Quale gioia, quando mi dissero…
Quale gioia, quando mi dissero…
Raccolta di omelie delle domeniche e solennità dei tempi forti dell’anno A (2011).
Il titolo dell’opuscolo è l’inizio del Salmo della prima domenica di Avvento. È grande gioia incontrarsi con gli altri credenti per ascoltare insieme e celebrare la presenza del Signore risorto. Ogni domenica è il giorno della gioia, il giorno che con la sua gioia, motivata dalla fede, ci sostiene nella fatica e nelle sofferenze di tutta la settimana. In questo giorno la gioia cresce, perché cresciamo noi, cresce la nostra statura di figli di Dio, cresciamo in età e in grazia, e cresce pure la nostra sapienza nutrita dalla Parola che ci viene annunciata.
Possano queste pagine accompagnarti fino a Pentecoste, fino a godere il dono dello Spirito Santo, il Consolatore e Difensore e Sostegno di ciascuno di noi e di tutta la Chiesa!
Don Vigilio Covi
01ª Domenica di Avvento - A
1ª lettura Is 2,1-5 dal Salmo 121 2ª lettura Rm 13,11-14 Vangelo Mt 24,37-44
“Quale gioia quando mi dissero: «Andremo alla casa del Signore!»” (Sal 121/122,1). Questo inizio del salmo esprime e riassume gli atteggiamenti che le letture di oggi vogliono suscitare in noi iniziando di nuovo il percorso celebrativo degli eventi della nostra salvezza. L’anno liturgico scandisce il tempo, immerge la nostra vita nell’amore di Dio che abita l’eternità: è il modo di vivere nel tempo uscendo dal tempo, il modo con cui la nostra vita è salvata dalla tristezza data dal passare del tempo che non torna più. Iniziamo quindi con gioia. La gioia scaturisce dalla certezza che raggiungeremo il Tempio, il luogo dove abita il Dio di Giacobbe, quel Dio cioè che ama gli uomini oppressi e ne segue il cammino. “Tutte le genti” cercano la strada per arrivare alla presenza di questo Dio, la cui legge è preziosa: gli uomini lasciati a se stessi non la trovano, non riescono a seguirla. Essi hanno bisogno di arrivare a Gerusalemme per ascoltare la Parola del Signore, e da quella Parola ricevere le indicazioni per la pace. Quale popolo spezza le spade per farne aratri? Quale popolo riesce a convertire l’industria bellica in industria alimentare per coloro che soffrono la fame? Senza la Parola di Dio nessuno si sogna di poterlo fare.
Se vogliamo godere la pace tra i popoli, sempre pronti a contrapporsi, dobbiamo percorrere le strade che conducono a Gerusalemme. Sono le strade su cui ci lasciamo giudicare da quella Parola che Dio ha inviato nel mondo tenebroso come la notte, perché in esso sia luce, come quella del girono. “Il giorno è vicino”, ci dice l’apostolo. È il giorno cui ci prepariamo rivestendoci “del Signore Gesù Cristo”. Iniziamo di nuovo il periodo di un anno impegnati a rivestirci del Signore Gesù Cristo! Egli è venuto e verrà. È venuto, ma noi ancora non gli abbiamo fatto molto caso, lo abbiamo lasciato passare senza cambiare la nostra vita. È venuto, e noi abbiamo fatto come i contemporanei di Noè, siamo rimasti indifferenti. Non ci siamo accorti che senza vivere la sua Parola il mondo va in rovina. Egli viene ancora, e ci dà di nuovo il tempo di accoglierlo, come Noè accolse la parola della sua salvezza. Attendiamo il suo passaggio, la sua venuta multiforme, come bambino, come maestro, come Messia sofferente.
Ci disponiamo a compiere altri passi dietro a lui, per lasciarci portar via al suo passaggio, e non rimanere nella schiavitù della tristezza di questo mondo. Lo attendiamo per potergli dire finalmente con decisione: “Eccomi, ti ascolto, ti amo, ti ubbidisco, perché tu solo mi salvi”.
