Liberaci dal male, e potremo continuare il nostro cammino nella tua santità!

Benedetto il Signore, mia roccia,

che addestra le mie mani alla guerra,

le mie dita alla battaglia.

Mia grazia e mia fortezza,

mio rifugio e mia liberazione,

mio scudo in cui confido. Sal 144,1-2

 

44.

La preghiera di Gesù termina con la richiesta di essere liberati dal Nemico e da tutte le sue seduzioni o minacce, dalle sue tentazioni e violenze. Ora possiamo abbandonarci al Padre con libertà, e ricominciare a dire “Padre nostro…”! Anche ripetessimo dieci, trenta volte questa preghiera, ogni volta è nuovo il tono di voce con cui pronunciamo quel “Padre”, perché ogni volta cresce e matura e assume nuove sfumature il nostro rapporto filiale con lui! Avvicinandoci a lui non ci avviciniamo - direbbe l’autore della lettera agli Ebrei -, “a un luogo tangibile e a un fuoco ardente, né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole”. Non abbiamo infatti paura di Dio, perché sappiamo che egli non vuole il nostro male. Egli ci ama, è Padre, affettuoso come una mamma, direbbe il profeta Osea: “Ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare”! Noi sappiamo di essere continuamente sotto il suo sguardo. Egli ci desidera vicini a sè, come il padre attende il figlio prodigo e come desidera condividere il proprio amore e la gioia della festa con il figlio maggiore. Avvicinandoci al Padre infatti sappiamo di essere vicini “all'adunanza festosa e all'assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli”! La nostra santità è una santità gioiosa, come raccomandava S.Giovanni Bosco ai ragazzi, e come ce l’hanno fatta vedere i santi Filippo Neri e Francesco di Sales. La gioia non deve mancare nella vita del credente: essa è testimonianza della salvezza che Gesù ci ha donato, è segno che prendiamo sul serio la bontà di Dio e la sua paternità, è strumento di cui lui stesso si può servire per rendere il vangelo attraente a qualche altra persona. La gioia è frutto della presenza dello Spirito Santo in noi: è necessario che coltiviamo questa presenza, proprio come ogni pianta, perché porti frutto va coltivata e curata! Se cerchiamo tutto il giorno le notizie del mondo, diverremo tristi e abbattuti; e se non affidiamo subito alla misericordia di Dio quelle che ci raggiungono, ne rimarremo oppressi e stanchi. Pur vivendo in questo mondo, che porta sempre i segni e le conseguenze del peccato, noi dobbiamo tenere lo sguardo rivolto in alto, e riversare nel mondo la luce e la gioia che sono il segno della sapienza e dell’amore del Padre e di Gesù! Lo Spirito Santo ce ne rende capaci!

Beato chi hai scelto e chiamato vicino, abiterà nei tuoi atrii.

Ci sazieremo dei beni della tua casa, della santità del tuo tempio. Sal 65,5

 

45.

Il cammino della nostra santificazione non termina mai. Quando vi pensiamo non dobbiamo pensare a cose grandi o attendere eventi particolari, nè cercare soluzioni miracolose o occasioni sensazionali. Dio ci ha fatto piccoli e ci ha donato giornate misurate alle nostre forze. È dentro queste giornate, spesso uguali l’una all’altra, che portiamo la santità di Dio! È con i piccoli gesti e le piccole obbedienze che costruiamo l’edificio di una vita che fa risplendere la bellezza del Padre e l’amore del Figlio! Persino i grandi santi ci offrono l’esempio di una vita speciale, tutta offerta a Dio, nello scorrere di giornate uguali e a prima vista monotone. Essi non le hanno vissute come monotone, perché ogni momento era un’offerta d’amore. Questo è possibile a tutti, è possibile anche a me. Fare di ogni momento un’offerta d’amore è possibile alla donna che lavora alle pulizie della casa, a quella che accudisce ai bambini, a quella che si reca in ufficio, all’uomo che guida la macchina o il camion, a chi tiene in mano la penna e a chi manovra il piccone, a chi lavora al computer e a chi serve il caffè al bar. Fare di ogni momento un’offerta d’amore è possibile al bambino e al ragazzo, al giovane che s’intrattiene con i coetanei, all’anziano che attende qualcuno che lo ascolti e lo vada a trovare. Qualcuno, per definire questi atti d’amore, ha usato l’espressione «martirio quotidiano», perché è attraverso questi piccoli momenti, colorati dell’amore di Dio, che noi rendiamo testimonianza credibile al nostro Padre e al nostro Signore Gesù! È attraverso i piccoli atti d’amore con cui sopportiamo le persone vicine, che non si correggono mai dai loro difetti, che riversiamo nel mondo la grazia che viene dal cielo! La santità cui aspiriamo è questa, piccola, nascosta a tutti, eppur ricca di frutti per molti!

