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Saranno riunite davanti a lui tutte le genti

Saranno riunite davanti a lui tutte le genti

 

 Copertina: piantina di Terra Santa, Madaba, Giordania (foto nostra)

Raccolta di omelie delle domeniche e solennità del tempo Ordinario dell’anno A (2011).

  

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Il titolo lo troverai nell’ultima pagina, se arriverai a leggere tutto! Questo opuscolo completa il precedente, in cui erano raccolte le omelie delle domeniche dei tempi forti dell’ anno A. Qui trovi quelle delle domeniche del Tempo Ordinario, comprese le solennità della Ss.ma Trinità, del Corpus Domini, degli apostoli Pietro e Paolo, dell’Assunzione di Maria e di Tutti i Santi. Le ho scritte nel 2011 (da 10-13 nel 2002) per la parrocchia virtuale “Cinquepani”.

Sarà utile per il Regno stampare queste pagine? È la domanda che mi fa attendere anni… e a cui non so rispondere. Lo stampiamo con quest’unica prospettiva, che possa essere utile a qualcuno per vivere con qualche consapevolezza in più nel Regno del Signore. In ogni caso, tu che leggi, prega anche per me! Grazie.

 

Don Vigilio Covi  

 

2ª Domenica del Tempo Ordinario - anno A 

1ª lettura Is 49,3.5-6 dal Salmo 39 2ª lettura 1 Cor 1,1-3 Vangelo Gv 1,29-34 

Abbiamo concluso il tempo natalizio contemplando le varie manifestazioni di Gesù come Figlio di Dio e come Messia. Ora riprendiamo, con l’aiuto del vangelo, ad incontrare Gesù nel suo ministero pubblico che lo prepara alla passione e alla risurrezione.

Oggi è Giovanni Battista che ci parla di lui. È bello e significativo notare come Gesù non abbia cercato… di farsi strada da sè, ma sia stato presentato e indicato da un profeta come Giovanni. Questi lo vede e lo indica ai propri discepoli con quelle parole molto significative che noi ripetiamo ad ogni celebrazione eucaristica. Sono parole importanti, ed è necessario che noi ne conosciamo il significato. Il Precursore usa un’immagine molto eloquente e molto conosciuta dagli ebrei e, quindi, da coloro che lo udivano. Egli indica Gesù col titolo di “Agnello di Dio”, e aggiunge “colui che toglie il peccato del mondo”. Quando si parla di agnello ogni ebreo istintivamente pensa a vari episodi biblici. Anzitutto sicuramente ricorda l’agnello dato da Dio ad Abramo, perché fosse sacrificato al posto del figlio Isacco. L’agnello poi è sempre presente nella vita del popolo ebraico: è la “pasqua” che ogni famiglia immola ogni anno a perenne ricordo di quello ucciso in Egitto. Il sangue di quell’agnello, spruzzato sugli stipiti delle porte, ha salvato tutte le famiglie dalla morte del primogenito, quindi dalla peggiore maledizione pensabile. La carne dello stesso agnello, arrostita, ha nutrito il popolo sostenendolo nella fatica della fuga dalla schiavitù. Il modo con cui veniva mangiato era un rito che univa i vari membri delle famiglie, e li univa nella preghiera e nella condivisione della fede nell’unico Dio vivente, amico dei poveri e degli oppressi. La medesima immagine dell’agnello richiamava pure quello che ogni anno veniva simbolicamente caricato dei peccati del popolo e rilasciato poi nel deserto, abbandonato alle bestie feroci.

Gesù è l’agnello di Dio: egli ci sostituisce per offrirsi a Dio al nostro posto per «espiare» i nostri peccati. Si offre ad essere immolato per salvare col suo sangue ogni famiglia e tutto il popolo dalla schiavitù in cui è caduto a causa dei peccati di tutti, e dona la propria vita come cibo a noi, perché possiamo camminare nel deserto di questo mondo fino alla libertà piena. Proprio lui, come nutrimento, è comunione di ciascuno di noi con Dio e con i fratelli. Egli ancora porta il peccato non solo del popolo d’Israele, ma di tutto il mondo, e si lascia uccidere pur di salvare noi dalla maledizione.

Chissà quante cose vorrebbe dire Giovanni Battista di Gesù! Oltre a questa rivelazione egli ci manifesta ancora la sua meraviglia per aver visto una colomba scendere e rimanere su di lui, una colomba che egli ha compreso essere lo Spirito Santo. E aggiunge quanto a lui è stato rivelato, che Gesù cioè è colui “che battezza nello Spirito Santo”. Per questo il battesimo che egli ha celebrato per le moltitudini di peccatori è solo un battesimo di preparazione a quello che sarà donato da Gesù stesso: un battesimo quindi non solo di conversione dal male e dal peccato, ma un battesimo per passare alla vita nuova, quella immersa nel cuore di Dio, avvolta e riempita del suo Spirito.

Sentendo Giovanni che parla di “peccato del mondo” ci viene da chiederci se oggi questa parola è ancora attuale. Oggi si evita infatti di parlare di «peccato», quasi fosse un delitto nominarlo. Ma se non si parla di peccato, anche Gesù viene a perdere, nella conoscenza che avremo di lui, il suo ruolo fondamentale di Salvatore dell’uomo e del mondo. E se succede questo, cercheremo altri «sapienti», come Buddha o Confucio, e Gesù lo metteremo in mezzo a loro. No, noi diciamo che Gesù è venuto per liberarci dal peccato. Siamo peccatori, commettiamo peccati e tutti attorno a noi ne commettono. I mali che stanno facendo soffrire gli uomini sono conseguenza di peccati, e di peccati molto gravi. Tra essi gli adulteri, gli aborti, le ingiustizie, l’uso della droga, molti divertimenti e infiniti egoismi sono peccato. Adulti e giovani si sono abituati a certi comportamenti contrari ai comandamenti di Dio. Benché siano diventati abitudini diffuse, esse sono peccato, e noi non siamo capaci di liberarci dal loro nefasto effetto. Abbiamo bisogno di un salvatore, che ci ottenga il perdono da parte di Dio e ci dia luce e grazia per risollevarci e ricominciare una vita dove l’amore sia il motore sempre acceso.

San Paolo, di cui oggi iniziamo a leggere la prima lettera ai Corinzi, si presenta come apostolo di Gesù, il cui nome deve essere accolto e invocato per ricevere salvezza. Egli sa che la salvezza è quella dal peccato: egli stesso, che doveva dichiararsi grande peccatore, aveva fatto l’esperienza di essere salvato da Gesù; per questo ora, riconoscente, lo vuol far conoscere agli altri peccatori! “Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi”!

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3ª Domenica del Tempo Ordinario - anno A 

1ª lettura Is 8,23 - 9,2 dal Salmo 26 2ª lettura 1Cor 1,10-13.17 Vangelo Mt 4,12-23

 

San Matteo, raccontando uno dei primi passi compiuti da Gesù dopo il periodo trascorso nel deserto, e cioè il suo trasferimento a Cafarnao, cita esplicitamente il brano di Isaia che abbiamo udito alla prima lettura. Tutto quello che Gesù compie è compimento delle profezie: egli è veramente colui che deve venire, cioè il Messia. Egli stesso aveva detto a Giovanni Battista che deve “compiere ogni giustizia”, cioè tutto quello che Dio ha indicato e che le Scritture testimoniano. Andando egli ad abitare a Cafarnao, la sua luce risplende “su coloro che abitavano in terra tenebrosa”. Con la sua presenza nel capoluogo della Galilea, sulla via del mare, egli rende famosa la terra di Zàbulon e di Nèftali, terra che non aveva mai dato i natali a nessun personaggio importante e a nessun profeta del popolo d’Israele. Ora in questa terra senza gloria, terra dove anche la fede è incerta, inizia un movimento di gioia e di speranza. Ed inizia con la Parola di Gesù che riecheggia in tutta la regione: egli continua la predicazione di Giovanni, ormai chiuso in carcere. La Parola di Gesù dona speranza: “Il regno dei cieli è vicino”. Questo annuncio è atteso da secoli. Era come dire: non avremo più dei re sanguinari e corrotti, capaci solo di opprimere e di fare guerre, ma saremo guidati da quel Dio che ama i poveri e gli oppressi: un annuncio di gioia! Gesù lo completava con l’esortazione a convertirsi, a cambiare modo di pensare e di vivere. Che cosa si pensava prima e che cosa bisogna pensare adesso? Si pensava che Dio è lontano e che il suo regno quindi è un sogno che mai si realizza, se non chissà quando. Ora, dicendo che il Regno dei cieli è vicino, Gesù annuncia che è già presente il Re, e quindi si può pensare che esso si realizza già nella nostra vita. Convertirsi è dire: Mi tengo pronto, subito. Attendo colui che mi guida nel nome di Dio, per ubbidirgli.

Ed ecco i primi che fanno questo passo: seguono Gesù, gli ubbidiscono, certi di far parte così del Regno dei cieli, poiché è lui il re. I due fratelli pescatori e poi gli altri due ubbidiscono in questo modo alla parola che li invitava a convertirsi: lasciano tutto quello che formava la loro vita, lavoro e relative relazioni sociali e soddisfazioni, e si affidano a colui che pronuncia parole nuove, parole di speranza, come e più di quelle di Giovanni, che li aveva battezzati.

Il regno dei cieli! Il regno dei cieli è iniziato, e continua. San Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto, dà indicazioni su come deve manifestarsi tra loro il regno dei cieli. Dato che in questo regno chi guida tutti è Gesù Cristo, nessuno si deve mettere al suo posto. Se qualcuno si mette al suo posto iniziano divisioni, discordie, fazioni e malumori. Le discordie manifestano che là non è Dio il re, anzi, manifestano che ognuno ubbidisce ai propri interessi e alle proprie ambizioni, invece che a colui che Dio ha inviato. Le discordie sono un segno della presenza del divisore, il diavolo, e non della presenza di Dio. I cristiani non devono e non possono cedere alla tentazione della discordia, piuttosto soffrono ingiustizie, piuttosto si umiliano per stare sottomessi. A Dio non dispiace l’umiltà che si manifesta nella sottomissione, a meno che, ovviamente, non sia sottomissione al peccato. San Paolo esorta i credenti a coltivare l’unità tra di loro, perché Dio è uno, il Signore è uno e lo Spirito è unico. Nell’unità, anche se costa ubbidienza, Dio può manifestarsi per realizzare il suo amore. In tal modo la luce di Dio illumina i popoli e li orienta sulla strada dell’amore, diffondendo in essi la gioia, proprio come ha profetizzato Isaia.

Noi siamo portatori del regno dei cieli nel nostro mondo. Non occorre dire quanto bisogno c’è, perché tutti se ne accorgono. Diciamo invece che vogliamo far risplendere la presenza di Gesù, il re del regno, ubbidendo a lui, a tutte le sue indicazioni di amare e perdonare, anche se costa, perché la sua luce attiri a lui tutti quelli che cercano.

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4ª Domenica del Tempo Ordinario - anno A 

1ª lettura Sof 2,3; 3, 12-13 dal Salmo 145 2ª lettura 1 Cor 1, 26-31 Vangelo Mt 5, 1-12

 

Queste parole del Signore le abbiamo sentite anche nella liturgia di tutti i Santi. Oggi possiamo dire che, se vogliamo comprendere e interpretare rettamente questa pagina, basta che guardiamo la loro vita e cerchiamo di imitare il loro modo di amare Dio e i fratelli. Che significa “Beati i poveri in spirito”? guarda san Francesco d’Assisi! E “Beati quelli che sono nel pianto”? osserva santa Gemma Galgani, oppure la Beata Miriam di Gesù crocifisso. Se poi vuoi sapere cosa significhi “Beati i miti”, non hai che da ascoltare la voce di San Francesco di Sales, o di San Giovanni Calabria. “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia”, cioè desiderano ardentemente fare la volontà di Dio, ti fa pensare a Sant’Antonio di Padova o San Pio da Pietrelcina. Se poi vuoi vedere chi vive il “Beati i misericordiosi”, tiene presente San Giovanni Maria Vianney o San Leopoldo Mandiç. “Beati i puri di cuore” è caratteristica di San Luigi Gonzaga e dei martiri come Santa Lucia e Santa Agnese, ma anche San Nicola de la Flue. Sono molti “gli operatori di pace”, tutti quelli che si sono adoperati per alleviare sofferenze e spegnere ingiustizie: San Giovanni Bosco, San Filippo Neri, Beata Teresa di Calcutta, Beato Luigi Orione, san Camillo de Lellis, e un’infinità di loro imitatori. La parola: “Beati i perseguitati per la giustizia”, ci farebbe elencare migliaia di nomi, dai martiri dell’antichità a quelli più recenti dei Lager nazisti e dei Gulag sovietici e quelli attuali non solo della Cina e del Sudan, ma anche dei nostri paesi, ove la fede in Gesù viene messa al bando e chi crede è deriso ed emarginato.

Ognuno dei santi è una finestra aperta sul cielo, è un commento vivo di una e di tutte le beatitudini. E il bello è che i santi non sono degli eroi, non sono personaggi nobili e potenti, ma generalmente venuti dalla povertà e rimasti poveri. Molti di essi, a cominciare dagli apostoli, vengono da esperienze di duro lavoro e di sofferenza: pescatori, pastori, schiavi, contadini… Proprio come dice oggi San Paolo: “Quello che è stolto per il mondo Dio lo ha scelto per confondere i sapienti”, “Non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, nè molti potenti, nè molti nobili”. L’elenco dei santi è una dimostrazione della verità di queste parole. I nobili e i potenti sono una esigua minoranza tra i santi del cielo, ma anche tra i santi della terra, tra noi che viviamo ancora qui adesso le parole di Gesù. Già il profeta Sofonia diceva: “Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero”. Godiamo della nostra povertà, godiamo di essere disprezzati dal mondo, non lamentiamoci della persecuzione cui sono oggetto i cristiani in varie parti del mondo. Essi sono la nostra gloria, perché noi ci vantiamo della croce del Signore. E anche quando saremo noi nel mirino di coloro che vogliono distruggere la Chiesa, anche allora ci rallegreremo, perché saremo coscienti che la nostra vita è l’unica luce che splende nelle tenebre, l’unico sale che può conservare in vita il mondo e dare un buon sapore ad ogni luogo dove vivono gli uomini. Gesù stesso ci darà la forza di cantare e di rallegrarci, perché potremo attendere con certezza la “ricompensa nei cieli”.

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5ª Domenica del Tempo Ordinario - anno A 

in Italia: Giornata per la Vita

1ª lettura Is 58,7-10 dal Salmo 111 2ª lettura 1 Cor 2,1-5 Vangelo Mt 5,13-16

 

Domenica scorsa abbiamo sentito Gesù proclamare le beatitudini, cioè come egli vede i suoi discepoli e, naturalmente, tutti gli uomini, affinché la loro convivenza sia ricca di consolazione e di letizia. Infatti, là dove le persone si formano e si educano secondo quella sapienza, si vive la serenità, la gioia, la pace. Perché questa sapienza si diffonda è necessario che qualcuno la viva con decisione e l’annunci senza decurtazioni. Nessuno riesce a farlo se non chi accoglie Gesù nel proprio cuore. Chi lo accoglie e vive con lui è suo discepolo e diventa “maestro” di vita e consolazione per il mondo che lo circonda. Gesù ne è cosciente, e perciò ecco che oggi dice questa bellissima parola: “Voi siete il sale della terra”, e poi “Voi siete la luce del mondo”. Chi vive con lui ed è ubbidiente a lui diventa prezioso, indispensabile al mondo. Non sono parole vuote: ne costatiamo la verità guardandoci attorno. In un ambiente dove ci sono dei discepoli di Gesù c’è la possibilità di perdono e si diffonde amore e compassione, e soprattutto ci si può fidare di qualcuno. In quegli ambienti e in quei popoli dove Gesù è assente non c’è la possibilità di fidarsi di nessuno, nè ci si può confidare, nè si può sperare di trovare compassione per sè o per gli altri. Gesù non vuole che i suoi diventino presuntuosi, e perciò continua con un ammonimento: il sale deve essere salato per essere utile. Il sale insipido non serve a nessuno e viene buttato. Così pure la lampada non serve a nessuno se è nascosta. Con queste semplici osservazioni Gesù vuol dire ai discepoli che essi devono davvero portare lui dentro di sè, altrimenti sono senza sapore, e lo devono lasciar trasparire senza nascondersi o mimetizzarsi, altrimenti sono inutili. Il sapore è lui, è la pienezza dell’amore di cui soltanto lui è portatore. La sorgente della luce è lui, deve essere messo in vista, altrimenti nessuno viene illuminato.

Noi abbiamo coscienza di essere poveri uomini, persino peccatori. Come può avvenire che la nostra vita sia utile al mondo in modo che esso acquisisca pace e sapienza dalla nostra presenza? Certo, noi sappiamo di essere deboli e fragili: la ricchezza non siamo noi, ma Gesù in noi, come tesoro posto in vasi di creta; il vaso rimane fragile, ma prezioso per il suo contenuto. Proprio questo ci dice San Paolo nella seconda lettura. Egli si presenta alla comunità di Corinto sapendo d’essere un uomo fragile, ma che porta in sè la ricchezza della presenza di Gesù, di quel Gesù che è stato crocifisso per amore. Un uomo che muore in croce è debole, ma, poiché muore amando, ci mostra e ci dona la grandezza e la forza dell’amore nel momento della sua massima debolezza. Noi non ci vergogniamo perciò nemmeno delle nostre povertà e miserie, ma ci vantiamo sempre e soltanto del nostro Signore, che portiamo nel cuore e nella mente e nelle opere volute da lui e che manifestano la sua sapienza.

La prima lettura ci suggerisce alcune delle opere che manifestano l’essere di Dio, opere sociali che sollevano sofferenze e povertà: attraverso di esse manifestiamo il cuore amoroso e misericordioso di Dio. E Gesù conclude le sue piccole parabole esortandoci a lasciar risplendere davanti a tutti quell’amore che il Padre ha seminato in noi, così che egli possa manifestarsi attraverso di noi e così altri lo possano conoscere e incontrare. Chi incontra il Padre sa di non essere solo al mondo e comincia a sperimentare la salvezza. Chi incontra il Padre gusta già le gioie del Paradiso!

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6ª Domenica del Tempo Ordinario - anno A 

1ª lettura Sir 15,15-20 dal Salmo 118 2ª lettura 1Cor 2,6-10 Vangelo Mt 5,17-37

 

Segreti e misteri! Il mistero di Dio era segreto e ora è rivelato. Questo ci dice San Paolo. Nessuno, nè i potenti nè i sapienti di questo mondo hanno potuto e saputo penetrare i segreti di Dio. Soltanto coloro che lo amano possono saperne qualcosa, e lo amano davvero coloro che accolgono colui che è stato crocifisso. Tra questi siamo anche noi: ce ne possiamo vantare, ma con tanta umiltà, perché se non siamo umili Dio non si manifesta a noi: è lui infatti che si rivela, non siamo noi che scopriamo i segreti del suo cuore. Egli lo apre soltanto ai piccoli e agli umili.

Oggi Gesù ci svela il suo modo di leggere i comandamenti di Dio. Egli li legge da figlio, non da servo. I servi ubbidiscono a Dio senza amarlo, attenti ad eseguire gli ordini alla lettera, e per di più con un po’ di paura: attendono un premio e temono un castigo. Gesù ci comunica come invece ubbidisce un figlio, un figlio che ama suo Padre, che vuol collaborare con lui. Un figlio sa che Dio Padre ama, e perciò riceve i comandamenti come dono d’amore sia per chi li ubbidisce che per coloro che sono coinvolti da tale obbedienza. Gesù ci introduce così nel cuore di Dio e ce ne svela l’intimo, ci svela la bellezza del suo amore e la sua profondità. Nel discorso della montagna, che continuiamo ad ascoltare, ci dà alcuni esempi di lettura dei comandamenti.