02ª Domenica di Avvento - A
1ª lettura Is 11,1-10 dal Salmo 71 2ª lettura Rm 15,4-9 Vangelo Mt 3,1-12
Grandi cambiamenti sono annunciati dal profeta, cambiamenti inaspettati, ritenuti impossibili. Gli animali feroci e velenosi non sono più pericolosi, tanto che nessuno dovrà più aver paura. La “conoscenza del Signore” trasformerà anche gli uomini, che non saranno più saccheggiatori e violenti. Il profeta stesso dice che questo avverrà quando “la radice di Iesse” sarà riconosciuta il distintivo dei popoli. Noi ci rendiamo conto che le cose stanno proprio così: quando “la radice di Iesse”, cioè il discendente di Davide, Gesù Cristo, viene riconosciuto e servito da un popolo, in esso le cose cambiano radicalmente. La storia racconta molti cambiamenti avvenuti nei popoli con l’arrivo del vangelo. Purtroppo oggi vediamo anche il contrario: popoli pacifici diventano violenti e infidi mentre in essi va diminuendo “la conoscenza del Signore”.
Ciò che profetizzava Isaia lo vediamo realizzarsi già con la predicazione del Battista. Quest’uomo che attirava le folle con la sua austerità e la sua fiducia in Dio, preparava il terreno all’accoglienza di Gesù, invitando ed esortando alla conversione. Egli insisteva perché tutti riconoscessero i propri peccati e li confessassero. Due erano gli atteggiamenti di chi correva da lui. C’era chi davvero si umiliava e chiedeva perdono facendosi battezzare, cioè segnando con un rito pubblico la propria volontà di accogliere il Messia, “colui che viene”. C’era pure chi andava a vedere Giovanni per curiosità, orgoglioso di se stesso, sicuro di non aver bisogno di quel segno che Giovanni operava, perché certo di non aver bisogno di nulla. Questi erano farisei e sadducei, persone cioè che si ritenevano già a posto per il loro mestiere o per la loro appartenenza ad un gruppo religioso. Giovanni si accorge del loro orgoglio e li apostrofa con parole durissime. Li chiama addirittura “razza di vipere”, che equivale a dire “figli del serpente”, e tutti sapevano chi è il serpente. Chi è orgoglioso è proprio così, non solo incapace di ricevere salvezza, ma anche addirittura causa di perdizione, non di se stesso soltanto, ma anche degli altri. La conversione è necessaria: la venuta di colui che “battezza in Spirito Santo” diventa giudizio e condanna, invece che salvezza, per coloro che non si convertono, per coloro che non si umiliano a riconoscersi bisognosi di lui.
A Natale molti entreremo in chiesa per qualche celebrazione: ci saremo convertiti? Saremo pronti a portare in noi, non solo quel giorno, ma tutti i giorni, lo Spirito Santo che il Bambino distribuirà? Giovanni Battista ci vuol preparare ad accogliere Gesù non con qualche sentimento dolce, ma con una vita pronta a nuove rivelazioni, disposti a collaborare con lui per realizzare i suoi desideri.
Immacolata Concezione della b. v. Maria
1ª lettura Gn 3,9-15.20 dal Salmo 97 2ª lettura Ef 1,3-6.11-12 Vangelo Lc 1,26-38
Le preghiere della celebrazione odierna insistono nel chiedere a Dio che ci liberi dal peccato e ci guarisca dalle ferite che esso provoca in noi. Lo chiediamo con fiducia, perché sappiamo che Dio lo può fare, avendo già preservato dal peccato la beata vergine Maria. Tutta la nostra storia, sia personale che universale, è una storia che deve fare i conti con il peccato, cioè con un modo malato di rapportarci con Dio e, di conseguenza, anche tra di noi. Dio è il Dio dell’amore, ma noi lo abbiamo immaginato diversamente, come un Dio che ci vuole limitare, che ha invidia di noi e per questo ci inganna. Questa è la tentazione che hanno avuto Adamo ed Eva e alla quale essi non hanno saputo nè voluto resistere. Questa è la radice del peccato, e da questa radice spuntano tutte le disobbedienze in tutti gli ambiti della nostra vita. Esse sono elencate dai dieci comandamenti come da titoli di capitoli che le raccolgono tutte. Queste disobbedienze operano uno stravolgimento della nostra vita, la riempiono di tristezza, distruggono la bellezza della creazione e del vivere dell’uomo. Tutte le disobbedienze a Dio rompono i rapporti di comunione tra le persone che si sono amate, ma dal momento in cui commettono il peccato non riescono più ad amarsi. Quando due persone si mettono d’accordo per disobbedire, di qualunque tipo sia la disobbedienza, da quel momento iniziano invece ad odiarsi e accusarsi l’un l’altro. Il peccato non porta mai benedizione, non realizza mai quel benessere che colui che pecca si immagina di raggiungere seguendo il proprio pensiero e la propria decisione. Anzi, il peccato ci butta sulla strada della morte: San Paolo dice appunto che la morte è il salario del peccato. Esso non realizza la nostra vita. Noi siamo fatti per la santità, quindi solo la santità riempie il cuore di gioia e di pace. Anche questo dice oggi l’apostolo, che noi siamo fatti per essere santi. Il nostro destino, il nostro traguardo naturale è la santità, quella realizzata dalla carità, cioè dall’amore gratuito, quello di cui Gesù ci dà esempio.