Alle spalle e di fronte mi circondi

e poni su di me la tua mano.

Stupenda per me la tua saggezza,

troppo alta, e io non la comprendo. Sal 139,5-6

 

46.

Concludendo queste riflessioni sulla nostra santità e santificazione mi accorgo che non ho realizzato molto. Mi pare di dover cominciare daccapo: ma prima dovrei iniziare a mettere in pratica io stesso quanto ho scritto. Se mettessi in pratica qualcosa di quanto mi ha suggerito lo Spirito del Signore, potrei poi dire molto di più! Io spero di ricevere esempio da voi, che amate Gesù e lo volete glorificare insieme a Maria, sua Madre, e a tutti i santi, che preparano la nostra festa in cielo. Offrendoci piccoli esempi di obbedienza al Signore, di abbandono al Padre, di attenzione ai fratelli, cresceremo insieme e edificheremo l’edificio spirituale sognato da Dio stesso! In quest’edificio egli vuole accogliere tutti gli uomini, soprattutto quelli che non conoscono il suo amore, perché lo gustino, ne siano nutriti, e in tal modo scoprano che la verità della nostra vita è lui. Quanti vengono ospitati, anche solo di passaggio, nell’edificio spirituale di Dio, saranno illuminati dalla verità del suo amore arrivando così a Gesù. E Gesù li innamorerà di sè, riempiendoli di gioia! E la loro gioia accrescerà la nostra: noi siamo già contenti del nostro Signore, ma vedendo che la nostra fede e la nostra fatica quotidiana servono a far incontrare Gesù a molti, ne saremo rallegrati oltre misura. Potrà essere utile, anzi, spesso necessario, che ci facciamo aiutare da qualche persona che lo ama e che vive per lui. Molti santi e padri spirituali ci hanno dato l’esempio e suggerito di cercare, come disse Tobi a suo figlio Tobia (Tb 5,3), “un uomo di fiducia che ti faccia da guida” nel viaggio su questa terra verso il Signore! Cercare da un uomo la Parola di Dio o la comprensione della sua volontà per la nostra vita è un atto di umiltà, ma anche di gioia: nell’avere comunione con qualcuno sul da farsi per essere ubbidienti a Dio troviamo la pace profonda, la serenità del cuore e anche il coraggio che talvolta è necessario per affrontare momenti gravi o difficili.

Il Signore completerà per me l'opera sua.

Signore, la tua bontà dura per sempre:

non abbandonare l'opera delle tue mani. Sal 138,8

 

47.

Dallo stesso libro di Tobia riceviamo un altro suggerimento, anzi, comando: “Fate conoscere a tutti gli uomini le opere di Dio, come è giusto, e non trascurate di ringraziarlo”! Ringraziare Dio è giusto e doveroso. È da lui che riceviamo ogni bene, ed è lui che sa trasformare anche ogni momento di prova o di sofferenza in strumento per la nostra santificazione, per la nostra crescita umana e spirituale. Egli trasforma ogni contrattempo in momento di grazia e fa andare le cose in modo che, invece di contrattempo, siano dono e preparazione per gli eventi successivi. Il grazie non deve mai essere assente dal cuore, nè dalle labbra. Diciamo grazie a Dio e diciamo grazie agli uomini. Il grazie ci fa diventare amabili, e l’amabilità ci avvicina a Dio. Il grazie è la parola che Gesù teneva sempre nel cuore e che ha espresso nei momenti difficili: lo abbiamo visto quando si è trovato davanti alla folla affamata, davanti al sordomuto, davanti alla tomba del suo amico Lazzaro (Gv 11,41). Dire grazie a Dio è come dirgli: sono contento che ci sei! Quando una mamma si sente dire così dal figlio è certamente molto più contenta che se il figlio continuasse a visitarla per chiederle denaro oppure per porgerle un bel regalo. Immagino che anche il cuore di Dio goda allo stesso modo quando gli dico: grazie, sono contento di te! Sono contento che ci sei! Allora egli si intenerisce, e riversa in me la sua gioia ed il suo Spirito! Arricchito dello stesso Spirito di Dio continuo a percorrere la strada illuminata dalla sua santità, e quando essa diventerà faticosa, perché in salita o perché lunga, continuerò a dire grazie, grazie che ci sei tu! Amen, alleluia!

Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:

hai ascoltato le parole della mia bocca.

A te voglio cantare davanti agli angeli,

mi prostro verso il tuo tempio santo.

Rendo grazie al tuo nome

per la tua fedeltà e la tua misericordia:

hai reso la tua promessa più grande di ogni fama. Sal 138,1-2

 

Nulla osta: p. Modesto Sartori, cens. Eccl.., Trento, 06.01.2008