Perché Dio ha detto agli uomini: “Non uccidere”? Dio ha dato questo comando perché egli ama tutti gli uomini, sue creature. Il suo amore per loro è profondo e costante. Un figlio non si accontenta di evitare l’omicidio, ma cercherà di far proprio l’amore del Padre per ciascuno. Un figlio cercherà di aiutare la crescita degli uomini, di favorire in essi la maturazione di tutte le capacità di amare. Uccidere significa privare della vita, e ci sono molti modi di privare della vita le persone: una parola offensiva o una derisione possono far star male e rendere amara la giornata di un uomo o bloccarlo nella sua crescita. Quando litighi con qualcuno per qualsiasi tuo interesse lo metti in ansia e gli togli il sonno. Chi ama Dio come un figlio perciò non litiga e non offende nessuno. E il comandamento “Non commetterai adulterio”, perché ce l’ha dato il Padre? Se ascolti come un figlio ti preoccupi di capire le sue intenzioni riguardo al matrimonio. Se egli ha benedetto l’unione di un uomo con una donna, tu non penserai nemmeno lontanamente di romperla, cioè di maledirla: sarebbe un’offesa a Dio. Non importa se a te quell’uomo o quella donna “piace” più del tuo coniuge, e nemmeno se egli o lei è consenziente o addirittura te lo chiede. Tu devi ubbidire non agli uomini, ma a Dio. Se ti unisci con uno che tradisce il proprio coniuge, lo aiuti a spezzare un’unione data da Dio: sei colpevole davanti a lui. Ogni disobbedienza a Dio non è nemmeno amore all’uomo. Non puoi chiamare amore un’azione di disobbedienza al Padre. Un altro esempio di ascolto filiale Gesù ce lo offre riguardo al giuramento. Esso è cosa seria, perché è chiamare Dio a testimonio della verità della tua affermazione o della tua negazione. Il comandamento di non giurare il falso ti dice perciò di non aver familiarità con questo modo di parlare, cioè di non giurare mai per avvalorare le tue affermazioni. Se ti abitui a dire il vero non hai bisogno di giurare. Tu sei già figlio di Dio e quanto dici dev’essere misurato e verace, altrimenti dai spazio al menzognero, che è il maligno.

Tutti i comandamenti sono per la vita: “Se vuoi osservare i comandamenti, essi ti custodiranno; se hai fiducia in lui, anche tu vivrai”. È da sciocchi chiedere a Dio benessere e felicità senza ascoltarlo. Egli ci ha già indicato la via della gioia e della pace con i suoi comandi. È da sapienti invece prendere sul serio ogni parola che esce dalla bocca di Dio, e, naturalmente, amare la Parola che si è fatta carne! Accogliere Gesù è il segno del vero ascolto di Dio, è la sapienza più efficace, è la via della vera vita!

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7ª Domenica del Tempo Ordinario - anno A 

1ª lettura Lv 19,1-2.17-18 dal Salmo 102 2ª lettura 1Cor 3,16-23 Vangelo Mt 5,38-48

 

Dio incarica Mosè di dire al popolo una parola che mai nessuno si sarebbe aspettato. Dio ha dato i suoi comandamenti non per la mania di farsi ubbidire e quindi di esercitare un’autorità sul popolo di Abramo, ma per rivelarsi attraverso di esso a tutti gli altri popoli della terra. Chi ubbidisce a Dio diventa come lui, diventa cioè capace di amare e di diffondere amore come egli lo diffonde. Per questo il comandamento che riassume tutti i comandamenti è proprio: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo”. E poi spiega come questa santità si sviluppa: non lasciamo posto nel cuore nè all’odio nè alla vendetta e nemmeno al rancore, “ma amerai il tuo prossimo come te stesso”. L’amore al prossimo, anche al prossimo capace di odiare, è il manifestarsi della santità, della santità di Dio che ci guida.

Gesù sviluppa questo insegnamento abbozzato nel libro del Levitico, e lo esemplifica tre volte. Fa l’esempio dello schiaffo, del furto e della pretesa. Ci può essere chi ti colpisce, chi ti vuol fare ingiustizia derubandoti col sostegno della legge, chi pretende da te fatiche gratuite. Queste azioni normalmente suscitano pesanti reazioni. Nel cuore del discepolo che cosa succede? Egli vuole essere manifestazione dell’amore di Dio, cioè portatore della sua santità, e perciò non si lascia cambiare il cuore, non si lascia influenzare da queste malvagità. Il maligno vorrebbe che anche tu diventassi malvagio come lui, ma il Signore vuole che tu adoperi queste situazioni per manifestare la sua santità. Sono occasioni preziose che puoi usare per dare la tua testimonianza alla bontà di Dio. Così chi ti vede, vede un aspetto della sapienza e della gratuità dell’amore del Padre. Gesù dona altri suggerimenti: “Pregate per quelli che vi perseguitano”. Il cuore del figlio ama come ama il Padre. Il Padre ama buoni e cattivi, li ama per attirare a sè il loro cuore e trasformarli. In tal modo anche a noi è concesso e domandato di amare senza prima assicurarci di essere considerati e amati. Noi dobbiamo amare non per rispondere all’amore, ma perché siamo figli di Dio!

L’esortazione di San Paolo è del tutto in linea con questi insegnamenti: noi siamo tempio di Dio e in noi abita il suo Spirito. Ogni nostra azione deve rispettare questa realtà e manifestarla. Non possiamo ragionare come ragiona il mondo, che dice che bisogna essere furbi per non farsi pestare i piedi. La nostra astuzia non sta nel farci grandi nel mondo, bensì nell’essere agnelli, nel vivere la mitezza e la bontà in ogni situazione, anche quando gli agnelli si trovano tra i lupi. Non possiamo stare seduti su due sedie: o restiamo col mondo e gli facciamo concorrenza, o svolgiamo il nostro compito di manifestare Dio e la bellezza del suo amore fino al punto da subire anche noi la croce per mano degli uomini.

 

Ripetiamo la preghiera di oggi, che condensa in poche parole il nostro desiderio di essere nuovi davvero: O Dio, che nel tuo Figlio spogliato e umiliato sulla croce hai rivelato la forza dell’amore, apri il nostro cuore al dono del tuo Spirito e spezza le catene della violenza e dell’odio, perché nella vittoria del bene sul male testimoniamo il tuo vangelo di pace.

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8ª Domenica del Tempo Ordinario - anno A 

1ª lettura Is 49,14-15 dal Salmo 61 2ª lettura 1Cor 4,1-5 Vangelo Mt 6,24-34

 

Noi non sappiamo quello che Dio sa, non vediamo ciò che lui vede, non possiamo perciò nè giudicarlo, nè sostituirci a lui nel giudizio degli altri, e nemmeno pensare di potergli insegnare qualcosa. Isaia vuol trasmetterci oggi una certezza: non è vero quello che molti dicono, o che addirittura tutto il popolo dice, che Dio cioè si dimentica di noi. Non è vero! Dio è migliore dell’uomo, è migliore perciò persino della madre, che non riesce a comandare al proprio amore per il figlio, anzi, lo ama tanto da non dimenticarlo mai. Se qualche donna dimenticasse il figlio non sarebbe una vera madre. Così, continua Gesù, Dio non dimentica gli uomini. Egli si occupa degli uccelli e dei fiori dei campi: agli uccelli fa trovare il cibo e ai fiori concede colori e bellezza ammirata da tutti. Ora che cosa sono gli uccelli e cosa i fiori? Non è più di loro l’uomo, che più di tutte le altre creature ha rallegrato il creatore quando l’ha visto uscire dalle proprie mani? Perché l’uomo si preoccupa del cibo e del vestito, tanto da dimenticare di avere un Padre e persino da disobbedirgli? Che cosa deve fare invece l’uomo? Egli deve scoprire e far propri e ricordare i desideri del Padre. Questi lo rendono simile a lui nel cuore, nell’intimo. L’uomo che vuol essere vero figlio si occupa dei disegni del Padre, realizza in tutto la sua volontà, gli permette di regnare nella propria vita e nel mondo. Il figlio di Dio perciò vive sereno e fiducioso.

La serenità del cristiano è testimonianza. È testimonianza che Dio è Padre e che le cose del mondo non sono Dio. Le cose del mondo, anche quelle belle, non occupano il primo posto e non sono la prima preoccupazione di chi crede. Chi crede, si serve delle ricchezze, se ci sono, per manifestare l’amore di Dio ai piccoli e ai poveri e agli indifesi. Chi crede vede tutte le cose destinate al servizio del regno del Padre per la fratellanza di tutti gli uomini. Chi crede non si agita quando venisse a mancare qualcosa ritenuto necessario, perché egli è attento alla crescita del regno di Dio e all’edificazione della Chiesa. Quanta pace nelle case dei credenti! Quanta serenità anche al presentarsi di imprevisti e di incertezze! “Perché vi preoccupate?” dice Gesù. Le preoccupazioni non aggiungono nulla alla nostra vita, non servono: al posto di preoccuparci dovremmo confidare, lasciarci cadere nella mani del Padre, che sa occuparsi di noi come si occupa dei gigli e degli uccelli del cielo. A chi si preoccupa Gesù dice: “Gente di poca fede”! E continua: “Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani”. Coloro che non conoscono Dio, che non sanno che egli è Padre, veramente Padre, costoro hanno motivo di preoccuparsi, ma noi proprio per nulla. Lo offenderemmo, lo riterremmo incapace, senza amore. “Non preoccupatevi dunque del domani”.

Se conosciamo la sapienza di Dio e la sua lungimiranza, diventiamo coscienti della nostra incapacità di valutare quanto succede e ancor più di valutare quanto c’è nel cuore degli altri. Non possiamo perciò giudicare nulla e nessuno. Per farlo dobbiamo attendere la venuta del Signore, che metterà in luce quanto ora è segreto. Così San Paolo mette in guardia i cristiani dal voler giudicare gli altri e anche dal voler giudicare se stessi. Com’è facile ritenersi arrivati, a posto con Dio e con tutti e tutto! A noi compete solo l’umiltà: non ci deve interessare sapere come siamo, ma solo di essere nelle mani del Padre, che ci conosce, ci ama, pensa e si occupa di noi e di tutte le nostre necessità.

Il salmo responsoriale ci aiuta a coltivare la nostra fiducia: “Solo in Dio riposa l’anima mia: da lui la mia speranza. Lui solo è mia roccia e mia salvezza, mia difesa: non potrò vacillare”.

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9ª Domenica del Tempo Ordinario - anno A

1ª lettura Dt 11,18.26-28 dal Salmo 30 2ª lettura Rm 3,21-25.28 Vangelo Mt 7,21-27

 

Chi è entrato in una sinagoga o si è avvicinato al Muro occidentale (detto del pianto) a Gerusalemme ha potuto vedere degli uomini con una scatoletta di cuoio legata sulla fronte e una sul dorso della mano. In quelle scatolette è racchiusa una minuscola pergamena che riporta alcune frasi dei comandamenti dati da Dio al popolo attraverso Mosè. Essi hanno obbedito alla lettera alle sue parole che abbiamo udito: “Porrete nel cuore e nell’anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi”. I comandamenti del Signore sono tanto importanti perché sono benedizione. Non è certo il porre la scatoletta sulla fronte che è benedizione, ma l’obbedire a quella Parola che è uscita dalla bocca di Dio. Essa è vita e salvezza. Gli insegnamenti e i comandi di Dio devono essere nel cuore e nell’anima, ma non devono rimanere nascosti dentro il cuore. Essi devono diventare ben visibili: “legati alla mano” significa che devono occupare le nostre mani e guidare il loro movimento. Tutto quello che facciamo deve aver la sua origine dalla Parola di Dio, essere sua manifestazione, obbedienza ad essa. “Come un pendaglio tra gli occhi” è un’espressione plastica per dire che il nostro sguardo deve muoversi in obbedienza alla Parola e tutto dobbiamo vedere nella luce dell’amore del Padre.

Ebbene, abbiamo sentito nelle domeniche scorse gli insegnamenti dati ai discepoli e alle folle da Gesù sulla montagna. Le sue parole sono Parola di Dio. Esse sono benedizione per chi le mette in pratica. Chi le lascia cadere rimane nella sua situazione di persona bisognosa di salvezza. Con una parabola molto eloquente il Signore ci convince della necessità di mettere in pratica quanto ci ha insegnato. Per tutti nella vita ci sono e ci saranno difficoltà anche pesanti da affrontare e superare. Le difficoltà ci sono per chi è fedele a Dio e per chi gli è infedele, proprio come la tempesta che, quando viene, viene per tutti alla stessa maniera. Per qualcuno la tempesta è rovinosa mentre per altri è sopportabile e senza conseguenze: tutto dipende da come ciascuno ha costruito la propria casa. La nostra vita è preziosa, il nostro futuro è importante: vogliamo che non sia rovinato dalle difficoltà che verranno? Allora ci conviene abituarci ad ascoltare e mettere in pratica le parole che Gesù ci ha donato con tanta sapienza. Egli oggi ci lascia un altro insegnamento che ci fa pensare. È possibile che il cristiano faccia l’esperienza persino di scacciare demoni e di compiere miracoli veri e propri: certamente, se egli invoca il nome di Gesù, quel nome è efficace, ma non è detto che la vita di quel cristiano sia per questo esemplare. Egli deve per primo mettere in pratica la parola che ha ascoltato, altrimenti il Signore è costretto ad allontanarlo da sè senza pietà. Non è la formulazione di belle preghiere che trasforma la nostra vita, ma il vivere in obbedienza la Parola.

San Paolo ci offre una ulteriore riflessione. Siamo tutti peccatori, e quindi privi della gloria di Dio: in noi Dio non può manifestare pienamente il suo amore. Questo potrà avvenire grazie alla fede in Gesù. Chi esprime con la propria vita la fede in Gesù è gradito a Dio, cioè giustificato. Paolo lo diceva anche agli ebrei, e per loro ricorda che non sono decisive alla salvezza le osservanze alle leggi alimentari e a quelle di purificazione tenute in considerazione dal popolo ebraico. Essenziale alla salvezza è la fede in Gesù Cristo, l’unico che si è offerto con il suo sangue per noi. Per questo vogliamo vivere ascoltandolo e ubbidendogli. La sua Parola è Parola di Dio, Parola che riempie la nostra vita e la realizza pienamente. La sua Parola trasforma le nostre mani e i nostri occhi in strumenti dell’amore del Padre!

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Ss.ma TRINITÀ  - anno A

1ª lettura Es 34,4-6.8-9 dal Salmo Dn 3 2ª lettura 2Cor 13,11-13 Vangelo Gv 3,16-18

 

L’apostolo Paolo, benedicendo la comunità di Corinto, invoca per loro “la grazia del Signore Gesù Cristo” insieme con “l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo”. Egli così ci lascia intuire la sua comprensione del mistero della vita divina, mistero di comunione e di amore. Padre, Figlio e Spirito Santo è, si può dire, il nome di quel Dio che Gesù ci ha rivelato e ci ha fatto amare. In molti modi e in molte occasioni, come testimoniano i vangeli, egli ci ha parlato del Padre e dello Spirito, e ci ha istruiti sulla unità perfetta e santa che sta vivendo con queste altre due “persone”. Per esprimere con una sola parola questa comunione di amore e di vita è stato coniato un termine nuovo, «Trinità». È un termine freddo, che vorrebbe dire la ricchezza di vita di Dio, però non riesce ad esprimere la bellezza dei rapporti d’amore che intercorrono tra le tre divine persone. Questo termine inoltre impedisce a chi lo usa di manifestare il rapporto di amore che sperimenta con ciascuno dei tre. Per questo preferisco parlare sempre di Padre, Figlio e Spirito Santo! Gesù stesso, e gli apostoli come lui, si sono sempre espressi con questi nomi che richiamano l’uno la relazione con gli altri due. San Paolo ce ne ha dato l’esempio nella benedizione della lettera che abbiamo udito.

L’amore di Dio Padre è quell’amore di cui Gesù ha parlato nel colloquio notturno con Nicodemo. “Dio ha tanto amato il mondo”: ecco l’amore di Dio. Il mondo è l’ambiente in cui si sviluppa l’odio contro Dio, il sospetto su di lui, l’inimicizia verso ciò che Dio dice e fa. Questo mondo Dio non lo rifiuta, ma lo ama, lo vuole cioè purificare e liberare della sua inimicizia. Questo lo fa con l’amore manifestato attraverso il Figlio, che si offre perché il mondo sia salvato. Il mondo è perduto, condannato, perché la sua inimicizia è meritevole appunto di condanna. Coloro che dal mondo si dissociano per credere nel Figlio, che il Padre manda, sono salvati, diventano capaci di ricevere e portare l’amore divino, diventano portatori dello Spirito Santo.

Così Dio si manifesta a noi, e noi possiamo dire di conoscere Dio. Lo conosciamo non perché sappiamo qualcosa di lui, ma perché gustiamo la sua salvezza, gustiamo la bellezza e gratuità del suo amore. La nostra amicizia con Gesù e la nostra obbedienza alle ispirazioni dello Spirito sono luci che ci rendono partecipi della vita divina. Dio lo conosciamo non dall’esterno, ma dal profondo del suo cuore, di cui godiamo l’intimità. Mosè non riusciva ad immaginare una simile vicinanza di Dio, nemmeno quando ebbe il coraggio di chiedergli: “Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi”: è stato esaudito, molto più di quanto egli stesso riusciva a chiedere. Non solo il Signore cammina in mezzo a noi, ma addirittura egli prende noi con sè nel suo cuore. E questo, grazie a Gesù, il Figlio che amiamo.

La reciprocità d’amore tra Padre e Figlio, in cui ci troviamo immersi quando amiamo Gesù, è quello Spirito che ci fa ricchi dei doni della vita di Dio, anzitutto della misericordia e della compassione per tutti gli uomini. Mosè, pur non conoscendola, ha goduto di questa ricchezza quando chiedeva a Dio il perdono per il popolo che lo faceva soffrire a causa della disobbedienza e della infedeltà.

Noi viviamo la nostra vita dopo essere stati battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: siamo sempre immersi nella pienezza della vita d’amore di Dio. Per questo l’apostolo San Paolo può esortarci ad essere sempre gioiosi, e ad essere, con gioia, impegnati in una vita di comunione, dove gli altri non ci sono estranei, ma fanno parte di quella vita divina che incorpora tutti i nostri fratelli di fede e tutti gli uomini. Se Dio non fosse “Trinità” noi saremmo giustificati nel cercare quell’isolamento dove ci vuol portare il nostro egoismo; se Dio non fosse Trinità l’inclinazione a dominare sugli altri sarebbe legittimata. Dato invece che Dio è Padre Figlio e Spirito Santo e noi battezzati in questo nome, sentiamo che la perfezione della nostra vita si svolge nella comunione con tutti gli uomini, una comunione vissuta a diversi gradi, ma sempre vera e portatrice di quell’amore che si fa capace di servire. E nel servizio la gioia è sempre presente!

Lodiamo e benediciamo il Padre Figlio e Spirito Santo! Eterno è il suo amore per noi! Vita eterna è la vita con lui!

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Ss.mo Corpo e Sangue di Cristo  - anno A

1ª lettura Dt 8,2-3.14-16 dal Salmo 147 2ª lettura 1Cor 10,16-17 Vangelo Gv 6,51-58

 

Domenica scorsa abbiamo contemplato il mistero della vita di Dio: oggi manifestiamo la nostra gioia per il mistero che celebra la sua presenza in mezzo a noi. Per darci la certezza del suo essere con noi ha usato il cibo, ciò di cui noi non possiamo fare a meno, che usiamo tutti i giorni, che prepariamo con cura, e con gioia attendiamo il momento di assumere, possibilmente in compagnia. Già con Mosè il popolo ha sperimentato l’amore di Dio e la sua compassione assumendo come nutrimento un cibo donato dall’alto, un cibo nuovo, sconosciuto ai padri, e l’acqua che viene dalla roccia. Ogni giorno il popolo doveva ricordare l’amore di Dio, e lo poteva ricordare non solo con la memoria, ma mangiando e bevendo, sostenendo la propria vita con la concretezza del cibo e della bevanda.

Gesù, presenza di Dio sulla terra, ha portato a compimento la profezia di Mosè. Dio non solo dà un cibo per mostrarci il suo amore, ma diventa egli stesso nutrimento e bevanda che nutre e disseta diventando vita piena ed eterna. Questo è davvero un mistero grande e perfetto. Cibo e bevanda danno energia e diventano mia vita, ed io mi trasformo secondo ciò che quel cibo contiene. Gesù presenta pane ai discepoli, un pane cui egli attribuisce un significato nuovo. Perché il significato non sia solo qualcosa di mentale, bensì una nuova realtà, egli ha offerto se stesso, si è lasciato immolare come vero agnello pasquale per poterci dire “Questo è il mio corpo” e “Questo è il calice del mio sangue”. Quelli che volevano capire non ci sono riusciti, coloro che hanno creduto e credono entrano davvero in comunione con il sangue di Cristo e con il suo corpo, come afferma San Paolo.