Dio, che ci ha creati e costruiti “a sua immagine e somiglianza”, quindi capaci di amare e veramente realizzati solo nell’amare, ha cercato l’uomo dopo la sua rovina. Adamo ha peccato, si è cioè allontanato dalla propria strada, mettendosi su quella della paura, della tristezza, della confusione, dell’incapacità di comunione. Dio non lo abbandona a se stesso, lo cerca, e gli promette una possibilità di ripresa. Questa promessa poi ha bisogno di tempo per essere accolta in pienezza dagli uomini peccatori.
Oggi abbiamo udito le parole dell’angelo Gabriele a Maria: “Rallegrati…”! Maria capisce al volo che sta arrivando una stagione nuova, che Dio inizia quanto era da tutti atteso, un regno tra gli uomini guidato da un re che non riversa su di loro i frutti del suo peccato, come fanno invece gli uomini che si fanno chiamare re. Dio comincia il regno atteso inviando un re che realizza le speranze di tutti. La gioia è il frutto che precede e accompagna questo regno: Maria la deve vivere già fin d’ora. La deve vivere perché in lei il regno sta già portando frutto. Maria deve rallegrarsi perché in lei non c’è posto per la ribellione, il peccato, la disobbedienza. Ella non conosce la tristezza del peccatore. “Rallegrati, Maria”! Maria è purissima, è illuminata dalla luce dell’obbedienza fiduciosa. Oggi ammiriamo il suo essere senza peccato: non si è allontanata da Dio, ha accolto la sua Parola senza tentennare, senza giudicarla, senza pensare che potesse nascondere inganno. La Parola di Dio in lei ha trovato spazio per divenire carne, cioè uomo, persona umana, seguendo le regole del divenire dell’uomo. Con lei anche noi viviamo l’attesa della nascita della Parola fatta carne. Viviamo quest’attesa decidendo di accoglierla per assumere anche noi la sua stessa obbedienza amorosa.
Ammiriamo Maria e ringraziamo il Padre: egli ci ha dato in lei un’immagine di quello che diventiamo noi quando gli ubbidiamo. Veneriamo Maria Immacolata: questo è il modo di desiderare quanto il Padre ha fatto per noi e per noi desidera. Guardando con amore e con gioia la purezza di Maria ci prepariamo ad essere purificati e rinnovati per portare in noi, come lei, il Figlio! Maria obbediente e tutta dedita alla volontà di Dio è il nostro esempio, è la nostra forza, è la nostra gioia, perché lei è segno che anche noi, nonostante il nostro essere peccatori, possiamo camminare sulla via della santità ed essere salvati.
Maria, gloria di Dio, intercedi per noi e riversa nei nostri cuori la bellezza, la purezza e la letizia che fanno di te la gioia del creato. Grazie alla tua preghiera anche noi obbediremo al Padre e diverremo luce che riflette sul mondo la luce del Figlio tuo, Gesù!