Nel vangelo di oggi Gesù ci dice pure che il cibo e la bevanda che egli ci offre non sono facoltativi: chi desidera vita eterna, chi vuole cioè essere in comunione con Dio, ricevendo e donando il suo amore, deve nutrirsene. Ovviamente noi comprendiamo che nutrirsi del corpo e del sangue del Figlio di Dio non avviene mangiando il suo pane e bevendo il suo vino distrattamente, tanto meno senza aderire col cuore alla sua persona. San Paolo dice addirittura che chi mangia e beve senza fede e senza adesione mangia e beve la propria condanna. Come Gesù ha reso vero il significato nuovo del pane e del vino, così noi dobbiamo rendere vero e interiore il mangiare e il bere. Accolgo in me Gesù con tutto il suo essere, con tutto il suo amore per il Padre, con tutto il suo amore che serve gli uomini. Quando voglio essere tutt’uno con Gesù nel compiere la volontà del Padre, allora il mio mangiare e il mio bere il suo corpo e il suo sangue sono una vera trasformazione per me: io divento Figlio di Dio.

La processione cui parteciperemo è la professione pubblica della nostra fede. Non abbiamo nulla da nascondere. Il mistero di Dio e della sua presenza tra noi è per noi una gioia troppo grande: non vogliamo tenerla nascosta, anzi, desideriamo condividerla con tutto il mondo. Chissà che qualcuno di coloro che finora ci hanno derisi non s’accorga dell’importanza e della bellezza del dono eucaristico? In ogni caso Gesù è degno di essere onorato e adorato sempre e ovunque, anche al di fuori della chiesa. Egli ci protegge e ci guida sempre, in ogni luogo: noi in ogni luogo lo amiamo senza vergognarci di lui. Adoriamo Gesù pubblicamente, anche a nome di coloro che vivono in città o nazioni dove non è loro concesso di farlo.

 

Buon pastore, vero pane, o Gesù, pietà di noi:

nutrici e difendici, portaci ai beni eterni nella terra dei viventi!

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29/06 Santi Apostoli Pietro e Paolo

Prima lettura  Atti 12,1-11 dal Salmo 33 Seconda lett. 2 Tim 4,6-8.17-18 Vangelo Mt 16,13-19

 

Ci soffermiamo a contemplare la figura dei due Apostoli che percorsero un cammino di vita e di fede tanto diverso l’uno dall’altro. Li celebriamo insieme, perché è lo stesso Signore che li ha chiamati e che essi hanno servito e testimoniato, uno lo Spirito con cui hanno predicato il Signore Gesù, il medesimo Dio Padre che dalla loro vita riceve gloria! Celebrando in un solo giorno la loro memoria rendiamo grazie a Dio dei doni tanto diversi di cui egli li ha arricchiti, doni complementari e necessari per l’edificazione e la santificazione della Chiesa. Potremmo pensare che il celebrare insieme i due Apostoli, oltre che un invito del Signore all’unità per tutti i cristiani, sia un insegnamento pratico a non considerare nessun cristiano perfetto, bastante a se stesso. Qua e là nella Chiesa qualche sacerdote o vescovo ha la tentazione di fare da sé, o di comportarsi come se tutto dipendesse da lui, senza cercare l’unità con gli altri. Venerare Pietro e Paolo in un’unica celebrazione corrisponde a proclamare che la Chiesa è del Signore e non degli uomini, e che ciascuno di noi ha bisogno dei carismi degli altri per servire adeguatamente il Regno di Dio.

La prima lettura ci porta ad uno dei momenti ripetuti nella vita dei discepoli del Signore Gesù: è necessario che essi siano rifiutati e perseguitati, che essi soffrano, perché egli ha sofferto.

Pietro è stato gettato in carcere, e può ormai solo attendere la morte. Le decisioni degli uomini però, anche se essi sono potenti, come Erode, non sono definitive, e quindi non devono mai fare paura. La Chiesa sta pregando incessantemente per lui, e Dio ha deciso di ascoltare la preghiera della sua Chiesa! L’intervento di Dio è prodigioso: il suo angelo si comporta con Pietro come una mamma col suo bambino: gli suggerisce tutti i movimenti finché egli è al sicuro e può arrangiarsi. Questa pagina ci trasmette grande serenità e fiducia per tutte le situazioni difficili o impossibili.

La sofferenza della persecuzione è stata la compagnia continua anche di San Paolo. Nelle sue lettere lo ricorda, e lo accenna scrivendo a Timoteo. Quando l’apostolo parla delle sue sofferenze patite per il vangelo, non lo fa per lamentarsi, piuttosto per lodare la bontà di Dio che lo ha liberato e ha usato quelle situazioni di difficoltà perché il vangelo potesse essere diffuso in tutti gli ambienti, compresi quelli dei potenti che comandano. “Il Signore mi è stato vicino e mi ha dato forza”, “Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli”! Le sofferenze dei due Apostoli sono la strada che li ha portati ad offrire tutta la loro vita per il Regno di Dio e a dare testimonianza credibile a Gesù!

Per tutt’e due, e così per i discepoli di tutti i tempi e luoghi, il Signore Gesù è il centro, il punto di partenza e il punto di arrivo. Il brano del vangelo ci presenta appunto la professione di fede di Pietro, che con sicurezza dichiara, a differenza di tutta la gente, che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio! Sappiamo che egli stesso ha faticato e zoppicato nella fedeltà a questa dichiarazione, ma, riavutosi dal rinnegamento, l’ha completata, dichiarando il proprio amore a Gesù e rendendosi disponibile per il servizio alle “pecorelle” cui Gesù lo destinava. Il Signore aveva infatti promesso a Pietro “le chiavi del regno dei cieli”, un ministero molto importante e definitivo, ministero che deve durare fin che dura la Chiesa, contro la quale “le porte degli inferi non prevarranno”!

Per questo motivo oggi ci stringiamo spiritualmente attorno al successore di Pietro, che porta ancora il peso (per sé) e la grazia (per noi) di quelle chiavi che aprono a noi l’accesso alle gioie eterne e lo chiudono a colui che vuole disperdere e rovinare. Insieme a lui preghiamo perché il regno di Dio arrivi a tutti i popoli attraverso la predicazione, e gli annunciatori del nome di Gesù abbiano la forza e il coraggio di Paolo per non desistere da questo compito così unico. Egli ha fondato Chiese ovunque, perché in tutti i luoghi ci sia chi invoca il nome del Signore! Chi, come lui, è “stato conquistato da Gesù”, non può fare a meno di farlo conoscere e amare, perché in questa conoscenza e amore sta la salvezza, la vita, la pace, la gioia, la comunione dei singoli, dei popoli e del mondo intero.

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Domenica 10ª del Tempo Ordinario - Anno A

Prima lettura Os 6,3-6 Salmo 49 Seconda lettura Rom 4,18-25 Vangelo Mt 9,9-13

“Che dovrò fare per te, Efraim? Che dovrò fare per te, Giuda?” Il profeta Osea mette in bocca a Dio queste parole. Efraim e Giuda sono i nomi di due tribù del popolo d’Israele, nomi che contraddistinguono i due regni in cui dopo Salomone si è diviso il popolo. Efraim e Giuda comprendono quindi la totalità degli Ebrei. Dio chiede cosa deve fare ancora, dopo tutto quello che ha fatto per manifestare il suo amore, per guadagnarsi la fiducia e quindi l’obbedienza del popolo, di tutto il popolo! Questo popolo è pronto ad offrire sacrifici di animali, ma non a mettersi in ascolto della sua volontà e cambiare le proprie abitudini che favoriscono l’ingiustizia e le discordie tra fratelli. Dio non può essere contento dei sacrifici di animali, per quanto costosi, se questi sono offerti da persone che non si preoccupano minimamente di conoscerlo e di ascoltarlo!

La stessa situazione tocca la vita di Gesù. Egli si trova tra due fuochi: da una parte i peccatori , bisognosi di conversione, che lo cercano per ascoltarlo, dall’altra i devoti farisei che proprio per la sua accoglienza lo criticano e lo rifiutano. Questi ritengono si debbano osservare le leggi, norme riguardanti cibo, culto e altre situazioni della vita, e giudicano gli altri, ma non pensano a conoscere Dio. Gesù lo conosce e conosce il suo desiderio che i peccatori abbiano la possibilità di convertirsi. Per questo egli li accoglie e non si sente fuori posto a mangiare in loro compagnia. D’altra parte egli cerca di convincere i farisei, la porzione del popolo che si ritiene più giusta e a posto, della necessità di conoscere Dio e la sua paternità. E ciò sarebbe possibile, perché i profeti già hanno parlato e scritto molto in proposito. Chi vuole può conoscere Dio e i suoi pensieri; chi vuole veramente amare Dio può e deve accogliere e fare propri i pensieri di Dio!

Dio dice così: “Misericordia io voglio e non sacrificio”. Gesù incarna proprio la misericordia del Padre, e si accosta ai peccatori cosciente d’essere per loro come un medico per i malati. Possono i malati fare a meno del medico? A sua volta anche il medico non può ignorare l’esistenza dei malati né disinteressarsi della loro malattia. È necessario quindi lasciar compiere a Gesù la sua missione, non ostacolarlo, piuttosto aiutarlo, se si vuol essere graditi al Padre!

Questo non lo capiranno tutti i farisei, ma solo qualcuno di essi. Lo capiranno invece i suoi discepoli, che sono da lui scelti proprio tra le categorie di persone disprezzate e rifiutate. Gesù sceglie e chiama Matteo, e Matteo segue Gesù senza farsi problemi per il proprio passato. Anzi, il suo passato non gli ostacola la capacità di accogliere in sé le preoccupazioni di Gesù, di condividere i suoi modi di fare, di essere attento agli altri peccatori per amarli e farli incontrare con l’unico Salvatore del mondo!

Matteo ci è d’esempio nell’accogliere l’invito di Gesù con prontezza e decisione. Egli lascia il proprio lavoro, colleghi e amici per seguire la voce del Signore. Il gesto di Matteo ci apre il cuore a risposte coraggiose, motivate dalla fede, scelte che cambiano tutta la vita e per sempre. Oggi molti dicono che i giovani non sono più capaci di prendere decisioni per la vita, se non decisioni che impegnano solo qualche mese o qualche anno. E ciò varrebbe sia per quanto riguarda il matrimonio che per un’eventuale consacrazione a Dio. Di che cosa sono carenti i nostri giovani? Di forza psicologica? Di convinzioni radicate? Probabilmente ad essi manca solo un po’ di fede. È la fede il movente per scelte coraggiose e durature.

Scrivendo ai Romani San Paolo si dilunga a descrivere la fede dei santi patriarchi, in particolare di Abramo, per proporla come esempio da imitare ai credenti bisognosi di perseveranza. La fede è l’unica cosa necessaria per poter prendere scelte coraggiose e durature. La fede, cioè la fiducia nelle capacità di Dio, la fiducia nel suo amore eterno, la certezza che egli non ritira né le promesse né gli aiuti! Abramo non è un caso isolato: se la fede ha reso lui gradito a Dio, e quindi “giusto”, quanto più coloro che credono in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore?

Conoscendo l’amore di Dio anche noi avremo coraggio a impegnarci per Gesù per tutta la vita! E saremo dono dell’amore del Padre per i fratelli!

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Domenica 11ª del Tempo Ordinario - Anno A

Prima lettura Es 19,2-6 Salmo 99 Seconda lettura Rom 5,6-11 Vangelo Mt 9,36-10,8

 

La prima lettura è ambientata nel deserto, all’inizio del cammino degli israeliti verso la terra della loro gioia! La partenza dall’Egitto, il cammino nel deserto e l’arrivo alla terra promessa sono tappe volute e guidate e preparate da quel Dio che li ama e li chiama.  Dio continua a interrogare la loro volontà: egli vuole avere a che fare con persone consapevoli, mature, capaci di proprie scelte, libere. Dio è Padre e vuole far sì che gli uomini siano figli per lui, non schiavi! Egli dà loro segni di amore, di presenza, di bontà: “Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me”. Ora tocca ad essi decidere se continuare ad ascoltare o meno, se continuare un rapporto di fiducia con lui o fare a meno della sua parola e della sua persona!

Questo incontro con Dio ci aiuta a cogliere qualche aspetto del brano evangelico. Matteo ci presenta la compassione di Gesù: egli vede le folle in balia di se stesse, senza discernimento e direzione sicura per la propria vita. Nessuno le guida al Padre, nessuno fa loro conoscere Dio come amico, come colui che desidera il loro bene, la loro felicità. Le guide del popolo e le persone cui tutti fanno riferimento presentano Dio come un padrone, come uno che esige sacrifici e osservanza formalistica di leggi senza più senso. Gesù sa di essere mandato proprio per guidare tutti alla conoscenza dell’unico Dio vero: non può dirlo, deve farlo capire con le proprie opere perché ognuno comprenda da sé e decida con libertà.

Egli esorta anzitutto i discepoli alla preghiera. La preghiera arriva al cuore di Dio, ma prepara pure il cuore dell’uomo ad accogliere le proposte che potranno venire dall’alto! La preghiera riguarda persone – “operai” - che si impegnino per i progetti del Padre: “la messe”, la raccolta e unificazione di coloro che sono pronti a dire il si al suo amore! Quindi Gesù chiama dodici suoi discepoli per farne Dodici apostoli. Dodici uomini capaci di imparare, miti e umili, per diventare capaci di realizzare il regno di Dio sulla terra! Essi non dovranno infatti anzitutto insegnare. Essi coltiveranno amore per i più deboli, per “le pecore perdute”, avranno attenzione agli infermi, ai morti, ai lebbrosi emarginati, a coloro che sono in balia di demoni. La loro attenzione per le situazioni di sofferenza sarà accompagnata dall’annuncio della vicinanza di Dio, dalla presenza del suo Regno.  I dodici inviati da Gesù mantengono tutti le proprie caratteristiche, mantengono il proprio nome: sono uomini con pregi e difetti, uomini come noi! Avranno tentazioni, faranno fatica, come noi, ad essere staccati da se stessi tanto da agire del tutto gratuitamente. Ma questo sarà necessario, perché si possa riconoscere in essi l’inizio di quel regno che è del Padre di tutti. I Dodici sono proprio dodici: Gesù ha voluto osservare il numero; essi stanno al posto dei patriarchi di quell’Israele che ora rinnega l’amore del proprio Dio. Gesù sta per iniziare il popolo nuovo, definitivo, fedele: in esso ci sarà sempre la fedeltà e la comunione perché in esso sarà sempre presente il suo Spirito.

Gesù dovrà morire perché venga lo Spirito a illuminare i suoi dodici. Egli morirà per noi peccatori: questa è la dimostrazione più profonda e completa dell’amore del Padre per gli uomini. San Paolo ci aiuta a guardare alla morte di Gesù come al grande mistero dell’amore di Dio per noi peccatori. Noi, nemici di Dio, siamo stati oggetto della sua compassione. Non possiamo vantarci di fronte agli israeliti, anzi, dobbiamo far tesoro delle parole che Dio ha rivolto loro: le ha dette per noi! “Se vorrete ascoltare la mia voce e custodire la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli…! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa”!

Noi staremo uniti ai dodici, a coloro che ne ereditano oggi la missione. Collaborando con loro  collaboriamo ai progetti del Padre iniziati da Gesù!

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Domenica 12ª del Tempo Ordinario - Anno A

Prima lettura Ger 20,10-13 Salmo 68 Seconda lettura Rom 5,12-15 Vangelo Mt 10,26-33

 

Tu non privi mai della tua guida coloro che hai stabilito sulla roccia del tuo amore”! Così la preghiera all’inizio della liturgia di oggi. Questa è l’esperienza dei santi profeti passati attraverso prove e tribolazioni, esperienza di cui si fa portavoce Geremia. Molti, tra cui gli amici, stanno a vedere la fine di colui che vuol essere fedele a Dio. Essi lo vogliono denunciare, lo vogliono eliminare, perché non possono sopportare chi sta dalla parte di Dio: sentono la sua vita una condanna per le loro azioni generate dall’egoismo! È quasi un mistero questo accanimento degli uomini contro coloro che vogliono solo amare e impregnare la società della legge dell’amore! Chi capisce questa ostilità? È assurda! Eppure essa esiste e semina sofferenze in tutti i luoghi e in tutte le epoche, cercando di scoraggiare chi vuol migliorare la propria vita e la convivenza umana. Davvero è una forza maligna, nemica di Dio e degli uomini!

I fedeli però non si scoraggiano, prendono la prova come occasione per dimostrare la propria amicizia al Signore, lo lodano perché egli protegge i deboli e, a suo tempo, li libera! Il salmo di oggi è una bellissima preghiera di chi è ingiustamente perseguitato e ciononostante continua la propria fedeltà!

Nelle parole del salmo e in quelle del profeta troviamo chiara profezia delle sofferenze del “Giusto”, di Gesù, e del modo con cui egli le ha accolte e superate.

Nella pagina evangelica udiamo proprio dalla voce del Signore istruzioni ed esortazioni preziose. Quando i suoi discepoli si troveranno in situazione di persecuzione, di rifiuto da parte degli stessi uomini che essi beneficheranno, come dovranno comportarsi? Dovranno soccombere alla paura?

Gesù aiuta i suoi a tenere lo sguardo rivolto al Padre: egli, che si cura delle cose più piccole, persino dei passeri e dei capelli del nostro capo, non si curerà a maggior ragione della nostra vita? Fiducia nel Padre, dunque, fiducia sicura e riconoscente! Questa fiducia allontana ogni paura!

E la fiducia nel Padre diventerà forza interiore per perseverare nell’amicizia con Gesù. È il suo nome infatti che essi sono mandati ad annunciare per beneficare gli uomini del mondo. Non c’è beneficio più grande della conoscenza del Figlio di Dio! I poveri ne ricevono luce e gioia, i ricchi forza per amare diventando generosi, gli oppressi speranza, i peccatori volontà di conversione.

Il nome di Gesù deve essere svelato e annunciato a tutti, perché Gesù, assicura San Paolo, è la causa di ogni bene per gli uomini peccatori. Egli è l’unico in grazia del quale tutti veniamo salvati. Siamo tutti peccatori, tutti. Quando si riversa su di noi la persecuzione o l’ingiustizia degli uomini, non diremo: “ma che male ho fatto?”. Solo Gesù, l’unico innocente, potrebbe dirlo, e non lo dice. Noi portiamo con lui il peso della croce, noi, che siamo di fatto peccatori. E anche la nostra sofferenza avrà lo stesso valore di quella di colui che attraverso essa ci ha salvati!

Non ci lasceremo prendere da nessuno scoraggiamento quindi, né dalla paura, né dalla voglia di tirarci indietro dal continuare la nostra fedeltà a Gesù, quando udremo derisioni o offese, quando saremo vittime di ingiustizie e soprusi, quando saremo accusati o rifiutati per la nostra fede ed il nostro amore. Le occasioni non mancheranno: Gesù ci ha preavvisati. Ci teniamo pronti, lo sguardo rivolto al Padre, che mantiene le sue promesse. Da lui riceveremo la nostra sicura ricompensa.

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Domenica 13ª del Tempo Ordinario - Anno A

Prima lettura 2Re 4,8-11.14-16 Salmo 88 Seconda lettura Rom 6,3-4.8-11 Vangelo Mt 10, 37-42

 

L’episodio narrato dalla prima lettura è commovente. Il profeta Eliseo viene accolto da una coppia di sposi e invitato da loro a rifocillarsi ogni volta che passava da quelle parti. Inoltre la generosità e delicatezza della moglie pensa ancora a lui, perché uomo di Dio: ella invita il marito a preparare una stanza per accoglierlo quando si trovasse nelle vicinanze! Quella donna fa tutto gratuitamente, lieta di servire un profeta di Dio! E Dio la premia, esaudendo il suo desiderio più grande. Il profeta stesso si fa interprete dei pensieri divini, e annuncia alla donna la nascita di un figlio!

Questo bell’esempio di generosità viene alla mente ascoltando le parole di Gesù; forse lui stesso l’aveva presente quando istruiva i discepoli. “Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto.

Sono parole che aiutano e stimolano a prendere sul serio gli uomini di Dio, e cioè Dio stesso che si manifesta a noi e ci incontra tramite persone concrete. Sono parole quindi che preparano il terreno del nostro cuore all’accoglienza di Gesù stesso come inviato del Padre, come Messia, come Figlio di Dio, come portatore della divinità nel suo corpo umano! Gesù applica il principio della ricompensa ai suoi discepoli: chi accoglie la loro persona accoglie colui che li manda, cioè lui stesso! I discepoli si sentono così oggetto della protezione di Dio e della sua benevolenza, aiutati e incoraggiati nel proprio compito. Essi però devono essere veri discepoli! E come lo si è?

Chi è vero discepolo di Gesù? L’insegnamento del Maestro è senza mezzi termini e senza mezze misure. Noi vorremmo addolcirlo, spiegarlo con accomodamenti, ma lui non ha paura ad usare parole a prima vista scoraggianti! Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me!

I legami più sacri hanno poco valore quando è vicino a noi il Figlio di Dio! Il nostro amore più grande di solito è per i genitori e per i figli. Quest’amore è conosciuto da tutti. Ebbene Gesù può essere amato come un padre, come una madre, come un figlio, anzi può e deve essere preferito a loro. Non tutti comprendono e accettano di anteporre Gesù agli amori più profondi. I genitori cristiani però soffrono quando nel cuore dei loro figli non c’è l’amore per Gesù: si accorgono che in essi non rimane nemmeno una vera comunione profonda con loro!

Gesù deve essere amato inoltre più della propria vita stessa. Lo hanno compreso gli apostoli e i martiri, che ce ne hanno dato l’esempio. Ma noi pure sappiamo che se non facciamo qualche sacrificio e rinuncia per amore di Gesù, e se non sopportiamo derisioni e disprezzo a causa di lui, la nostra fede si perde e noi diveniamo vuoti, e la nostra vita smarrisce il suo significato più vero e più bello! Gesù è il tesoro del cuore dell’uomo. Se c’è lui in noi, noi siamo maturi, generosi, disponibili, pronti ad amare, pronti a vivere, disposti a tutto, anche a portare qualche piccola o grande croce. Se c’è lui in noi sentiamo e godiamo comunione con molti altri che condividono lo stesso amore! Questa comunione è davvero gioia grande, partecipazione ad una beatitudine che riempie il cuore e la vita tutta!

Nella seconda lettura San Paolo ci parla della vita unita a Gesù! Chi è stato battezzato in Cristo Gesù è come morto per questo mondo con le sue cose inutili e le sue false sicurezze. Chi si è unito a Gesù senza rifiutare la sua morte vive con lui, vive per Dio, vive una vita nuova, una vita che definiamo eterna, perché inserita ormai in quella del Dio vivente! Anche noi possiamo camminare in una vita nuova! Chi trova Gesù trova la propria vita più bella e più vera! Lo dico anch’io, ma dico pure che ho cominciato a capirlo quando ho cominciato ad amare Gesù più dei miei genitori e dei miei amici, più della mia bella figura, più della ricchezza e del mio onore!

Prego il Signore perché conceda anche a te di cominciare. Allora non solo capirai, ma godrai le gioie più belle e durature!

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14ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura Zc 9,9-10 dal Salmo 144 2ª lettura Rm 8,9.11-13 Vangelo Mt 11,25-30

 

Oggi contempliamo la gioia di Gesù: egli gode nel vedere il modo di fare del Padre. Aveva appena pronunciato i guai per le città che avevano visto i suoi segni prodigiosi senza arrivare alla fede, ma ora egli vede attorno a sè coloro che stanno con lui e da lui attendono insegnamenti e consolazione. Questi sono i poveri, persone oppresse, gente che per il mondo non conta nulla. Ecco, questi stanno con lui, questi credono, questi sanno che egli è inviato dal Padre. Ad essi il Padre concede di conoscere il Figlio. I segreti di Dio vengono rivelati solo a questi “piccoli”.

Chi si inorgoglisce di una presunta sapienza, o ritiene d’essere qualcuno davanti agli altri perché ha studiato, costui rimane privo della luce dei misteri. Chi si ritiene importante per gli uomini perché conosce le loro cose, non partecipa a quelle di Dio, che sono nascoste, come Dio è nascosto agli occhi umani. È un invito a voler rimanere piccoli, come è piccolo il Figlio stesso di Dio. Gesù conosce le cose di Dio, a lui sono date in pienezza, perché egli vuol essere ed è sempre obbediente, come un bambino, che trova la sua gioia nell’obbedire al padre suo, di cui ha grande stima. I profeti stessi hanno annunciato la venuta del re eterno con immagini che dicono la sua piccolezza: “cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”. Egli deve far sparire le armi per annunciare la pace non solo al popolo d’Israele, ma a tutti i popoli. La pace può venire solo da chi è umile, da chi non si vuol mettere sopra nessuno. Egli, “giusto e vittorioso”, viene senza boria, senza alcuna superbia. Tutti si trovano a proprio agio con lui, nessuno soffrirà di soggezione, nessuno si sentirà sottomesso. Tutti si sentiranno amati e accolti da chi viene nell’umiltà, e così tutti possono gioire della gioia più profonda.

La profezia di Zaccaria inizia proprio con l’invito all’esultanza per la presenza del re che vince la sua battaglia con l’umiltà. Questa profezia sarà ripresa dall’angelo Gabriele per annunciare a Maria che il re viene attraverso di lei, ed è rivolta a tutta la Chiesa quando sarà inviata a tutti i popoli per portare loro la buona notizia del regno.

Oggi accogliamo anche noi l’invito a godere, ad imitare Gesù che si rallegra dei modi di fare del Padre! Portiamo con noi a lui le nostre stanchezze e tutto ciò che ci opprime, a cominciare dal nostro peccato. Impareremo la sua umiltà. L’umiltà ci alleggerisce e ci arricchisce, perché ci permette di accogliere la ricchezza dell’amore divino. In quest’umiltà riusciremo a portare il giogo di Gesù, cioè a essere sottomessi non a comandamenti pesanti, ma al suo amore.

San Paolo ci ripete l’insegnamento con altre immagini e altre parole. “Voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito”: non ubbidiamo ai nostri istinti e nemmeno ai modi di fare degli uomini, ma ci lasciamo condurre dall’amore del Padre, lo Spirito che egli ci ha donato e ora abita in noi. Noi siamo ancora qui sulla terra, avviati alla morte, ma possiamo già vivere in comunione con Dio, liberi dai condizionamenti terreni.

Ricevendo questi insegnamenti e l’invito alla gioia, benché ancora oppressi e stanchi, possiamo condividere l’esultanza di Gesù con le parole del salmo 145 che è stato proclamato:

O Dio, mio re, voglio esaltarti

e benedire il tuo amore in eterno e per sempre.

Ti voglio benedire ogni giorno,

lodare il tuo nome in eterno e per sempre.

Misericordioso e pietoso è il Signore,

lento all’ira e grande nell’amore.

Buono è il Signore verso tutti,

la sua tenerezza si espande su tutte le creature!”.

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15ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura Is 55,10-11 dal Salmo 64 2ª lettura Rm 8,18-23 Vangelo Mt 13,1-23

 

Nel vangelo di oggi Gesù ha dato risposta alla domanda che spesso mi sorge: che fine fanno le mie prediche? Da più di quarant’anni ogni domenica predico, ma non vedo grandi cambiamenti, non vedo aumentare l’amore a Gesù, non cresce attorno a me - per quanto io riesca a constatare - la santità. A causa dei miei peccati e della mia incapacità non posso pretendere nulla dal mio predicare, anche se cerco di annunciare e di aiutare a comprendere la Parola di Dio, sì, proprio la Parola di Dio!

Oggi Gesù stesso risponde alla mia domanda con una parabola. Il frutto della semina non dipende dal seminatore, bensì dal terreno che riceve la semente. Il terreno può essere libero oppure occupato da pietre, da rovi ed erbacce, o può persino essere battuto come un sentiero. Come i semi, così la Parola di Dio. Essa può venire seminata a piene mani, con grande generosità, ma se i cuori che l’ascoltano sono occupati da altro, o se sono duri come il cemento, non cambiano in nulla, rimangono tali e quali, non producono opere di pace e di gioia.

Il primo cuore che deve essere ripulito è il mio. Anche nel mio cuore qualche Parola che arriva dall’alto o dal profondo dell’amore di Dio rimane soffocata, oppure molto in fretta viene dimenticata. Io non posso pretendere nulla da nessuno, nè da colui da cui proviene la Parola, nè dalla Parola stessa. Devo badare al mio cuore, che sia sempre libero dai sassi e dalle spine, cioè da preoccupazioni materiali, da vanagloria, da ambizioni, da attaccamenti a qualche passione: sono queste le realtà che impediscono la crescita della mia vita secondo i desideri di Dio Padre.

La pulizia del cuore costa sofferenza. Ce lo dice anche l’apostolo scrivendo ai Romani. Siamo circondati da creature di Dio che soffrono perché non si sono potute sviluppare secondo lo scopo per cui sono state create. Tutto è sottomesso alla caducità a causa del peccato: questo, che è presente ancora nei pensieri e nelle azioni degli uomini, continua a rovinare ogni ambiente. Tutte le cose anelano alla libertà, ad essere cioè manifestazione di quell’amore con cui e per cui sono state fatte. Non soltanto le cose, molto più gli uomini, coscientemente o inconsapevolmente, anelano ad essere portatori e rivelatori del mistero di Dio, da cui provengono e a cui tendono. Chi soffre, soffre perché è stato distolto da questa strada e da questa meta. Soffre molto chi non conosce lo scopo della propria vita. Questi vive superficialmente, distrattamente, cerca sempre nuove soddisfazioni senza esser mai soddisfatto da nulla. Molti si perdono in cose inutili, molti cercano di arricchire, ma non sanno il perché, molti si buttano in attività di lucro o di divertimento per riempire il vuoto del cuore. Crescono le malattie causate dal vuoto, dalla mancanza di significato. Guardando a questa realtà comprendiamo quale grande dono ci ha fatto il Signore invitandoci a vivere per lui, a dare gloria a lui, a riempire il nostro cuore con il suo amore! Quale grande dono ci fa istruendoci con la sua Parola, perché possiamo conoscere il perché della nostra vita e come possiamo collaborare con lui.

Prepariamo il nostro terreno alla semina del Signore. Prepariamo il nostro cuore libero per accogliere ogni Parola che viene da Gesù, anzi, a Gesù stesso che è la Parola del Padre. Egli non dovrà essere soffocato da nulla, da nessuna preoccupazione e da nessun interesse per le cose che passano. Quando lo accogliamo, la sua presenza porta molto frutto, frutto di amore, di libertà, di pace, di santità, di vita!

Chi accoglie Gesù porta frutto, molto frutto, anche se io non lo vedo. Continuerò a predicare, ad annunciare e spiegare la Parola di Dio: è lui che raccoglierà il frutto nel suo granaio, io non mi devo preoccupare!

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16ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura Sap 12,13.16-19 dal Salmo 85 2ª lettura Rm 8,26-27 Vangelo Mt 13,24-43

 

La forza di Dio è la forza dell’amore: questo è l’insegnamento del libro della Sapienza di cui abbiamo sentito un breve passo. Dio è potente, ma la sua potenza la vede solo chi si ribella a lui. Tutti quelli che lo amano vedono solo la sua tenerezza, anzi, la sua indulgenza. L’amore di Dio infatti è capace di perdonare. Noi godiamo di questa particolarità del nostro Dio, e impariamo da lui ad avere misericordia di tutti. Il popolo di Dio quindi è un popolo dove regna pentimento e perdono. La cosa più bella che Dio mi può donare è d’essere capace di pentirmi dei miei peccati e di essere capace di non giudicare nessuno e di incontrare tutti, proprio tutti, anche i nemici, con compassione e misericordia.

Gesù usa le sue parabole per aiutarci a diventare anche noi come Dio, cioè misericordiosi e umili, amanti di tutti. Oggi sono tre le similitudini su cui riposa il nostro sguardo. Esse continuano l’insegnamento di quella che abbiamo udito domenica scorsa. Accanto al buon seme crescono piante inutili e dannose che mettono in crisi coloro che lavorano in vista del raccolto. Se il seme è piccolo non ci si deve scoraggiare, perché contiene una forza superiore alle sue dimensioni. Assomiglia al seme anche il lievito usato dalle donne per fare il pane: è poco e nascosto, ma sorprendente è la sua capacità di trasformare una grande massa di farina.

 

Accanto a noi, che cerchiamo di portare in noi stessi Gesù per il bene di tutti, vivono persone che tentano di impedircelo. Quel regno di Dio per cui noi fatichiamo tanto viene ostacolato da chi ci vive accanto, da chi ha ascoltato insieme a noi la stessa Parola di vita. Un bel pasticcio! Cosa fare? Addirittura dentro la Chiesa ci sono persone che seminano zizzania e rovinano il lavoro di altri che si offrono in sacrificio per la salvezza di intere generazioni. E ancora, dentro il mio stesso cuore, oltre alla volontà di obbedire a Dio e di costruire con lui il regno dei cieli, mi trovo delle voglie strane di tornare indietro e di essere come il mondo che mi circonda. Non posso allontanare nessuno, perché allora dovrei allontanarmi anch’io. Sopporto con pazienza la presenza di persone che portano una fede immatura o finta. Cerco con tutte le forze di essere fedele al mio Dio, di amare e ascoltare Gesù, di lasciarmi sorreggere e guidare dal suo Spirito. Sarò così la gioia del mio Signore e sarò di aiuto a qualcuno per diventare o rimanere fedele alla sua chiamata. La parabola della zizzania mi esorta a non guardare gli altri nè per giudicarli nè per imitarli, ma a tenere lo sguardo sempre rivolto a colui che Dio ha mandato per essere il nostro pastore. È Dio che alla fine raccoglierà tutto e separerà chi riconosce suo da chi non può riconoscere come sua proprietà.

Coloro che amano Gesù sono pochi? È vero, anzi, pochissimi. Ma non è necessario che siano molti. Quei pochi, se fedeli e se mantengono la propria identità, se custodiscono la Parola nel cuore e la esprimono nella vita, sono una potenzialità enorme nelle mani di Dio. I pochi aumentano e diventano moltissimi, come è successo a Gerusalemme dopo la Pentecoste. Non devi e non puoi scoraggiarti: tieni la Parola, portala in te, lasciala diventare vita vissuta, e vedrai la crescita della Chiesa. Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani, è stato detto. La Parola di Dio vissuta fino alla morte non è vissuta invano: essa porta sempre frutto, perché essendo di Dio non può deludere. Il frutto della Parola viene goduto non solo da Dio e non solo da chi se ne rende strumento, ma anche da molti altri, come la pianta di senape che, cresciuta, serve agli uccelli del cielo per fare il loro nido. Nel linguaggio biblico gli uccelli del cielo sono i popoli della terra, i popoli pagani: tutto il mondo riceve beneficio dalla fedeltà dei cristiani!

Gesù ricalca questo concetto con l’altra parabola, quella del lievito. Un regno di Dio così piccolo e povero, può avere un significato? Se è di Dio non dire che è piccolo, perché ciò che è di Dio porta in sè la forza di Dio, che supera quella di tutti gli uomini messi insieme. Il lievito, poco com’è, trasforma una grande massa di farina e fa sì che diventi pane. Pochi cristiani, se uniti come regno di Dio, diffondono nel mondo capacità nuove da renderlo vivibile: questo è successo infinite volte e succederà ancora.

Ascoltiamo Gesù e continuiamo a tenere a portata di mano la sua misericordia verso tutti, come lui la dimostra ogni giorno verso di noi: vedremo i suoi prodigi. Lasciamo che in noi lo Spirito di Dio innalzi la sua preghiera al Padre per tutti i credenti!

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17ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura 1Re 3,5.7-12 dal Salmo 118 2ª lettura Rm 8,28-30 Vangelo Mt 13,44-52

 

Com’è difficile portare delle responsabilità! Avere dei compiti di governo è davvero difficile. Chi esercita qualche autorità condiziona la vita di altri, ne riceve gli elogi o le critiche, accontenta e scontenta molti nello stesso tempo. Lo sapeva Salomone quando ha iniziato a regnare su Israele, tanto che persino nel sonno era influenzato da questa preoccupazione. E poiché dimostrò di essere umile, Dio lo volle esaudire concedendogli sapienza e discernimento. Salomone sapeva di essere un uomo che può sbagliare, come tutti, e che i suoi eventuali errori avrebbero creato sofferenza a molti. Perciò pregò Dio di non dargli nè potenza nè ricchezza, bensì docilità per distinguere il bene dal male secondo il suo pensiero. Questa è la preghiera che Dio esaudisce.

La difficoltà di Salomone è di tutti. La nostra vita può essere un dono di Dio per i nostri fratelli o può diventare per loro una sofferenza. Che cosa dobbiamo desiderare? Che cosa portare nella nostra domanda al Padre? I desideri che l’ambiente in cui viviamo alimenta in noi sono quelli dell’egoismo, di diventare ricchi, di godere sempre buona salute e vita lunga, di non avere nemici oppure di non essere da loro sopraffatti. Dio non gode di questi desideri, perché non manifestano la ricchezza e la bellezza del suo amore per tutti. Egli gode e ascolta volentieri i desideri di chi vuole collaborare con lui a creare comunione e a dare ad ogni ambiente l’impronta e il colore dell’amore. Sono questi i desideri portati in cuore dal Figlio suo, da Gesù, che ha voluto offrire se stesso per realizzare l’amore del Padre e per farlo conoscere a tutti. La nostra vita si realizza pienamente e noi raggiungiamo la vera e profonda gioia quando siamo “conformi all’immagine del Figlio suo”. Questo è il nostro destino, il traguardo di ogni nostra fatica e di ogni impegno.

Gesù ci aiuta con le sue parabole proprio ad entrare nei pensieri di Dio.

Qual è l’uomo saggio? È colui che sa scegliere il meglio. Colui che trova un tesoro e colui che cerca perle preziose, come pure coloro che separano i pesci buoni da quelli immangiabili, hanno ricevuto una sapienza sicura, che non inganna. Chi trova il tesoro nascosto nel campo, dove sta lavorando, non se lo lascia sfuggire: compra il campo, affinché nessun altro venga a conoscenza del ritrovamento; anche se quel campo non vale molto e non lo desidera nessuno, egli vende tutto quel che ha pur di poterlo comprare. Chi ha individuato la perla di gran valore, vende tutte quelle che possiede pur di avere quella. Chi pesca con la rete, non porta a casa tutto il contenuto della rete, ma separa subito i pesci buoni da quelli che non si possono mangiare. Fin che sono mescolati non riuscirebbe a vendere nulla.

Quale sarà il campo che io posso o devo comprare? È il campo che contiene il tesoro che può cambiare la mia vita. Quel campo è il luogo dove si nasconde Gesù. Cerco quelle situazioni, quelle compagnie, quel lavoro o quella occupazione dove Gesù è al centro. Anche se nessuno apprezza queste situazioni e compagnie o lavori, io non me li lascio sfuggire, sono preziosi, perché riempiono la mia vita di significato e di pace. Anche se Gesù, dentro quelle situazioni, porta la croce, là è la gioia e la vita per sempre.

Qual’è la perla di grande valore che mi fa vendere tutte le altre mie perle pur di poterla acquistare? È ancora Gesù: senza di lui non posso vivere, senza di lui non c’è né luce né pace. Nessun’altra ricchezza e nessun’altra bontà mi possono soddisfare.

E chi è che si siede per scegliere tra i pesci pescati quelli da riporre nel canestro per portarli a casa? Sono io che mi fermo a discernere tra i miei pensieri e progetti quelli che sono “buoni”, cioè quelli che portano Gesù nella mia vita, che mi tengono unito a lui, che offrono la sua luce ai fratelli, che realizzano le sue parole e i suoi desideri.

Le parabole di Gesù ci donano quella sapienza che nemmeno Salomone ha ricevuto. Con la sapienza di Gesù possiamo affrontare tutti i nostri compiti, anche quelli che ci caricano di grandi responsabilità.

Chiediamo a Dio sapienza e prudenza, ed egli ci risponderà offrendoci Gesù: “Ascoltatelo”, ci dice. E il Signore stesso ci assicura: “Chi rimane in me porta molto frutto”!

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18ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura Is 55,1-3 dal Salmo 144 2ª lettura Rm 8,35.37-39 Vangelo Mt 14,13-21

 

Oggi il messaggio di Dio si serve dell’immagine del cibo e della bevanda, della sete e della fame, per rivelarci e trasmetterci il suo amore. L’uomo, tutti gli uomini, ha aspirazioni profonde tali, che finché non saranno soddisfatte, non si sente in pace, non si dà pace. Continua a cercare, ma cerca in direzioni illusorie e rischia di aumentare continuamente la propria «sete» e la propria «fame»! Isaia interviene proprio su questo punto: con una domanda retorica ci aiuta a vedere l’incongruenza di chi fatica e spende per cose che non sono quelle che soddisfano il nostro cuore. Soltanto Dio, nostro Padre, sa che cosa ci riempie e ci dà gioia. Ed ecco l’invito a correre da lui, senza preoccupazione, senza incertezze. Vicino a lui possiamo godere quella pienezza d’amore che riempie il nostro cuore.