03ª Domenica di Avvento - A
1ª lettura Is 35,1-6.8.10 dal Salmo 145 2ª lettura Gc 5,7-10 Vangelo Mt 11,2-11
“Egli viene a salvarvi”! Così Isaia spiega il motivo per cui tutto il popolo deve esultare e rallegrarsi. Il profeta invita alla gioia addirittura il deserto e la terra arida: immagini per dire che anche chi fosse nella sofferenza più nera può cominciare a sperare, sicuro dell’intervento di un vero salvatore. La salvezza sarà accompagnata da segni inequivocabili: coloro che portano in se stessi grandi sofferenze, ne saranno liberati. Gli occhi dei ciechi si apriranno, e così gli orecchi dei sordi, mentre zoppi e muti ricupereranno le loro facoltà per esprimere la gioia dell’andare incontro al Signore. I segni proposti da Isaia sono quelli che Gesù realizza e quelli che egli, ai discepoli di Giovanni, propone di osservare attentamente. Gesù sapeva che i suoi miracoli erano più che miracoli, erano segni della sua realtà, che lo rivelavano come colui che deve venire, il Messia di Dio. Giovanni offre a Gesù questa occasione per manifestarsi, ma Gesù ne approfitta per rivelare pure la vera identità del Battista. Egli, ormai in prigione, rifiutato dagli uomini, è colui che Dio ha destinato suo precursore. La povertà ed il deserto, da lui scelti come dimora della sua profezia, sono l’ambiente che attira maggiormente la simpatia degli uomini, ma anche di Dio. È di lui che le Scritture affermano che sarà il messaggero del Messia. Gesù gli riconosce questo ruolo dopo aver rivelato il proprio, e così ne può tessere un grande elogio. Non c’è un uomo più grande di lui, se non chi seguirà Gesù: chi lo segue, infatti, fa già parte del regno di Dio.
In questi giorni siamo vigilanti per rinnovare la nostra accoglienza al Signore. Egli è già venuto, ma noi non abbiamo dato a lui ancora tutto, tutto lo spazio, tutto il tempo, tutta l’attenzione. Il suo amore deve crescere in noi per non desiderare altro che lui: è lui che verrà nella gloria.
Anche San Giacomo ci parla dell’ultima venuta del Signore e ci esorta ad aspettarlo con costanza. Egli ci propone un esercizio per questo tempo: “Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte”. Egli viene come giudice, perciò noi non ci arroghiamo la facoltà di prendere il suo posto per giudicare i fratelli. Lamentarsi di loro equivale a condannarli. Ci esercitiamo nella pazienza, e così offriremo a Colui che viene un ambiente veramente accogliente. È molto facile parlar male degli altri e dei loro peccati, ma proprio per questo viene e verrà il Signore, per salvare, liberare, risanare e consolare. Lo attendiamo così, e cominciamo ad amare coloro che egli salverà!
04ª Domenica di Avvento - A
1ª lettura Is 7,10-14 dal Salmo 23 2ª lettura Rm 1,1-7 Vangelo Mt 1,18-24
Giuseppe è un uomo “giusto”, e proprio per questo cerca di operare le sue scelte alla luce della Legge divina. Egli non vuole disubbidire a Dio, ma nemmeno rendere pubblico l’eventuale «peccato» di colei che è la sua promessa sposa. Il suo amore a Dio è amore anche per la ragazza che dovrebbe portare a casa propria. È una posizione difficile la sua, ma proprio perché egli vuole essere di Dio, Dio gli viene incontro e gli risolve il problema, facendogli superare la Legge. Glielo risolve, ma gli rivela pure che il suo «problema» è un disegno di Dio, anzi la realizzazione di tutti i disegni della misericordia divina. Quando si sveglia, Giuseppe sa di essere destinato a nascondere e rivelare un mistero inconcepibile per gli uomini. Questi lo riterranno padre del bambino che nascerà e lo accuseranno di aver fatto ciò che egli non aveva mai pensato di fare. Egli sa che il bambino stesso sarà salvatore anche dei suoi denigratori. Non può difendersi di fronte agli uomini: nessuno gli crederebbe. Deve vivere in silenzio e in silenzio soffrire e, allo stesso tempo, godere di essere strumento di Dio per la misericordia verso tutti. Che mistero! Quanto complessi e quanto semplici i disegni di Dio! Essi sono meravigliosi, e soltanto il nostro peccato, che