La folla che segue Gesù s’accorge di essere sulla strada giusta, quella che porta alla vera gioia, alla soddisfazione profonda, perché Gesù è la presenza di Dio, dell’amore di Dio. Persino i malati si fanno portare da lui, perché percepiscono che è lui la sorgente della salute. Lo sguardo del Signore, ogni sua parola, i suoi gesti, il suo respiro, la sua ombra attirano le persone semplici, perché tutto quello che è di Gesù è amore, è dono di Dio, è grazia, è pienezza di vita per noi. Egli anzitutto, accorgendosi della sete spirituale della gente che lo segue, gente che è in balìa di se stessa, gente che non ha nessuno che la istruisca e che l’ascolti e che la ami, comincia a donare loro parole sapienti. E poi accetta le loro domande e li ascolta e guarisce coloro che sono stati devastati dalla malattia. E siccome essi stanno con lui tutto il giorno, egli pensa anche alla loro fame. Gesù è davvero un buon pastore: si cura di tutta la sofferenza di coloro che si affidano a lui. Egli non accetta la proposta dei suoi discepoli, che gli suggeriscono di lasciare che tutti si arrangino. No, il pastore guida le pecore proprio quando sono affamate. E non accetta che il problema sia risolto con il denaro: questi è suo nemico, quando si insinua come padrone nel cuore dell’uomo: “Voi stessi date loro da mangiare”. Mettiamo a disposizione di Gesù quel poco che possediamo, e lui lo farà bastare per tutti. Se il nostro cuore ama con il suo, possiamo assistere ai prodigi dell’amore del Padre. Gesù interpella il Padre, che è davvero padre. La folla può sedere sull’erba e attendere: i discepoli stessi si fanno servi di tutti. Gesù vuole che essi imparino a servire e che la gente si lasci servire dai suoi essi. Il nutrimento vero per l’uomo viene da Gesù per le mani dei suoi, e Gesù lo prende dal cuore del Padre, che egli interpella con il suo sguardo rivolto in alto e con la sua preghiera e benedizione.

I discepoli raccolgono pure gli avanzi, cosicché anche in futuro tutti sapranno dove andare quando avranno fame, tutti sapranno a chi ricorrere per cercare la vita: la cercherai dalle mani dei discepoli di Gesù!

Il vangelo di oggi ci rivela il volto del Signore: egli è il buon pastore, egli è la compassione di Dio per ogni nostra necessità. Egli è il capo della Chiesa, la quale continua a donare la sua parola agli uomini per loro nutrimento, ma continua pure a tenerli uniti e a donare il vero riposo e a difenderli da chi cerca di ingannarli. La Chiesa è custode di quelle dodici ceste a cui tutti possiamo attingere, ma vi attingeremo sempre con quell’umiltà che sa chiedere e attendere il proprio nutrimento dalle mani dei dodici apostoli. La Chiesa ci tiene uniti al suo capo, a Gesù: è da lui che non vogliamo mai essere separati e che nessuno potrà separarci. Cosa faremo se ci lasceremo separare dal nostro Signore? Nessuna tribolazione, nessuna sofferenza, nessuna minaccia può impedire a Gesù di amarci e potrà impedire a noi di restare con lui. Così dice San Paolo scrivendo la sua lettera ai Romani.

Continuiamo a guardare a Gesù, e continuiamo a nutrirci della sua Parola e del suo pane: lo troveremo sempre nella sua Chiesa. Egli stesso non ha voluto dare personalmente il pane alle folle, ma lo ha voluto distribuire tramite i suoi apostoli, così ci assicura che la sua grazia e la sua bontà restano legate indissolubilmente alla sua Chiesa. Siamo fieri di appartenerle, ma con umiltà, perché bisognosi e deboli. Nostra unica ricchezza e nostra unica gioia è lui, il Signore Gesù.

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19ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura 1Re 19,9.11-13 dal Salmo 84 2ª lettura Rm 9,1-5 Vangelo Mt 14,22-33

 

Chissà cosa hanno pensato i discepoli, quando Gesù li ha costretti a salire in barca senza di lui. Perché egli è rimasto a terra? L’evangelista ci lascia intuire la preoccupazione del Maestro. Egli si fermò a congedare la folla che aveva mangiato a sazietà con i cinque pani, e impedì che lo facessero i discepoli. Essi avrebbero dovuto affrontare una tentazione molto forte, e chissà se l’avrebbero superata! Erano stati loro a distribuire i pani del miracolo, ma il miracolo non è stato compreso. Tutti hanno mangiato sì, è vero, ma chi ha capito il significato? Chi ha capito che Gesù è il nuovo Mosè, che dà il pane vero nel deserto del mondo, il Messia atteso e promesso? E quelli che l’avessero capito erano capaci di dirgli: «eccomi, dimmi che cosa devo fare»? Sono tutti pronti invece a insegnare a lui cosa deve fare: vogliono che si eriga a re, secondo i metodi allora in voga. L’evangelista Giovanni lo dice espressamente: venivano a prenderlo per farlo re. Gesù non vuole che i suoi discepoli siano tentati dalla vanagloria, o dall’ambizione, e si mettano dalla parte della gente. Per questo li costringe ad andarsene in barca. La folla non li deve condizionare. Essi devono imparare a compiere del tutto gratuitamente le opere di Dio, senza sperare di essere calcolati grandi e importanti. Eccoli soli sulle acque del lago. E Gesù? Egli è solo sul monte, e là prega, cioè sta in ascolto del Padre e si offre a lui. È lui che gli deve dire cosa fare perché l’uomo deve vivere “di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Gesù si ferma a dichiarare la propria obbedienza al Padre: questa è la sua preghiera. Egli vuole veramente essere e rimanere figlio obbediente.

I discepoli hanno il vento contrario, cioè, detto con linguaggio biblico, sono dominati da uno spirito negativo; sono sbattuti non solo esteriormente dal vento, ma anche nel loro intimo la tentazione li agita e li oscura, come la notte in cui sono immersi. Gesù infatti non è con loro. E quando lo vedono venire verso di loro non lo riconoscono. Pensano ad un fantasma. Proprio come noi, quando siamo tentati dal maligno: la presenza di Gesù ci appare nemica, e non sappiamo il perché. Egli cammina sull’acqua, là dove e come nessuno aveva mai fatto. È apparentemente coraggiosa la domanda di Pietro, ma altrettanto ingenua: “Se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. Il vento continua a soffiare, il buio continua ad essere una minaccia. L’invito arriva e Pietro si muove, esce dalla barca e posa i piedi sull’acqua infida. La meraviglia sua e degli altri è grande: anch’egli può camminare là dove nessuno mai ha camminato.

Quante volte obbedendo a Gesù abbiamo fatto cose che non ci saremmo mai sognati di fare! Ubbidendo a Gesù abbiamo portato l’amore in ambienti difficili, abbiamo perdonato peccati pesanti, abbiamo donato la Parola di Dio a persone che non ne hanno mai voluto sapere, abbiamo superato difficoltà insuperabili pur di dare un contributo al regno di Dio.

Il vento continua a contrariare il cammino di Pietro, e questi prende paura. Dimentica di essere in obbedienza a Gesù e si lascia impaurire. L’acqua non è più solida, egli sprofonda. La preghiera gridata nella paura lo salva, perché Gesù la ode e si lascia impietosire. Egli però non fa mancare un benevolo rimprovero al discepolo, ormai tutto bagnato: ha mancato di fede, ha dubitato della sua parola e così la paura gli ha impedito di continuare ad obbedire e di continuare a camminare.

Il brano termina con la dichiarazione di fede di tutti gli altri apostoli: “Tu sei il Figlio di Dio”! Essi si accorgono che Gesù è Dio, ne sono ormai testimoni. Gesù ha fatto ciò che solo Dio può fare, dominare il vento e il mare. Egli l’ha fatto in modo che soltanto essi potessero accorgersene, nella notte. Egli sa che Dio agisce nel silenzio. Lo sa dall’esperienza di Elia, che sul monte si sarebbe aspettato la manifestazione di Dio attraverso il vento impetuoso, attraverso il terremoto, attraverso il fuoco, ma nulla. Dio non vuole imporsi a nessuno. Egli si manifesta nel “sussurro di una brezza leggera”. Elia deve comprendere che Dio è mite, e rispetta la piccolezza dell’uomo. La rispetta talmente che la maggioranza del popolo non riconosce Gesù come suo Figlio, e continua ad attendere la venuta di un Messia potente. San Paolo manifesta la sua sofferenza per questa chiusura del suo popolo, e vorrebbe lui stesso soffrire la maledizione di Dio purché tutto il popolo accolga Gesù come salvatore. Facciamo nostro il forte desiderio di San Paolo per il nostro popolo: trasformiamo questo desiderio in preghiera continua, perché tutti incontrino Gesù, che cammina anche nella notte di chi nemmeno l’aspetta.

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20ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura Is 56,1.6-7 dal Salmo 66 2ª lettura Rm 11,13-15.29-32 Vangelo Mt 15,21-28

 

La liturgia di oggi è una porta aperta a coloro che non credono, che non conoscono Dio Padre e non hanno ancora alcun rapporto col Figlio Gesù, e quindi nemmeno con la sua Chiesa.

San Paolo mette a confronto il popolo di Dio, il popolo ebraico, destinato alla salvezza, con gli altri popoli, i pagani. Si rivolge proprio a loro chiamandoli “genti”, come erano chiamati i popoli diversi dall’unico popolo eletto. Dice alle persone di questi popoli giunte alla fede: voi eravate disobbedienti a Dio, lontani da lui, ed egli ha avuto misericordia di voi grazie alla morte di Gesù; ora anche il popolo eletto è diventato disobbediente, infatti ha dato la morte a colui che con quella morte vi ha salvati. Dio avrà misericordia anche di questo popolo disobbediente, come è stato misericordioso con voi. Anch’essi lo conosceranno come Dio misericordioso! Egli attirerà anche il suo popolo ad aderire al suo Figlio diletto.

I profeti, in particolare Isaia, guardano con benevolenza i popoli stranieri e proclamano che Dio vuole colmarli del suo amore. Il popolo ebraico è stato eletto proprio in vista della salvezza di tutti i popoli. Compito del popolo d’Israele è attirare a Dio tutti, portarli tutti nella sua casa di preghiera, nel suo tempio, perché tutti lo incontrino e così tutti godano della sua bontà. Quando avverrà questo?

La risposta è nel brano evangelico. Gesù sa di essere mandato solo per “le pecore perdute della casa d’Israele”, ma una donna, proveniente da un altro popolo, si avvicina a lui e non lo lascia finché non l’abbia ascoltata. È pagana, ma manifesta una fede in Gesù tale che egli stesso l’ammira. Se la fede è già presente in lei, egli non la può allontanare: ella si trova già nel cuore di Dio. I pagani cominciano ad aggrapparsi all’ebreo Gesù per farsi portare al Dio della vita e della pace. Gesù compie il miracolo chiesto dalla donna: è un segno, il segno che con lui inizia un’epoca nuova, quella in cui tutti, proprio tutti, trovano accesso al cuore del Dio dell’amore e della misericordia.

La fede di quella donna è piaciuta a Gesù: era fede in lui, sicurezza che egli ha l’autorità divina di vincere il demonio, quello che stava rovinando la vita di sua figlia e portava alla rovina anche lei. Era una fede umile: la donna non si è ribellata alle parole di Gesù che facevano riferimento ai modi di dire normali degli ebrei, sprezzanti di chi non apparteneva al loro popolo; “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. I figli sono gli ebrei, i cani tutti gli altri. Con un vezzeggiativo Gesù addolcisce la parola che poteva apparire offensiva. La donna non solo non si offende, usa invece la stessa parola per rispondere ed esprimere la propria fiducia in lui.

Gesù è con noi per tutti. Noi dobbiamo guardare con simpatia tutti, anche quelli che non condividono ancora la nostra fede. Guardiamo con simpatia atei e non credenti, membri di altre religioni, musulmani, induisti e confuciani. Quando essi conosceranno Gesù e lo invocheranno sapranno esprimere una fede più profonda e intensa di noi. Quante persone ci sorpasseranno nel cammino verso il nostro Signore! Non li invidieremo, anzi, saremo contenti di trovare in essi dei fratelli.

Nell’attesa di questi piccoli e grandi eventi cerchiamo di non perdere tempo: ameremo Gesù, lo guarderemo con desiderio di ubbidirgli per fargli far bella figura, in modo che molti lo avvicinino senza paura. Cercheremo di praticare la nostra fede con maggior intensità, per la gioia del Signore stesso, per crescere pure noi verso la sua statura di figlio obbediente, per essere noi, col nostro amore, un’attrazione, un segno che aiuta tutti gli uomini a scegliere Gesù come Signore e Maestro!

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ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

1ª lettura Ap 11,19a; 12,1-6a.10ab dal Salmo 44 2ª lettura 1 Cor 15,20-26 Vangelo Lc 1,39-56

 

Maria è assunta in cielo; esultano le schiere degli angeli, alleluia! Così cantiamo prima di ascoltare il vangelo. E noi aggiungiamo che non esultano gli angeli soltanto, ma anche noi con loro e più di loro! Essi esultano perché arriva a loro la Regina, quella di cui il salmo proclama: “Il re è invaghito della tua bellezza. È lui il tuo signore: rendigli omaggio”. La regina è la gioia e il vanto del re: con il re gioiscono tutti i suoi sudditi. Oggi partecipiamo alla gioia di Dio per Maria: il Padre, che si è compiaciuto del Figlio, non può non compiacersi di colei che lo ha amato e portato nel mondo. Noi perciò possiamo continuare a ripetere le parole di Elisabetta: “Benedetta tu fra le donne…! Beata colei che ha creduto!”. Lodando Maria facciamo eco alla gioia del Padre e a quella del Figlio, che dalla madre è stato aiutato a Cana di Galilea e consolato ai piedi della croce. Siamo partecipi pure della gioia dello Spirito Santo, che ha visto la Madre in preghiera insieme agli Apostoli, quando lo attendevano a Gerusalemme nel cenacolo. La festa di oggi è la festa degli angeli e dei santi perché è la festa di Dio. Egli gode di far vedere a noi a quali altezze ci attende, dove ci vuol portare, perché dove è la Madre, là sono attesi i figli.

Maria partecipa alla esaltazione del Figlio suo, nostro Signore. Ella ci mostra la strada di tutta la Chiesa. Dopo le varie persecuzioni che questa deve attraversare e superare nelle varie vicende del mondo, sarà attesa nella gloria. Il libro dell’Apocalisse ci narra la situazione della prima Chiesa, che ha dovuto davvero fuggire nel deserto per difendersi dalla violenza della persecuzione. La Chiesa è stata più volte sull’orlo della distruzione perché l’enorme drago le si pone davanti per portarle via il Figlio, come lo voleva portar via alla Donna Madre. Ma Dio prepara sempre un rifugio. Noi pure viviamo un periodo molto difficile per la nostra fede, per l’unione della nostra Chiesa, per la salvezza delle nostre comunità. Non disperiamo nè ci scoraggiamo, perché questa è la strada che tutti i nostri fratelli nel passato o in altri luoghi del mondo condividono con noi. Le difficoltà per la nostra fede non sono nuove e non sono scoraggianti, perché sono prove che ci permettono di manifestare il nostro attaccamento al Figlio di Dio, Figlio di Maria, e di essere perciò la gioia di lei e del Padre.

Dimostrando la nostra fedeltà al Signore Gesù, anche noi potremo continuare a cantare il cantico di Maria: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore”. E ancora potremo dirci gli uni gli altri e trasmettere ai nostri figli la certezza che non sono la potenza del mondo, nè la superbia, tantomeno la ricchezza, a darci vita, a tener salda la gioia, a renderci fratelli gli uni degli altri. Saremo per primi disposti a lasciar perdere le nostre cose, i nostri diritti, pur di non perdere l’umiltà del cuore e la misericordia per chi ci sta vicino. Questo è l’insegnamento che Maria continua a proclamare col suo cantico. Alla sua scuola sapremo vivere nel mondo non seguendo i modelli vuoti che ci vengono proposti, ma i suggerimenti interiori dello Spirito Santo. Vivremo non come tutti, ma come lei, che ha tenuto davanti al suo sguardo quale meta la beatitudine del cielo.

Maria, assunta a dimensioni divine, sa prenderci per mano e guidarci con sicurezza ad ascoltare il Figlio suo e ad “adorare il Padre in spirito e verità”! Qui sulla terra non avremo paura e non ci lasceremo prendere dalla tristezza fin che il nostro cuore riposa su quello della madre. La prenderemo come maestra di preghiera, ruminando il rosario e ponendola al centro della nostra casa per raccoglierci attorno a lei a ricordare i misteri della vita del suo Figlio. Nelle nostre famiglie ella sarà la Regina, che attira su di noi e sulla nostra famiglia lo sguardo compiaciuto del Padre e di Gesù!

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21ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura Is 22,19-23 dal Salmo 137 2ª lettura Rm 11,33-36 Vangelo Mt 16,13-20

 

Il profeta Isaia ci narra un cambiamento voluto da Dio tra i funzionari del regno di Ezechia. Il maggiordomo Sebna viene destituito e il suo potere affidato ad Eliakim. Quel potere è chiamato «chiave», chiave che apre e chiave che chiude. Nessun altro avrà una chiave uguale a quella: è un potere unico per tutta la casa, o, meglio, per “la casa di Davide”, cioè per tutto il popolo. Colui che riceve questa chiave viene paragonato pure ad un piolo ben fissato al terreno, inamovibile. Ascoltando il vangelo comprendiamo che il fatto descritto dal profeta è una profezia di quanto avviene nei dintorni di Cesarea di Filippo, città dove Gesù si è recato con i suoi discepoli. Questa città, fondata da poco, si trova all’estremo nord della Palestina, un luogo confinante con popoli pagani, famosa per i suoi templi che attiravano pellegrini ad adorare quelle divinità contro le quali a suo tempo si era scagliato il profeta Elia. Uno di quei templi era dedicato addirittura all’imperatore di Roma, Augusto Cesare: uno schiaffo in faccia agli ebrei dei dintorni. Gesù non ha paura a recarsi proprio in quella regione, dove pure scaturivano le acque del fiume Giordano, tanto significativo per la storia del popolo e della sua salvezza. In questo luogo, dov’è difficile vivere la fede di Abramo, Gesù porta i discepoli. E proprio qui li interroga per sapere fino a che punto la sua persona ha incidenza nella loro vita.

Chi dice la gente che sia il Figlio dell’uomo?”, questa la prima domanda. I discepoli devono conoscere la gente e sapere cosa c’è in fondo al loro cuore e in che rapporto stanno con lui. Da questo si renderanno conto se possono essere in comunione con loro. Tutti i discepoli sanno rispondere, perché tutti odono i discorsi della gente. Gesù è ritenuto uno dei profeti risuscitato dai morti. La gente pensa davvero bene di Gesù, ma non lo ha capito. Se è uno dei profeti, benché risuscitato, si sa già tutto di lui e lui non ha nulla di nuovo da dire. Quelli che credono così non cercheranno Gesù per imparare o per orientare diversamente la propria vita: essi sanno chi sono stati e cos’hanno detto e fatto i profeti, quindi ritengono di conoscere abbastanza Gesù.

Ma voi, chi dite che io sia?”. È la seconda domanda, più impegnativa. Risponde solo uno, Simone, il pescatore. La sua risposta è novità: “Il Figlio del Dio vivente”! Gesù capisce che una risposta del genere non può essere la conclusione di un ragionamento, ma è un dono di Dio, che vuol far conoscere il Figlio agli uomini. Gesù esprime la sua gioia e meraviglia per questa parola di Simone. Questi lo conosce davvero, e su quella Parola che manifesta la sua divinità può fondare il nuovo popolo, quello che porterà a compimento il compito affidato al popolo d’Israele, compito che non è stato mai realizzato a causa dell’infedeltà dei capi. Gesù quindi passa le chiavi del regno di Dio dal popolo d’Israele al nuovo popolo, che egli, come edificio, appoggia sulla roccia delle fede vera. Le chiavi vengono date al “maggiordomo” di questo nuovo edificio, cosicché egli possa aprire e chiudere: Dio stesso accetta e sancisce quanti egli deciderà.