ci fa sospettare e malignare, li rende complessi e difficili da comprendere. Saremo perdonati e salvati da quel peccato, e allora potremo comprendere Dio e ringraziare Giuseppe per la sua prontezza a rispondere all’angelo che gli ha parlato nel sogno. In questa quarta domenica di Avvento il Signore vuole farci vedere la nostra piccolezza e la povertà della nostra intelligenza. Le soluzioni del suo amore ai problemi umani ci sono e sono superiori ad ogni nostra capacità. Il re Acaz non accetta nemmeno di lasciar agire Dio nella sua vita: è sicuro che nemmeno Dio è più intelligente o sapiente di lui. Il profeta invece gli annuncia l’opera di Dio, quella di cui Giuseppe diventerà uno dei protagonisti: il parto della vergine. Alla venuta di quel bambino ci sarà una svolta decisiva per Israele e per tutti i popoli. San Paolo vive dentro questa novità ormai avvenuta, ma che deve essere annunciata e accolta da tutte le genti. Egli ha accettato di esserne apostolo e gode di poter coinvolgere anche i cristiani di Roma nell’opera più bella che possa esserci a questo mondo: “suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti”. La fede sarà anche per noi la guida che ci farà stare a Betlemme come a casa nostra, a fianco di Giuseppe, “uomo giusto”!
Natale del Signore
Notte Isaia 9,1-3.5-6 Sal 95/96 Tito 2,11-14 Luca 2,1-14
Aurora Isaia 62,11-12 Sal 96/97 Tito 3,4-7 Luca 2,15-20
Giorno Isaia 52,7-10 Sal 97/98 Ebrei 1,1-6 Giovanni 1,1-18
Abbiamo pregato e cantato per quattro settimane “Vieni, Signore Gesù”, e ora vediamo l’esaudimento della nostra preghiera. Lo abbiamo chiamato, ed egli oggi ci dice: “Eccomi”. Eccolo, ma è solo un bambino. Pensavamo venisse un grande, uno dei potenti della terra, e invece solo un bambino: siamo stati ingannati? Credo che duemila anni fa sia stato difficile, come lo sarebbe oggi, parlare di gioia per un popolo intero e per tutto il mondo, semplicemente perché è nato un bambino. Quanti bambini nascono! Sembra che i bambini siano tutti uguali, ma quale diversità poi man mano che crescono! Il bambino annunciato da Isaia, e che oggi è nato, non è diverso dagli altri, ma ha origine e compito nuovi. Anzitutto di lui è detto che “è nato per noi”. Non nasce per se stesso, non cercherà di prevalere, di farsi un nome, di arricchire, di chiudersi nel suo privato per non assumersi responsabilità pubbliche: è un bambino “per noi”, quindi sarà attento alle nostre necessità, ai nostri bisogni, alle nostre sofferenze. I nomi che gli vengono dati manifestano quale sarà il suo compito e la sua responsabilità: “Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace”. Tutti questi titoli dicono che ci potremo rivolgere a lui nella nostra debolezza, quando abbiamo bisogno di difesa, di consiglio e persino di affetto e di sicurezza. Quel bambino è proprio colui che ci vuole per tutte le nostre povertà. Diventerà il nostro psicologo, il nostro avvocato, la nostra guida, il sostegno interiore. La gioia deve essere davvero grande per la nascita di un uomo che non ha desideri egoistici, che non vive per se stesso.
La sua vita del tutto donata viene accolta in un ambiente particolare, l’amore di due sposi che, secondo la loro misura, vivono già un aspetto del medesimo suo amore disinteressato. Giuseppe e Maria fanno tutti i loro passi in vista del bambino e per lui, o meglio, per quel Dio che affida loro il figlio. Anche gli Angeli e i pastori si muovono per loro. Gli angeli, solo i poveri li vedono, e i pastori sono i poveri considerati solo dagli angeli. Gli angeli cantano e i poveri accorrono. Un bambino è apprezzato solo dai poveri. I ricchi… siccome un bambino non è fonte di guadagno, lo sopportano a mala pena. La profezia di Isaia piace quindi soprattutto ai poveri. Sono essi che soffrono e che desiderano giustizia e pace, sono essi che per godere di pace e ottenere giustizia possono rivolgersi solo a Dio, non trovando tra gli uomini se non chi vuole usare le loro sofferenze per guadagnare ancora o ambizione o potere o denaro.
Chi è questo bambino? Dopo averlo avuto vicino alcuni anni e averne assunto lo spirito, l’apostolo Giovanni nel suo vangelo ci dice che è la luce.
Tutto il mondo cammina nelle tenebre: continua a sbagliar strada, a inciampare, a non vedere gli altri uomini se non come avversari. La luce che ora risplende rivela il volto degli altri, di tutti gli altri uomini, come fratelli, anzi, come figli di quel Dio che ora li illumina. È luce, perché essa è vita, vita nuova, diversa, vita divina. Noi accogliamo questa luce ed essa diventa in noi vita di figli di Dio. Accompagnati dal bambino che è nato per noi, noi siamo certi di non essere più soli e non abbiamo più motivo di aver paura.
Il Natale è festa di luce, proprio perché non c’è più la tenebra nella vita dell’uomo dal momento che cammina con Gesù, si lascia guidare da lui e osserva i volti che incontra illuminati dal suo splendore. Tu t’imbatti in qualcuno ancora triste, disorientato, o incapace di amare coloro che incontra? Digli che c’è la luce anche per lui, che è nato Gesù, e che Gesù ha cambiato la tua vita e l’ha resa preziosa. Fa’ quel che hanno fatto gli angeli a Betlemme: annuncia la gioia del mondo! Fa’ quel che hanno fatto i pastori: mostra la tua gioia, lascia che essa si espanda attorno a te. Fa’ quel che ha fatto Maria: prendi sulle tue braccia il Bambino e lascia vedere che lo sai amare, facendoti bambino con lui. Godi e rallegrati, perché da quel Bambino sgorga la pienezza della grazia, la pienezza dell’amore meraviglioso di Dio!
Santa Famiglia DI GESÙ GIUSEPPE E MARIA - A
1ª lettura Sir 3,2-6.12-14 dal Salmo 127 2ª lettura Col 3,12-21 Vangelo Mt 2,13-15.19-23
“Chi onora sua madre è come chi accumula tesori. Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli e sarà esaudito nel giorno della sua preghiera. Chi glorifica il padre vivrà a lungo, chi ubbidisce al Signore darà consolazione alla madre”. Parole preziose e sempre attuali. Normalmente l’amore ai genitori sembra ovvio, ma dalla cronaca nera di questi ultimi anni ci rendiamo conto che tanto ovvio non è. È facile trovare genitori che odiano i propri figli e figli che addolorano i propri genitori. Dio vuole per noi la pace, cominciando proprio dalla pace in famiglia. L’ascolto della sua Parola e l’obbedienza ai suoi comandamenti sono l’albero che produce come frutto la vera pace in ogni ambiente, anche in quello familiare. Sembra però che in questo tempo gli uomini ritengano i comandamenti di Dio una regola facoltativa: li osserva chi crede, e chi non crede è autorizzato a comportarsi come vuole: nessuno gli farà delle osservazioni. È una mentalità che ha cominciato a ignorare il sesto e il nono comandamento, quelli cioè che danno indicazioni al nostro comportamento sessuale, e poi si è allargata al quinto comandamento, per concedere la possibilità di fermare la vita all’inizio oppure verso la fine. Non fa meraviglia se questa mentalità arriva a disgregare i rapporti familiari, rendendo genitori e figli estranei gli uni agli altri.
Con i comandamenti di Dio però non si scherza. La disobbedienza ad essi porta conseguenze a breve e a lunga scadenza, e conseguenze sempre gravi. Anche se uno non crede in Dio, le sue disobbedienze sono peccato, procurano all’umanità sofferenze e disagi grandi di cui egli è colpevole. Anche se uno non sa che quello che fa è peccato, le conseguenze ci sono. Quando vai a raccogliere funghi, se raccogli e mangi quelli velenosi, essi ti procurano la morte anche se non sai che sono velenosi. Puoi ripetere fin che vuoi che non lo sapevi, ma intanto soffri e muori. Lo stesso accade con i comandamenti di Dio. Ciò che essi proibiscono e ciò che essi comandano vale per tutti gli uomini. Le relazioni familiari diventano fonte di vita e di gioia se in esse si vive la sapienza di Dio. Chi onora il padre e la madre “vivrà a lungo”, dice il comandamento!