Simone riceve un nome nuovo da Gesù, il nome che si addice alla fede da lui professata davanti a tutti, fede che sarà fondamento sicuro per i credenti. Questo non è ancora il momento di diffondere a tutti la conoscenza di Gesù che Pietro ha manifestato. Gesù dovrà spiegare il significato del titolo “Figlio dell’uomo” con cui si autodefinisce, altrimenti sarà frainteso. “Figlio dell’uomo” è il titolo che il profeta Daniele dà a colui che regnerà su tutti i popoli, ma soltanto dopo esser passato per la tribolazione.

Noi intanto ammiriamo non tanto la fede di Pietro, quanto Gesù stesso, che passando per la morte sarà esaltato nella risurrezione. Ammirando questo mistero diremo con San Paolo: “O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! … Chi mai è stato suo consigliere? … A lui la gloria nei secoli.

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22ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura Ger 20,7-9 dal Salmo 62 2ª lettura Rm 12,1-2 Vangelo Mt 16,21-27

 

Il vangelo di oggi è la continuazione dell’episodio proclamato domenica scorsa. Gesù si trova con i discepoli nella regione della Galilea attorno a Cesarea di Filippo. Egli ha chiesto loro quale idea si erano fatti di lui e ha ammirato la risposta di Simone, tanto da dargli la missione più importante. Per questo gli ha pure attribuito il nome nuovo, Pietro, usando per lui l’immagine delle chiavi, ad indicare il suo ruolo nel regno di Dio. Ed ora, ancora lontano dalle folle, il Signore preavvisa i suoi della sua sorte. È volontà di Dio che vada a Gerusalemme, dove già è forte l’inimicizia contro di lui da parte delle persone più ragguardevoli e più influenti. Là egli avrà da soffrire e da affrontare una morte violenta, ma poi ci sarà la risurrezione. Questa parola è quasi nuova e passa inosservata, benché gli apostoli stessi l’avessero usata per riferire il pensiero della gente riguardo al Maestro: egli è ritenuto uno dei profeti che è risorto!

Questa rivelazione di Gesù è troppo strana. Un uomo come lui, pieno di amore, le cui azioni manifestano l’onnipotenza di Dio, potrà essere rifiutato da chi guida le sorti del popolo amato e preferito da Dio? Perciò Pietro, ora che è stato ammirato da Gesù, si sente in diritto e in dovere di fargli la sua osservazione. Da discepolo diventa maestro del suo Maestro: non prende sul serio ciò che ha detto e inizia a rimproverarlo. Questo è il modo di fare più comune, e spontaneo. Non possiamo criticare Pietro… perché noi siamo come lui. Vorremmo sempre la via facile, perché siamo animati da buone intenzioni e cerchiamo di operare il bene. Non accettiamo facilmente che la via difficile e segnata dalla croce sia preparata per le persone «buone», ma sono esse che sono in grado di percorrerla. Gesù si accorge che la reazione di Pietro asseconda la tentazione che egli aveva già affrontato e vinto nel deserto. Perciò gli ripete quanto allora aveva detto a Satana: “Vattene…” e a Pietro: torna al tuo posto, dietro a me, non metterti davanti a me: è il posto di Dio Padre.

Questo è il momento adatto per dire a tutti i discepoli una verità scomoda. Dietro a Gesù c’è posto solo per chi sa e vuole rinnegare se stesso, cioè per chi smette di pensare a se stesso. Chi continua a preoccuparsi di sè, della propria salute e della propria bella figura, del proprio benessere e della propria soddisfazione, non può stare con lui: non sarà in grado di occuparsi del regno di Dio nè della salvezza eterna delle anime, nemmeno della propria. Dietro a Gesù c’è posto soltanto per coloro che portano una croce, e così gli somigliano.

In tal modo stanno con Gesù solo coloro che lo amano in modo del tutto disinteressato, coloro che sono innamorati di lui. L’esempio ce lo dà il profeta Geremia, che si sente conquistato, addirittura sedotto, da Dio, e non può che ubbidire a lui, benché quest’obbedienza gli provochi inimicizie da tutte le parti. Egli vorrebbe evitare la sofferenza, ma l’amore che lo ha invaso non resiste, deve impegnarsi per Dio anche se tutti gli uomini gli si mettono contro. Questo fuoco presente nell’intimo di Geremia è la più bella profezia per Gesù e anche per i suoi discepoli.

E San Paolo ripete con altre parole l’insegnamento di Gesù, formulando la bella esortazione: “Vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”. Offrire i corpi in sacrificio è l’atto di amore più grande, l’atto di amore che ci fa somigliare al Signore, che ci immerge nel suo amore e così rende perfetta e piena la nostra vita. Quest’offerta ci distingue dal mondo che ci circonda, ci fa essere un segno profetico, e quindi una dono per la conversione del mondo. La prima conversione la viviamo noi, pensando al modo di Dio e non al modo, sempre egoistico, degli uomini, di quell’uomo che noi stessi portiamo dentro. Quando smettiamo di pensare a noi stessi saremo capaci di pensare alle cose di lassù, di essere attratti e conquistati dall’amore del Padre realizzato nella persona del Figlio e diffuso dallo Spirito Santo.

Ci offriamo a Dio per continuare il nostro cammino di conversione. La nostra vita diverrà luce e fonte di pace!

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23ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura Ez 33,7-9 dal Salmo 94 2ª lettura Rm 13,8-10 Vangelo Mt 18,15-20

 

Gesù sa che siamo peccatori, e non se ne meraviglia. Egli ci suggerisce, nel caso ci accorgessimo del peccato del fratello, come dobbiamo fare per rimanere nell’amore e nella verità. Per prima cosa, se c’è un peccato non dobbiamo chiudere gli occhi e far finta che non ci sia. Ogni peccato porta con sè conseguenze di male, di sofferenza e di disordine che genera altro male e altro peccato. Ogni peccato va sradicato. Il peccatore però va amato e aiutato ad accorgersi che sta diventando fonte di dolore e di sofferenza per qualcun altro o per la società intera. Se aiutato, quel peccatore può cambiare il suo orientamento, correggersi, e diventare benedizione per i fratelli. Se invece chi si accorge del male sta zitto, può diventarne complice, perché colui che pecca può percepire il silenzio di chi gli sta vicino come approvazione. Il profeta Ezechiele dà un insegnamento chiaro in questa direzione.

Gesù vuole aiutarci a correggere senza dubbio il fratello, ma con amore, con tutto l’amore possibile. Per questo insegna ad agire con delicatezza e progressione. Prima di tutto si deve parlare a tu per tu, non divulgare l’errore o la colpa del fratello: questi potrebbe rimanere offeso e danneggiato dalla eventuale indiscrezione. Solo nel caso non accettasse l’ammonimento, si rivelerà la cosa a qualcun altro che aiuti a fargli notare la sua colpa: forse una terza persona sa usare parole più convincenti, o è più umile nell’intervenire. Se anche questo tentativo andasse a vuoto, allora si deve rivelare la cosa a tutta la comunità, che interverrà con un’autorevolezza maggiore. Nel caso che il fratello s’inorgoglisse al punto da rifiutare l’avvertimento di tutta l’assemblea, allora deve essere considerato da tutti come un estraneo e deve essere escluso dalle riunioni e dalle celebrazioni. Delicatezza, ma con serietà e fermezza. Noi abbiamo imparato, anche se non sempre, la gradevolezza, per paura di violare la vita privata dei cristiani. Abbiamo imparato meno la serietà, col rischio del diffondersi, non solo di comportamenti peccaminosi, ma anche di mentalità che ignorano le verità della fede.

L’insegnamento di Gesù continua affidando ai suoi apostoli l’autorità di legare e sciogliere. Quanto essi stabiliscono, è importante anzitutto per Dio stesso: le loro decisioni saranno fatte sue. “Sarà legato in cielo… sarà sciolto in cielo”, dice con sicurezza il Signore. Come devono essere attenti i discepoli a lasciarsi ispirare solo dallo Spirito d’amore del Padre! E come devono essere obbedienti i fedeli e aperti ai loro pastori! Nella Chiesa dev’esserci comunione e obbedienza, così da sperimentare l’amore e l’onnipotenza di Dio. Gesù infatti assicura che il Padre premia coloro che si uniscono nel nome di Gesù, cioè nel suo amore.

La conclusione del brano che ascoltiamo oggi è fonte di consolazione e di sicurezza: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”. Gesù ci ama e gode di essere con noi e addirittura in mezzo a noi: quando ci uniamo per obbedirgli e amarlo, eccolo, egli stesso è presente. Dove egli è presente può compiere i suoi prodigi. Vogliamo vederli? Cercheremo di unirci per amor suo, per causa sua, per realizzare insieme qualche sua parola. Egli agirà, egli esaudirà, egli ci farà le sue sorprese!

Questa promessa di Gesù vale per tutti, vale in particolare per gli sposi, che si sono uniti con la sua benedizione e con la sua Parola. Essi dovranno tener presente sempre questa promessa, e sarà loro gioia coltivare l’unità e la comunione nel nome di Gesù. Non mancherà tra di loro la preghiera e l’aiuto reciproco ad obbedire a lui, ed egli li fornirà quotidianamente di fortezza, di fedeltà, di ispirazioni sante per condurre anche i figli alla sua salvezza.

Oggi ci aiuta pure San Paolo a guidare il nostro comportamento sempre con il volante dell’amore: debito continuo è l’amore, mai esaurito. L’amore condensa in sè tutti i comandamenti. Chi li osserva esercita vero amore. L’amore ci tiene lontani dal peccato e ci porta a chiedere perdono e ad accettare le eventuali correzioni dei fratelli. L’amore ci aiuta ad osservare i fratelli con attenzione e ad accoglierli nella misericordia nostra e in quella del Padre!

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24ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura Sir 27,30 - 28,7 dal Salmo 102 2ª lettura Rm 14,7-9 Vangelo Mt 18,21-35

 

San Paolo sta per concludere la lettera ai Romani. Ora dice loro una grande verità che riguarda la vita di tutti i credenti: “Nessuno di noi vive per se stesso”. Chi crede davvero in Dio, e non fa della fede soltanto un vestito esteriore per essere ritenuto dagli altri un buon cristiano, sa che questa è la verità. Chi risponde alla chiamata di Gesù e accoglie l’amore del Padre, chi gode della presenza dello Spirito Santo nella propria vita, costui non ricorda più cos’è l’egocentrismo. Non viviamo per godere i piaceri della vita e non viviamo per farci vedere belli e buoni dagli altri. Viviamo per dar gloria a Dio, per diffondere il suo amore, per portare la sua sapienza alle menti e ai cuori di tutti, affinché tutti possano vivere la pace e la gioia della comunione fraterna, inizio di paradiso! “Nessuno di noi vive per se stesso”, perché questa non sarebbe vita, ma inizio di una esistenza senza gioia, senza motivazioni, senza significato capace di far superare le difficoltà e le fatiche. “Se noi viviamo, viviamo per il Signore”: il nostro vivere è dono che riceviamo dal Padre, e quindi chiediamo a lui per qual motivo ci ha creati e cosa si aspetta da noi. Il Padre poi ci ha donato il Figlio suo, Gesù, come vita nostra e come fondamento per ogni attività: viviamo per lui! E, misteriosamente, sgorga e cresce la gioia nel nostro cuore. La stanno sperimentando quei giovani e non giovani che cominciano a prendere sul serio proprio Gesù! San Paolo continua dicendo pure che “moriamo per il Signore”. La nostra vita fino alla fine trova la sua gioia nel Signore, tanto che la morte non la blocca e non incide su di essa. Anzi, la morte stessa del credente porta alla perfezione il suo amore: il credente infatti fa della morte l’offerta più matura della vita, l’atto d’amore pieno, il sacrificio ultimo e completo.

Vivendo per il Signore il credente non ha più remore a vivere come lui insegna. Uno degli insegnamenti più grandi e per il quale ci sono nell’uomo le tentazioni più grandi è quello che riguarda il perdono. Gesù sa che anche i suoi discepoli non saranno del tutto esenti dal peccato, e che il peccato diventa peso e sofferenza per altri, e che questi avranno difficoltà a perdonare. Egli approfitta di una domanda di Pietro per donare il suo pensiero a lui e a tutti gli altri discepoli. Pietro, quasi vantandosi della sua intuizione, chiede se si può arrivare a perdonare sette volte. Egli pensa forse di essere addirittura più generoso del suo Maestro! Ma Gesù lo smonta subito: il numero sette in questo caso non è il massimo, può essere moltiplicato col numero settanta. In questo modo nessuno è più capace di contare… e praticamente finirà col perdonare sempre. Il cuore non deve tenere in sè mai nessun tipo di rancore, odio, vendetta. Il cuore è fatto per il Signore e deve contenere solo e sempre il suo amore. Gesù usa una parabola per far desistere chiunque da ogni eventuale obiezione. La parabola non ha bisogno di commento: chi è perdonato o condonato da debiti immensi è ovvio che a sua volta perdona o condona con gioia sia le bazzecole quotidiane che cose anche più gravi. Se chi è perdonato da Dio non riesce a perdonare a sua volta un fratello, è segno che di Dio non ha nessuna stima: non lo vuole imitare! Il perdono del Padre non avrà alcun effetto sul cuore di chi a sua volta non perdona: questi rimarrà nella sua condanna.

La pagina del Siracide che abbiamo sentito è sfondo e forse ispiratrice dell’insegnamento di Gesù. “Un uomo che resta in collera verso un altro, come può chiedere la guarigione al Signore? Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati? … Ricordati della fine e smetti di odiare.” Nulla è più bello del perdono e nulla rende l’uomo più grande. Il perdono è il culmine dell’amore, e, a detta di molti santi, è il segno che lo Spirito Santo è presente nel cuore. Per questo chi perdona è gradito a Dio, chi perdona è premiato da lui. Chi perdona purifica il proprio cuore e purifica il mondo, perché chi perdona è simile al Padre che sta nei cieli, ma vuole manifestarsi sulla terra. Chi perdona realizza le parole dell’apostolo: “Nessuno di noi vive per se stesso… Se noi viviamo, viviamo per il Signore”! Godiamo per ogni perdono ricevuto, e continueremo a tenerci pronti a far dono ai nostri fratelli della stessa gioia che noi abbiamo gustato. Non arrossiremo mai per aver perdonato!

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25ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura Is 55,6-9 dal Salmo 144 2ª lettura Fil 1,20-27 Vangelo Mt 20,1-16

 

Domenica scorsa San Paolo ci ha detto che noi non viviamo e non moriamo per noi stessi, bensì per il Signore. Oggi egli ci racconta la sua esperienza, o meglio ciò che “sente” dentro di sè. È meglio vivere o morire? La fede lo porta a desiderare la gioia di essere sempre con il Signore, senza gli impedimenti che la vita in questo mondo porta con sè, quindi a morire. L’amore per il Signore però si accompagna e si esprime con l’amore per i fratelli: egli perciò desidera ciò che è meglio per le comunità da lui fondate. Esse hanno ancora bisogno di lui, del suo insegnamento e delle sue esortazioni, del suo esempio e della sua presenza: perciò è disposto a rinunciare ancora alla sua gioia! Il premio più bello e più desiderabile per lui è quello che riceveranno i suoi fedeli, le sue comunità!

Noi vediamo così nell’apostolo realizzarsi la parabola di Gesù. Paolo è come colui che ha lavorato tutto il giorno e ha “sopportato il peso della giornata e il caldo”, ma non si lamenta, anzi gode che gli ultimi arrivati siano premiati e ricevano lo stesso suo stipendio. Lo stipendio del discepolo è l’essere col Signore, godere della sua presenza, del suo amore. Non si può desiderare nulla di più. Chi gode dell’amore del Signore porta in sè lo stesso suo amore per tutti gli altri, e per lui diventa gioia e premio triplicato il vedere che gli altri ricevono la stessa grazia. Chi può essere invidioso della bontà di Dio? Sarebbe davvero povero e si escluderebbe dal godere ciò che riceve. Chi gode della bontà di Dio, gode davvero, e la sua gioia aumenta a dismisura ogni volta che vede anche una piccola porzione dell’amore del Padre, non importa verso chi è diretto.

La parabola raccontata dal Signore è diretta ai discepoli perché non cadano nella stessa tentazione in cui stavano cadendo i farisei. Questi pensavano che Dio doveva essere debitore verso di loro per quel po’ che facevano per lui: purificazioni, offerta di sacrifici, digiuni, preghiere, elemosine. Ritenevano che chi fa tanto riceve tanto e chi fa poco riceve poco: in pratica essi faticano o lavorano per se stessi, nonostante dicano a parole che fanno tutto per Dio. In tal modo dimenticano che Dio è amore. Fare qualcosa per Dio-amore dev’essere soltanto amore, dimenticanza di sè, desiderio e volontà che il suo amore si diffonda. In caso contrario essi non lavorano per Dio-amore, ma per un Dio diverso, somigliante agli idoli dei pagani. Ad essi non si può far altro che dire: “Vattene, prendi il tuo e vattene”. Noi fissiamo il nostro sguardo sul Padre, che continua a cercare chi, non importa l’età, cominci un’avventura con lui. Egli cerca chi comincia a lavorare nella sua vigna, cioè ad amare insieme con Gesù, e anche riuscisse ad amare solo per pochi minuti prima di morire, riceve il premio dell’amore, riceve Dio stesso! Il Padre sarà sempre vicino a chi ha cominciato a fare ciò che fa lui, ad amare come lui, a rivelare il contenuto del suo cuore e a diffondere la luce del suo volto. Il Padre premierà vigorosamente chi lavora nella sua vigna, cioè là dove il Figlio suo si unisce ai suoi discepoli, nella Chiesa, la porzione visibile del suo Regno.

Isaia ci ha aiutati a disporci con umiltà di fronte a Dio: i suoi pensieri sono diversi dai nostri, più grandi e più profondi, più alti e più belli. I nostri pensieri sono legati alla terra e soffrono di superficialità e di poca durata, non riescono a dar gioia e nemmeno a impostare una comunione fraterna passeggera . Le nostre vie sono brevi e faticose, mentre quelle di Dio sono nuove e ricche di sorprese. E allora? Allora “Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino”. Anche il peccatore può intraprendere questa strada, anche “l’iniquo” può avviarsi alla speranza: “Ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona”. La misericordia di Dio ci raggiunge, e raggiunge chiunque faccia un piccolo passo verso di lui: ricordiamo il ladrone appeso alla croce. Proprio in quel momento Gesù ha voluto realizzare questa promessa del profeta per farci vedere il volto paterno di Dio. Quel volto lo terremo presente ogni giorno, per coltivare speranza sia per noi che per le persone che siamo tentati di giudicare e condannare. Faremo invece come fa il Padre, che desidera coprire di misericordia il mondo intero.

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26ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura Ez 18,25-28 dal Salmo 23 2ª lettura Fil 2,1-11 Vangelo Mt 21,28-32

 

La strada che ci porta a Dio è segnata dal pentimento. Noi siamo tutti incamminati dietro ad Adamo sulla strada che ci allontana dallo sguardo del Padre. E su questa strada siamo portati a pensare che i nostri pensieri e le nostre decisioni sono illuminate e persino migliori di quelle indicate da Dio. Infatti, come dice Ezechiele: “Voi dite: «Non è retto il modo di agire del Signore». Siamo davvero stolti. Dobbiamo pentirci, rivedere il nostro modo di pensare e di orientarci. Nostra bussola non possono essere le nostre comodità e nemmeno le nostre abitudini, nè i nostri ragionamenti influenzati dall’egoismo: unico segnale deve diventare la Parola di Dio. È questa che ci indica la strada del ritorno al Padre, e perciò strada di vita vera, di verità, di sviluppo armonico della nostra persona, di realizzazione autentica. Questo ritorno è possibile pure a chi fosse lontano dal Padre a causa di colpe anche gravi: ce lo dice con sicurezza il profeta Ezechiele.

Di pentimento parla pure Gesù nella parabola che indirizza ai “capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo”. Si tratta del pentimento del figlio che in un primo momento si è rifiutato di accogliere l’invito di suo padre: riflettendo, ritorna sulla decisione di rifiutare la volontà del genitore, e la esegue. Gesù lo mette a confronto col figlio che invece promette, ma non ubbidisce. La parabola è breve e immediata, tanto che tutti capiscono, ma Gesù ne fa l’applicazione per i presenti a scanso di equivoci. Colui che si pente di aver rifiutato l’invito di Dio rappresenta peccatori e addirittura prostitute. Per essi può aprirsi la porta del regno dei cieli, perché sono capaci di accogliere colui che il Padre ha mandato per la salvezza. Gesù infatti è stato ascoltato, ubbidito e amato da pubblicani e prostitute: questi stanno vicini al Re del regno! Coloro che lo stanno ascoltando invece, capi dei sacerdoti e  anziani del popolo, lo ascoltano senza accoglierlo, anzi lo stanno decisamente rifiutando. Essi si comportano con lui come si sono comportati con Giovanni Battista: non hanno accettato di pentirsi, mentre i peccatori si sono umiliati e hanno manifestato volontà di cambiamento, quando sono entrati nel Giordano sotto la sua mano.

Queste parole del profeta e del Signore ci vogliono aiutare a fare sul serio con Dio. Non bastano le belle parole, nemmeno le belle preghiere, nè le convinzioni interiori di essere a posto. Se non c’è pentimento, se non c’è umiltà, se non c’è obbedienza, il nostro camminare non è verso il Padre. Per camminare verso il Padre dobbiamo esercitare ubbidienza umile accogliendo Gesù e facendoci accompagnare da lui.

Come va accolto Gesù? La risposta viene da San Paolo. Gesù viene accolto quando decidiamo di esercitare in noi i suoi “stessi sentimenti”, che sono sentimenti di umiltà piena. Egli, che è Dio, si è fatto uomo come gli uomini, come quelli del suo tempo, come la maggior parte di loro, che erano come servi. Egli, servo dei servi, si fa ubbidiente. Per Gesù l’ubbidienza non è, come per noi, un’umiliazione, perché atto di amore! L’ubbidienza di Gesù è rivolta al Padre, ma il Padre gli manifesta la sua volontà anche attraverso gli uomini. Noi impariamo da lui. Siamo così convinti che Dio può servirsi di ciascuno dei nostri fratelli per parlarci, che ci guardiamo bene dal disprezzarne uno solo: proprio attraverso di lui ci potrebbe venire la voce di Dio nostro Padre. “Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso”: questa la strada percorsa da Gesù e indicata a noi come la via della carità, via che porta alla gioia piena. Non cerchiamo perciò il nostro interesse, bensì la vita e l’armonia di tutti.

Dio Padre ha esaltato il Figlio proprio per la sua obbedienza esercitata con umiltà. Noi pure lo esaltiamo piegando le nostre ginocchia davanti a lui, proclamando che è il “Signore” di tutto e di tutti, e soprattutto vivendo i suoi stessi sentimenti. In tal modo diventiamo quel figlio che dà gioia al Padre, perché pur avendo spesso fatto il contrario di quanto ci ha chiesto, ora, tenuti per mano dal Figlio Gesù, andiamo “a lavorare nella sua vigna” con amore gioioso!

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27ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura Is 5,1-7 dal Salmo 79 2ª lettura Fil 4,6-9 Vangelo Mt 21,33-43

 

Le parole di San Paolo ai Filippesi sono un dono gradito. “Non angustiatevi per nulla”: motivi di angustia, di paura, di preoccupazione ne avevano i Filippesi, e ce ne sono sempre, a vari livelli. Ci sono pericoli continui per la nostra vita e per la nostra fede, per la comunione con i fratelli, per la pace nelle famiglie, per la libertà. Quante tensioni e quanti timori! Come facciamo a non angustiarci? Anche Gesù aveva detto ai suoi, proprio un momento prima di recarsi per l’ultima volta nell’Orto degli Ulivi: “Non sia turbato il vostro cuore”. E aveva continuato: “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me”. Dio è sempre presente ed è sempre Padre, e Gesù stesso è sempre con noi, egli che è Figlio di Dio! Se ci angustiassimo recheremmo offesa al Padre e a Gesù, alla loro presenza e alla loro promessa. Che fare quando ci sono situazioni che ci spaventano e ci mettono ansia? Rinnoveremo la fede, riprenderemo la certezza della presenza amorosa di Dio, che ha in mano la nostra storia. Metteremo davanti a lui la nostra situazione di sofferenza “con preghiere, suppliche e ringraziamenti”. Dio ascolta, Gesù prende le nostre preghiere e le presenta al Padre. Le nostre preghiere devono essere completate dai ringraziamenti, segno evidente che non dubitiamo di essere amati, di essere ascoltati, di essere già esauditi. Se Dio è Padre, e noi lo crediamo, sappiamo che egli “già ci ama”, come ebbe a dire Gesù: ciò significa che non saremo mai capaci di precedere il suo amore con le nostre preghiere. Le nostre preghiere servono più a noi che a lui, servono a noi per rafforzarci nel nostro abbandono fiducioso a lui, per manifestare il nostro amore confidente. Davvero non possiamo angustiarci. La presenza di Dio ci dà pace, una pace che viene a noi nonostante i gravi problemi che ci turbano e che la nostra intelligenza non riesce a risolvere. Dio è più grande dei nostri problemi! E il nostro cuore e la nostra mente possono continuare a guardare a Gesù per godere della sua presenza!

Apparentemente questa esortazione di San Paolo non ha a che vedere con la parabola di Gesù e con il “cantico d’amore” di Isaia. Questo profeta contempla il disegno di Dio, che avrebbe voluto che il suo popolo fosse un esempio per tutti i popoli, esempio di giustizia e di rettitudine, e invece, purtroppo, in esso prendono spazio ingiustizie e sopraffazioni. Il popolo, sul quale Dio ha profuso tutto il suo amore e per il quale ha nutrito grandi speranze, lo delude, diventa non solo inutile, addirittura dannoso, perché gli fa far brutta figura di fronte a tutti i popoli del mondo.

La stessa conclusione è nella parabola raccontata da Gesù ai capi del popolo: coloro cui fu affidata la vigna, - e per vigna tutti capiscono che s’intende il popolo d’Israele -, deludono il padrone, anzi, lo offendono pesantemente: essi non meritano che la morte. Ebbene, dice Gesù, ora Dio è in cerca di un altro popolo cui affidare i suoi progetti. Questo nuovo popolo sarà quello che si appoggia sulla “pietra che i costruttori hanno scartato”. Questa pietra angolare, scartata da quelli che sono chiamati “costruttori”, cioè i capi del popolo ebraico, è lui, Gesù stesso. Avevano deciso di trovare il modo di eliminarlo.

Noi non vogliamo eliminare Gesù: faremo anzi il possibile per tenerlo nel cuore e nella mente. Fondando la nostra vita su di lui diventiamo quella vigna di cui il Padre potrà gioire, la vigna che porta i frutti da lui sperati. Vivendo con Gesù, non permettendo ad alcuna angustia o preoccupante vicenda di lasciarcelo portar via dal cuore, diverremo attivi in quel Regno che porta frutti per la gloria di Dio: saranno i frutti dell’amore ai poveri e dell’amore ai peccatori, anche se rovinati dalla ricchezza.

Continuiamo la nostra preghiera: supplica preceduta dal ringraziamento, domanda di perdono arricchita della gioia di essere già stati molte volte perdonati, lode a Dio, che gode di essere nostro Padre! Pregando con fiducia affronteremo le nostre angustie con serenità, e la pace regnerà in noi tanto da arricchirne il nostro ambiente.

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28ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura Is 25,6-10 dal Salmo 22 2ª lettura Fil 4,12-14.19-20 Vangelo Mt 22,1-14

 

Un banchetto ricco e gioioso! Isaia profeta annuncia una festa grandissima perché si vedrà sparire ogni motivo e ogni segno di tristezza: scomparirà addirittura la morte! Il banchetto che viene preparato e offerto perciò è ricco e gioioso come non mai. È l’opera che Dio promette, dono che manifesta la sua benevolenza verso il suo popolo, nonostante l’ignominia di cui si è macchiato e continua a macchiarsi.

Gesù riprende l’immagine del banchetto per formulare la sua parabola. Questa è indirizzata ai capi dei sacerdoti e ai farisei, a quelle persone cioè che hanno già manifestato ostilità nei suoi riguardi. È importante conoscere i destinatari della parabola, per poterne cogliere il significato principale. La festa di nozze è offerta da un re per suo figlio: è significativo che non venga nominata la sposa. Parlando di un re che prepara il banchetto per celebrare le nozze, Gesù fa comprendere che siamo nei tempi del Messia, il Re figlio di Dio! A queste nozze sono chiamati coloro che sono già invitati. È chiara l’allusione: gli invitati al banchetto sono i membri del popolo d’Israele, popolo amato da Dio come una sposa è amata dal suo sposo: così affermano le Scritture. Ora essi vengono chiamati: ciò significa che è arrivato colui che realizza l’amore sponsale di Dio, è arrivato lo sposo, il Messia. Come mai gli invitati non vogliono partecipare? A loro il Messia non interessa, non lo vogliono riconoscere, non accettano che Dio li ami attraverso di lui, ritengono di poter vivere senza Dio e senza il suo amore.

Gli interlocutori di Gesù devono capire che sono proprio essi che, rifiutando lui, rifiutano l’invito di Dio. Essi hanno deciso la sua morte e attendono soltanto il momento propizio per eseguirla. Il Signore accenna anche a questo, per aiutarli a riconoscersi in coloro che meritano la distruzione della loro città. L’invito a nozze diventa così, a causa del rifiuto, l’occasione dell’annuncio di grandi sofferenze.

La parabola continua: Dio non si lascia condizionare dal rifiuto del suo popolo. Egli il suo amore vuole comunque esercitarlo, il suo banchetto vuole venga goduto: se non lo godrà il suo popolo, lo godranno gli altri popoli. “Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete invitateli alle nozze”. Il rifiuto del popolo d’Israele dà a Dio l’occasione di invitare tutti gli altri, di mostrare e donare il suo amore a tutti gli uomini, quelli che finora sono stato esclusi dalla sua presenza. Questi, “buoni e cattivi”, accettano e accolgono l’invito. Fuori parabola: i peccatori e i pagani accoglieranno l’inviato di Dio, accoglieranno Gesù. Alcuni indizi erano già accaduti: la fede del centurione di Cafarnao, quella della donna Cananea e l’accoglienza dei samaritani avevano già lasciato capire che i pagani erano pronti a dare la loro adesione al Signore. È quanto possiamo osservare anche oggi. Assistiamo talora alla conversione di persone di altre fedi che, conoscendo Gesù, iniziano una vita nuova con gioia e fortezza, nonostante il pericolo di persecuzione e rifiuto. Mentre assistiamo impotenti alla defezione di molti che abbandonano la Chiesa, altri arrivano ad essa testimoniando di aver trovato la vita e la pace in quel Signore che nella Chiesa possono servire a adorare.

La parabola di Gesù continua con un’aggiunta che pare indirizzata ai nuovi credenti più che ai farisei e agli scribi. Questa aggiunta riguarda coloro che accettano l’invito alle nozze. Come sei entrato? Tu che hai accolto Gesù salvatore, come l’hai accolto? Hai indossato l’abito nuziale che ti viene dato entrando, o sei entrato con il tuo vestito? È cambiata la tua vita quando hai accolto Gesù, o sei rimasto quello che eri? Hai deposto i tuoi vizi e i tuoi egoismi per indossare umiltà e obbedienza, amore e fedeltà? Hai deposto il tuo orgoglio per accogliere nella tua mente e nel tuo cuore ciò che la Chiesa ti propone? Se tu vuoi conservare le tue credenze, le tue varianti al credo della Chiesa, le tue abitudini di divertimenti egoistici e di piaceri carnali, se tu non accetti che nella tua vita compaia la croce, non puoi restare al banchetto: hai rifiutato il dono che Dio ti ha fatto, lo stai offendendo col tuo giudizio: egli non ti può rendere felice, se hai rifiutato la fonte della gioia.

“Il Padre del Signore nostro Gesù Cristo illumini gli occhi del nostro cuore per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati”. Alleluia!

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29ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura Is 45,1.4-6 dal Salmo 95 2ª lettura 1Ts 1,1-5 Vangelo Mt 22,15-21

 

Dio non è presente solo nel cuore di chi confida in lui e di chi crede nella sua presenza, egli è colui che guida la storia di tutta l’umanità. Persino chi non lo ha mai conosciuto e mai ascoltato, persino quei popoli che si mettono e si sono messi contro il popolo di Dio e contro i credenti, persino essi sono nelle sue attenzioni. Egli guida anche la loro storia. Le loro divinità sono solo frutto di fantasia, non realizzano nulla. Il profeta Isaia è cosciente di questa verità e osserva perciò gli avvenimenti con lo sguardo del credente: l’unico Dio, il Dio di Abramo, è il vero protagonista che guida le decisioni dei re o si serve di loro per realizzare i suoi imperscrutabili disegni. Il re persiano Ciro, col suo inatteso editto del 538 a.C., aveva permesso agli ebrei, deportati a Babilonia, di tornare a Gerusalemme dopo 49 anni dalla sua distruzione. Questa decisione del re pagano non può che essere opera di Dio, e Ciro, quindi, suo inconsapevole servitore. Non ci deve essere dunque, da parte degli ebrei, alcuna preclusione, nessun pregiudizio nei confronti delle autorità pagane: sono tutte nelle mani di Dio, che è al di sopra anche di loro.

L’episodio evocato dalla prima lettura fa da sfondo alla risposta di Gesù ai farisei. Essi infatti, lo vogliono mettere alle strette perché parli a propria condanna. Lo interrogano riguardo alle tasse. Queste sono comandate e riscosse dall’imperatore di Roma, pagano e nemico del popolo. Se Gesù dicesse che non è lecito pagarle, si rivelerebbe ostile a lui, e potrebbe quindi essere denunciato. Se dicesse che le tasse si devono pagarle, si renderebbe odioso a tutta la gente e, soprattutto, legittimerebbe un pagano ad avere autorità sul popolo di Dio: perderebbe ogni positivo influsso sulle folle. Gesù, ricordando come Ciro è stato guidato da Dio a prendere decisioni a favore del popolo d’Israele, non vede impedimenti a versare le tasse all’imperatore: anche la sua autorità è soggetta a quella di Dio. Egli perciò risponde ai suoi interlocutori sapendo di non poter essere smentito. Le tasse sono una restituzione: il popolo si serve della moneta dell’imperatore, cioè svolge i propri commerci grazie a tutta una rete di opere realizzate dall’impero, benché pagano. Gli interlocutori stessi di Gesù tengono nelle loro borse la moneta imperiale, nonostante porti la figura dell’imperatore e una scritta che per essi è chiaramente blasfema: “Tiberio Cesare, figlio del Dio Augusto”. Essi si dimostrano così idolatri. “Rendete a Cesare” dice Gesù: disfatevi della moneta imperiale, se volete essere liberi. Il denaro rende schiavi, è un padrone che si mette al posto di Dio Padre. A lui va dato tutto quello che gli appartiene: “E a Dio quello che è di Dio”. Se diamo a Dio quello che è di Dio, non ci resta più nulla, nemmeno la nostra vita, perché di Dio è la terra e tutto ciò che contiene (Sal 24,1). La nostra stessa vita è di Dio, come il denaro è di Cesare, perché è lui che “plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita” (Gen 2,7), tanto che è impressa su di noi “la luce del tuo volto” (Sal 4,7).

La risposta di Gesù non è opposizione alla politica, non è rassegnazione né è giustificazione per i vari «Cesare» del mondo. Egli ci vuole figli di Dio, donati del tutto a lui come egli stesso è, da quando Maria e Giuseppe lo hanno offerto nel tempio (Lc 2,22). Adesso che Gesù è con noi, noi siamo in grado di dare a Dio ciò che è suo: senza di lui non saremmo capaci.

Quando noi ci saremo donati a Dio, non avremo difficoltà nemmeno a pagare le tasse, perché non ci lasceremo dominare dal denaro: esso è sempre quel mammona che vuole occupare il nostro cuore, escludendo l’amore obbediente al Padre. Noi non serviamo a due padroni, ci ha anche detto Gesù. Quello che vogliamo servire è Dio, che ci ricopre con il suo amore e non ci lascia mancare nulla, come un Padre. La vita del cristiano diventerà gioia per molti, come la vita dei cristiani di Tessalonica, di cui tesse l’elogio San Paolo. Egli rende sempre grazie a Dio, perché la loro fede è ricca di frutti di amore, esercitato anche con fatica. E la loro speranza li riempie di sicurezza e di pace. Così noi, quando riconosciamo che noi stessi e tutto ciò che possediamo è di Dio. La nostra vita, ricca di frutti di amore, sarà un bene prezioso anche per la comunità nazionale, benché questa possa essere governata da persone non credenti.

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30ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura Es 2,20-26 dal Salmo 17 2ª lettura 1Ts 1,5-10 Vangelo Mt 22,34-40

 

È facile usare la parola amare. È facile, e viene usata spesso. Che cosa significa amare? Possiamo dare molte risposte, ma nessuna è più valida dell’azione. Le parole possono tacere per lasciar parlare i gesti concreti. Vediamo una mamma che nella notte si alza più volte a curare il suo bambino che piange, e non si lamenta. Osserva uno sposo che tutti i giorni alla Casa di riposo per imboccare la moglie invalida. Guarda il figlio che attende il papà ubriaco, lo accompagna con delicatezza e nasconde a tutti quanto è accaduto. Considera un fratello che, dimenticato all’epoca della divisione dei beni, invita alla festa fratelli e sorelle, senza fare osservazioni o presentare lamentele. Vedi quel giovane che continua il servizio volontario alla mensa dei poveri, mentre lo deridono e gli fanno dispetti. Puoi continuare tu… Anche la prima lettura ci ha dato alcuni esempi concreti di amore esercitato nell’attenzione ai poveri.

Hai osservato e hai visto l’amore. Hai visto gente che sa amare. Chi amano queste persone? Amano i loro parenti? Amano i poveri? Si e no: alcuni di questi gesti di amore continuato non si spiegano dicendo semplicemente che è amore agli uomini. La fedeltà e la perseveranza di queste azioni esistono soltanto perché sono sostenute dall’amore a Dio.

Amore a Dio e amore agli uomini: sono due amori che si sovrappongono. L’uno non è possibile senza l’altro. Per questo, quando Gesù è stato interrogato sul più grande dei comandamenti non ha potuto dire solo il primo, ma ha aggiunto subito il secondo.

Il più grande e primo dei comandamenti è amare Dio con tutto il cuore. È il comandamento che dovrebbe contenere tutta la nostra vita, e darle pienezza e completezza. Chi ama Dio con tutto il cuore risponde all’amore che ha ricevuto e sta continuamente ricevendo. Dio è amore, ci dice san Giovanni. Se lo vuoi incontrare, lo puoi trovare soltanto sulla strada dell’amore.

Come faccio a sapere se amo Dio? “Chi mi ama osserva i miei comandamenti” ha detto Gesù. Chi ama Dio osserva la sua parola, e la parola di Dio continua a “comandare” l’amore agli uomini. Tutti i comandamenti indicano aspetti dell’amore al prossimo nei vari ambiti di vita: onorare i genitori, rispettare la vita di tutti, godere della sessualità non seguendone gli impulsi, ma per donarsi in un amore fedele, rispettare ciò che è nelle mani altrui e i loro impegni e la loro vocazione, non discostarsi mai dalla verità, coltivare i desideri che non portano alle cose o ai sentimenti passeggeri. L’amore del prossimo ha sfaccettature e sfumature infinite, perché è lo sviluppo dell’’amore di Dio Padre: un amore che vuole essere presente in modo diverso in ciascuno dei miliardi di uomini del pianeta, e da ognuno vuole rivolgersi a molti altri in modi altrettanto diversi e personalizzati. L’amore del prossimo è testimonianza e rivelazione dell’amore di Dio. Se ami gli uomini, benché le tue possibilità siano limitate, puoi dire di onorare e adorare e rivelare veramente il tuo e loro Padre.

Ma come amare il prossimo? Per riuscire ad amarlo anche quando sei stanco, e anche quando ricevi ingratitudine come risposta, per riuscire a donare amore con fedeltà e con mitezza, per riuscire ad amare con umiltà in modo da non vantarti nè inorgoglirti della tua capacità di amare, per tutto questo devi amare Dio. E devi ricordare che il tuo amare Dio è solo una debole e flebile risposta a quell’amore che da lui ricevi.

Amare Dio non significa amare uno sconosciuto, ma amare mio Padre! Questo lo devo ricordare sempre: Dio è mio Padre, ha voluto che io venissi al mondo e mi ha coperto con le sue attenzioni. Anche qualora la mia vita fosse immersa nella sofferenza, so che Dio è mio Padre e ha già dato un significato e un valore a quanto mi succede: mi dà occasione di esercitare un amore più grande e forte. Amare Dio con tutto il cuore comporta non dividere le possibilità del mio cuore. Tutte le persone vengono dopo di lui. Agli uomini darò non l’amore che avanza, ma quell’amore che Dio stesso mi incarica di donare. Ogni mio sentimento e gesto e azione di amore sarà un’obbedienza al mio Dio e Padre, e sarà quindi una sua benedizione. Un aspetto e un dono grande di amore è perciò l’annuncio della Parola di Dio, del vangelo. San Paolo si vanta di aver annunciato il Vangelo e gode che anche i suoi cristiani lo facciano: è amore a Dio ed è il più grande amore al prossimo!

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31ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura Ml 1,14 - 2,2.8-10 dal Salmo 130 2ª lettura 1Ts 2,7-9.13 Vangelo Mt 23,1-12

 

Le prime due letture si contrappongono. Il profeta Malachia fa sentire il rimprovero di Dio ai sacerdoti, le persone più ragguardevoli tra il popolo, perché non hanno ascoltato gli insegnamenti di Dio e così sono stati di ostacolo a tutti. San Paolo, invece, con un amore disinteressato e pieno si è donato per la comunità ottenendo da essa una fedeltà esemplare a Dio: la sua Parola l’hanno ricevuta dalla bocca dell’apostolo, ma come Parola di Dio. Essi hanno ubbidito, tanto da suscitare l’ammirazione e la riconoscenza dell’apostolo stesso. Questa loro ubbidienza a Dio li lega a San Paolo e ai suoi compagni in una comunione d’amore tale da farli sentire uniti a lui come figli alla propria madre.

Ascolto e ubbidienza alla Parola di Dio è pure l’argomento dell’ammonizione che Gesù rivolge amorevolmente ai suoi discepoli. Egli sta pensando ai discepoli e quindi alla sua Chiesa, ma per essere maggiormente incisivo e compreso dai suoi, porta loro l’esempio che hanno tutti i giorni sotto gli occhi. Essi sono portati dalla loro tradizione e cultura ad ammirare e a dare molta fiducia a scribi e farisei: i primi sono coloro che hanno studiato le Scritture e le conoscono e le insegnano; gli altri fanno parte di un gruppo o congregazione di fedeli particolarmente attenti a osservare tutti i particolari delle regole religiose. Gesù aiuta i discepoli ad essere prudenti. Non basta che uno conosca le Scritture o che uno appartenga ad un gruppo fervente: per essere graditi a Dio bisogna osservare la sua Parola e vivere con misericordia e umiltà la propria vita. Da scribi e farisei perciò bisogna guardarsi, se pongono attenzione solo alla considerazione di cui godono da parte della gente e alle vesti del loro rango per alimentare la propria vanagloria. Noi abbiamo convertito questo insegnamento in un breve proverbio: l’abito non fa il monaco. Quello che appare all’esterno può ingannare. Il pericolo in cui sono caduti molti scribi e molti farisei è lo stesso in cui potrebbero cadere anche i discepoli di Gesù. Per questo egli stesso li ammonisce dicendo: “Ma voi…”. È come dire: «State bene in guardia a quanto vi passa nel cuore, ai desideri segreti di essere ammirati, messi al primo posto dagli uomini, essere considerati. Quello che conta è ciò che siete davanti a Dio». In noi dev’essere sempre presente di fatto l’amore, e l’amore è donarsi, quindi servire. Per servire bisogna considerarsi all’ultimo posto. Se gli altri usano per noi parole di ammirazione e di stima, dobbiamo fare attenzione a non inorgoglirci, ma piuttosto ad abbassarci ancora più, altrimenti quelle belle parole diventano tentazione. “Non fatevi chiamare «rabbi», … «padre», …«guide»”: così Gesù rende i suoi attenti. Noi siamo sempre a servizio del Regno di Dio, non dobbiamo pensare a noi stessi. Non importa quindi come gli altri ci considerano, quali parole usano per riferirsi a noi, quali termini adoperano per identificarci. Gli altri… possono anche adularci, possono strumentalizzarci con i bei titoli. Per questo dobbiamo sempre badare a come ci chiama il Padre e a come ci chiama Gesù, perché essi vedono sempre il cuore, non l’apparenza. Io ho imparato queste cose anche da una mia anziana parrocchiana, che al primo incontro mi disse: “Io non la chiamerò mai «Reverendo», ma col suo nome, perché «Reverendo» significa «stammi lontano»”. Quella brava donna aveva capito che i titoli possono ingannare e possono esprimere qualcosa di diverso dal loro significato. Questo non vale solo per me, sacerdote, ma anche per tutti quei cristiani che esercitano un piccolo o grande servizio nella Chiesa e appaiono quindi come su di un piedistallo.

Ho imparato a non far caso quando qualcuno mi chiama “padre”: è una bella parola, ma poi c’è un po’ di obbedienza? Se qualcuno mi chiama così io sono sollecitato ad essere attento a donare vita, cioè a donare Gesù, ma lui è disposto ad accogliere il mio dono?

Per essere un dono di Dio ai suoi figli e ai miei fratelli cercherò di tenermi nell’atteggiamento di servo, nell’umiltà, nel considerarmi inutile. Se il Signore mi adopera, lui lo sa, ed io devo umiliarmi ancora più, altrimenti la prossima volta non mi potrà più usare come strumento del suo Regno, perché a lui servono solo i piccoli. Questi sono la sua gioia, perché disponibili ad accogliere i segreti del suo cuore.

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Tutti i Santi 

1ª lettura Ap 7,2-4.9-14 dal Salmo 23 2ª lettura 1Gv 3,1-3 Vangelo Mt 5,1-12

 

“… Lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro”. La speranza di vederlo, e di vederlo nella realtà! Vedere il Padre è desiderio di tutti i figli, vedere colui che ci ama, colui che ci ha dato vita e ci ha beneficato, colui che ci attende per donarci la sua eternità! Vedere non è solo questione di aprire gli occhi, ma è piuttosto avere la certezza della presenza, una certezza che dipende dall’esperienza, dall’essersi accorti di essere stati e di essere ancora amati. Questa è la gioia dei santi: essi hanno avuto e coltivato questo desiderio di vedere il Padre: per questo hanno accolto gli insegnamenti di Gesù e si sono lasciati guidare dallo Spirito Santo, e così, oltre ad aver vissuto appoggiati sulla presenza di Dio, godono ora della comunione piena con lui. Il desiderio e la speranza di vedere il nostro Dio ha dato loro forza e decisione per purificarsi.

Senza purezza del cuore e della mente non è possibile vedere Dio: Gesù stesso ha detto “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”. I santi erano e sono uomini come tutti gli altri, eredi di Adamo. Anch’essi, come noi, da Adamo hanno ereditato inclinazioni egoistiche che provocano tentazioni di orgoglio, di sensualità, di supremazia, di ambizione e vanagloria. Anch’essi, come noi, hanno avuto o hanno bisogno di purificazione da questi moti interiori, che ci ritroviamo dentro senza cercarli e volerli.

Come hanno fatto e come fanno i santi a purificarsi? Anzitutto riconoscono di averne bisogno. L’umiltà ci aiuta ad essere veri. Siamo spesso attaccati a cose che passano, alle cose, alle case, ai campi, alle nostre capacità, e ci riempiamo di desideri e progetti. Questi poi ci rendono ansiosi e talora arrabbiati. L’ansia e la rabbia sono un segno evidente che il nostro cuore non è nel cielo, ma sulla terra, non libero da ciò che passa e non ancora legato abbastanza a ciò che dura per l’eternità. Per purificarci dobbiamo liberare il nostro cuore, cioè i nostri desideri e la nostra volontà, da tutti gli attaccamenti che creano passioni e idolatrie. Le cose passeggere si mettono al posto che dovrebbe occupare Dio in noi.

Questo lavoro di purificazione è lungo. I santi lo hanno realizzato. Essi hanno smesso di pensare a se stessi e hanno donato tutta l’attenzione a Gesù, il Figlio di Dio, “via, verità e vita”: lo hanno trattato da Signore, da sposo, da pastore e custode, si sono nutriti di lui come di pane quotidiano, si sono dissetati a lui come di acqua viva. Essi hanno cercato e accolto il suo perdono e il suo riposo, hanno chiesto e ottenuto il suo aiuto, tanto, non solo da purificarsi dall’egoismo, ma anche da rivestirsi di un amore vivo e costante per tutti, soprattutto per le persone più bisognose di amore. I santi, che stanno davanti al nostro sguardo e vicino a noi come patroni, hanno percorso la strada che noi percorriamo: vincere se stessi, donarsi a Dio, disponibili alle sue richieste di occuparci dei suoi figli. “Hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello”: senza Gesù non sono nulla nemmeno i santi. Oggi noi li invochiamo e li prendiamo ad esempio per seguire il nostro Signore sulla via del suo amore. Perché essi ci possano aiutare, noi mettiamo il nostro desiderio e decisione. Se noi non prendiamo la decisione di voler camminare verso il cielo anche la festa di oggi rimane inutile.

Coltiviamo la speranza di vedere il nostro Padre, il desiderio di vedere Dio, in modo che possa essere vera anche per noi la Parola di Gesù: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”!

Vogliamo migliorare la nostra vita? Vogliamo migliorare la nostra società? Vogliamo che essa sia un po’ più giusta e un po’ più vivibile? Vogliamo godere di qualche consolazione o essere di consolazione per qualcuno? Impariamo dai santi e coltiviamo come loro i desideri del cielo!

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32ª Domenica del T.O. - anno A 

1ª lettura Sap 6,12-16 dal Salmo 62 2ª lettura 1 Ts 4,13-18 Vangelo Mt 25,1-13 

Cercare il Signore, essere pronti per lui, investire per il regno dei cieli: questi i temi proposti dalle letture di oggi. Il salmo responsoriale esprime un nostro desiderio profondo: “O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne”! E la prima lettura, dal libro della Sapienza, risponde a questo desiderio. Dio stesso viene in cerca di noi! Egli viene pensato come “la sapienza”, mettendo in luce con questo termine uno dei frutti della sua presenza nella nostra vita. Questa sapienzasi lascia trovare da quelli che la cercano”, ed è preziosa, perché arricchisce la vita di coloro che la incontrano e che non cercano altro che lei.

Nella parabola di Gesù, le persone che vogliono incontrare il loro Dio sono paragonate alle vergini che attendono lo sposo per partecipare alla sua festa di nozze e formare il corteo con cui egli va a incontrare la sua sposa. Tutte vogliono essere partecipi alla festa, ma non tutte allo stesso modo. Alcune di esse si preparano, non vogliono dedicarsi a nient’altro, non hanno null’altro più importante da fare. Alcune invece hanno riempito il loro tempo, e quindi il loro cuore, con quella superficialità, che le ha distolte dal pensare all’incontro con lo sposo. Quando questi arriva esse non sono pronte e non hanno più tempo e modo di prepararsi. L’incontro con lo sposo della parabola e la ricerca della sapienza della prima lettura vogliono aiutarci a pensare in modo serio alla nostra vita. Essa è preziosa, è un grande dono, perché siamo destinati all’eternità: va perciò vissuta con serietà.

San Paolo ci parla di Gesù che muore e risorge per precederci e accoglierci nella sua gioia, che è quella di Dio Padre. La nostra vita qui ora è la preparazione di una vita di cui non conosciamo nulla, ma che sappiamo essere piena e gloriosa, come la vita che Gesù ha ricevuto nella risurrezione. Egli stesso ci verrà incontro per accoglierci. Egli stesso ci introdurrà alla sua festa. Non possiamo che continuare a desiderare questo incontro. Penseremo sempre ad esso, così da predisporci. Ogni nostra attività riceverà forza e luce da questo desiderio. La nostra vita non sarà vuota, non andremo in cerca di altro significato per ciò che facciamo e per le esperienze che viviamo, perché tutto sarà in vista di quell’incontro definitivo.

Attorno a noi molte persone non sanno perché faticano, perché lavorano, perché si muovono. Questa mancanza di significato di ciò che si vive crea dissipazione, malcontento, delusione, vuoto e solitudine. Noi, con il nostro orientamento sicuro a voler cercare la sapienza e ad incontrare lo Sposo, siamo di aiuto ai nostri fratelli. La nostra certezza e la nostra consolazione saranno per tutti un aiuto a vedere al di là, ad alzare lo sguardo oltre ciò che passa.

Noi stessi però dobbiamo tenerci pronti, vegliare, essere protesi a colui che deve venire. La sua venuta è sicura, benché nulla sappiamo dei tempi e luoghi da lui scelti per incontrarci. La sua venuta non dev’essere uno spauracchio per noi, perché egli viene per donarci la pienezza del suo amore, per introdurci alla festa eterna. Lo attendiamo con amore e con gioia: è l’unico modo che ci tiene svegli e preparati.

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33ª Domenica del T.O. - anno A

 

1ª lettura Pro 31,10-13.19-20.30-31 dal Salmo 127 2ª lettura 1Ts 5,1-6 Vangelo Mt 25,14-30

 La “donna forte” e l’uomo servitore “buono e fedele” sono al centro della Parola che Dio ci dona oggi. La donna forte non la si incontra tutti i giorni e il servo buono e fedele nemmeno. La donna che non perde tempo e pensa alla sua famiglia e ai poveri di Dio non dona gioia solo al marito, ma è un vanto di tutta la città. Ella è così perché “teme Dio” e non si preoccupa della bellezza passeggera e illusoria. La sua presenza e la sua opera orientano a ciò che è duraturo. Allo stesso modo il servo che non pensa a se stesso, ma ad amare e accontentare il suo padrone, dona non solo gioia al suo signore, ma anche sicurezza e stabilità a tutta la sua casa.

Gesù parla ai discepoli. Alludendo all’uomo che parte per un viaggio li prepara alla propria partenza da questo mondo. Egli parte, ma non sarà assente. Sono i discepoli stessi che con il loro impegno daranno a tutti la certezza della presenza misteriosa e del ritorno sicuro del loro Signore e Maestro.

Non tutti i discepoli posseggono le stesse capacità e perciò non avranno gli stessi impegni. Questi li decide il loro signore. Essi avranno tutti invece lo stesso amore per lui, lo stesso orientamento a non vivere per sè, ma per rallegrare il suo ritorno. Chi riceve cinque talenti da amministrare non si vanta su quello che ne riceve due, e questi non si sente frustrato perché non ha un impegno uguale al primo. Ognuno si impegna con le proprie capacità, ma serve lo stesso Signore.

Colui che non ama invece, benché riceva qualche capacità o qualche bene da curare, nasconde tutto. Egli, non appena si accorge che il padrone dei talenti è generoso con quelli che si sono impegnati per lui, cerca di difendere la propria pigrizia. In tal modo accresce la propria indegnità. Oltre che senza amore si dimostra pure senza umiltà. Il suo orgoglio lo porta persino ad accusare il padrone che gli aveva affidato il talento: lo accusa di durezza. Noi sappiamo che nulla rattrista e fa male quanto l’orgoglio.

Questa parabola è per i discepoli. Gesù li prepara alla sua partenza da questo mondo. Essi non dovranno vivere nell’apatia, nemmeno nella disperazione o nella delusione. Potranno continuare a vivere amandolo, con umiltà, e da lui riceveranno amore in abbondanza. Vivranno come se egli fosse continuamente al loro fianco. Vivranno per lui e non per se stessi. Egli li assicura del suo ritorno. Non si dimenticherà di loro e saprà apprezzare il loro impegno più di quanto essi possano attendersi.

Di questo ritorno scrive anche San Paolo ai Tessalonicesi. Chi si adagia in una vita senza pensieri, senza impegno, come se nulla dovesse accadere, verrà sorpreso da Colui che gli chiederà conto di tutto. Chi si adagia nel suo egoismo dicendo: “C’è pace e sicurezza”, come i contemporanei di Noè, si troverà nei guai. La pace e la sicurezza non si appoggiano nè sulle ricchezze del mondo e nemmeno sul proprio lavoro o sui divertimenti. Questi danno l’illusione della pace, che invece si trova nell’essere in continuo riferimento al Figlio di Dio, a Gesù! Chi vive orientato a lui, questi è al sicuro. E chi vive orientato a lui è forte e saggio come la donna che non è ripiegata su di sè, ma si occupa del suo sposo e dei poveri della terra!

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34ª Domenica - Cristo Re dell’universo - anno A

 1ª lettura Ez 34,11-12.15-17 dal Salmo 22 2ª lettura 1Cor 15,20-26.28 Vangelo Mt 25,31-46 

Terminiamo l’anno liturgico fissando lo sguardo sul Signore che è venuto, ci ha accompagnato, e ci attende là dove arriveremo tutti alla fine. Infatti Gesù ci parla del suo ritorno, un ritorno “nella gloria”. Questa volta egli ci assicura che la sua gloria non sarà nascosta nei cieli, ma si manifesterà davanti a tutti i popoli, che da lui verranno riuniti, osservati e giudicati. Il suo insegnamento è in forma di parabola diretta ai discepoli. Quali insegnamenti possono trarne i discepoli?

Anzitutto essi devono imparare che non ci sono differenze tra il loro popolo ebraico e gli altri popoli, e nemmeno tra i popoli che, in futuro, si riconosceranno nel cristianesimo e quelli che professeranno altre religioni: alla fine tutti si troveranno davanti allo stesso Giudice: “Saranno riunite davanti a lui tutte le genti!”. Essere ebrei non darà alcun vantaggio. Essi ricorderanno sempre che nemmeno l’essere cristiani non darà vantaggio, se non vivranno amando davvero come lui ha amato.

Imparano inoltre che il Giudice finale nel suo giudizio non si baserà sulle nozioni di bene e di male, ma soltanto sul bene compiuto verso di lui. Chi avrà compiuto un atto di amore verso di lui avrà il premio. Chi non avrà compiuto il bene verso di lui non potrà ricevere il premio. Il premio è la vita eterna. Chi non riceve il premio rimane privo della vita eterna, cioè privo della gioia e della felicità.

Per compiere il bene verso il Giudice, che è anche Re, non serve altro che guardarsi attorno per cercare di alleviare le sofferenze che affliggono chi ci circonda. Queste sofferenze sono raggruppate in sei ambiti, come a dire quasi la totalità di ciò che pesa sulle spalle degli uomini. La settima sofferenza, per la quale nessuno potrà impegnarsi ad avere compassione, sarà quella di chi rimane privo della vita eterna perché non si è fatto carico delle pene altrui.

Le sofferenze sono fisiche, come la fame e la sete, la nudità e la malattia, ma anche di relazione, come la prigionia o l’essere straniero. Queste sofferenze degli uomini sono sofferte tutte dal Re stesso. Egli ama i suoi «sudditi», che sarebbe più esatto chiamare figli: per questo ogni gesto di amore rivolto a loro viene da lui percepito come rivolto a sè, e ogni rifiuto di amore a loro è da lui vissuto come un rifiuto della sua persona.

Una parabola questa che ci lascia tutti impegnati ad amare. “Il Figlio dell’uomo che verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui” altri non è che Gesù stesso. Noi, che lo conosciamo, godiamo di un grande dono, che diventa una grande responsabilità. Abbiamo visto infatti il suo amore e così abbiamo da lui stesso imparato a donare un amore perfetto a tutti. L’amore perfetto non è quello che si occupa soltanto delle sofferenze del corpo, ma pure delle privazioni di affetto, di comprensione, di attenzione all’anima. L’amore pieno e completo si occupa anche e soprattutto delle sofferenze causate dal peccato, e perciò cerca di aiutare a perdonare e a chiedere perdono sia a Dio che ai fratelli. L’amore vero offre aiuto ad obbedire a Dio Padre e ad accogliere il Figlio suo come salvatore amico e fratello.

Questa parabola di Gesù riassume molti suoi insegnamenti e raccoglie molti avvertimenti. Non vivere egoisticamente, perché ti daresti la zappa sui piedi: chi vive egoisticamente si priva della vita eterna. Tieni gli occhi aperti, non per sfruttare la situazione a tuo vantaggio, bensì per incontrare il cuore dell’altro come fratello: sarai certamente ricompensato con una benedizione eterna. Non preoccuparti del premio: c’è chi osserva tutto e tiene conto del tuo amore, non importa a chi è diretto e non importa se tu stesso non ti accorgi di amare.

Gesù si comporta e si comporterà da vero re, re dell’universo, re dell’universo dell’amore. Ogni atto di amore è a lui gradito perché viene da quell’amore che egli ha portato sulla croce ed effuso dalla croce. In tal modo egli trasforma il mondo, anzi, l’universo, in un regno di amore, e perciò di festa e di gioia per tutti!

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Nulla osta: P.Modesto Sartori, ofm capp, Cens. Eccl., Trento, 09/6/2014