Oggi guardiamo alla Santa Famiglia di Nazareth: vediamo in essa un modello di vita per gli sposi e per tutta la famiglia. Gesù è al centro di essa. Per amore del Figlio i genitori affrontano un viaggio pericoloso e faticoso. Per lui hanno già sofferto prima che nascesse, perché è stato considerato dalla gente figlio di peccato: nessuno conosceva infatti l’opera di Dio! Maria e Giuseppe vivono per lui, e da lui ricevono onore: la sua obbedienza a Dio fa onore ai genitori, più di qualsiasi altra cosa. Per questo San Paolo comanda ai cristiani di vivere la pienezza dell’amore anzitutto all’interno della propria famiglia. La famiglia è proprio il luogo privilegiato dell’amore, dove esso si esprime in tutte le dimensioni, spirituali, morali e fisiche. Nella famiglia l’amore trova anche il tempo per esprimersi, perché sono molte le ore che una persona, genitore o figlio che sia, trascorre in famiglia. Come si manifesta l’amore? Sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, di sopportazione e di perdono: tutto questo è necessario per poter dire che ci amiamo. Talora si incontra qualche papà convinto di amare i figli e la moglie semplicemente perché lavora e porta a casa lo stipendio. Ma se non dà loro del suo tempo e la fatica di ascoltarli, essi non si sentono amati. E se la moglie dice di amare i suoi semplicemente perché fa il bucato e cucina i pasti, ma non permette ai figli di esprimersi e al marito di accarezzarla, non convince nessuno del suo amore. Davvero sono necessari “tenerezza, bontà, umiltà, mansuetudine, magnanimità, sopportazione e perdono”, anche perdono. Nessuno è senza peccato, anche in famiglia. Il perdono dev’essere quotidiano in famiglia. E San Paolo continua: “E rendete grazie!”. I figli devono imparare a dire grazie anche ai propri genitori, e lo imparano se papà e mamma si ringraziano per ogni cosa. Quando ci diciamo grazie manifestiamo che non c’è pretesa, che non c’è dominio tra di noi. Dirsi grazie è riconoscere che l’amore dell’altro è gratuito e gradito, che l’amore dell’altro è dono di Dio. Un dono grande di amore reciproco in famiglia è il vivere questa raccomandazione dell’apostolo: “La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori”. Quando nella famiglia è palpabile la presenza di Gesù, perché la sua parola è donata dall’uno agli altri, allora l’amore in essa ha garanzia di crescere e di perfezionarsi. Famiglia santa quella di Gesù, Giuseppe e Maria: famiglia santa anche la nostra, grazie al nostro amore e al nostro perdono.
Maria Ss. Madre Di Dio
1ª lettura Nm 6,22-27 dal Salmo 66 Gal 4,4-7 2ª lettura Vangelo Lc 2,16-21
Madre di Dio! È il titolo più bello che possiamo usare per Maria. Quando la chiamiamo «madre nostra» le diamo il titolo più affettuoso, ma il più vero per lei, che esprime la sua indicibile unità col Figlio suo, è questo: «Madre di Dio»! Suo Figlio è Figlio di Dio, di quel Dio che è intervenuto in modo nuovissimo perché ella potesse generare un uomo. Uomo e Dio è Gesù, e Maria è perciò Madre di Dio. Madre creata del Dio creatore, Madre piccola del Dio immenso, Madre santa della Santità stessa. Ogni lode è poca cosa per esprimere quello che è Maria, e per questo noi non cessiamo di lodarla e benedirla con le nostre parole e con titoli e feste. E ogni titolo e ogni festa che riusciamo a pensare e realizzare altro non è che un modo per glorificare Dio, quel Dio che ce l’ha donata come Madre. Ha potuto donarcela come Madre perché se l’è presa come serva, ed ella ha accettato con gioia e con amore. Maria è serva dell’amore di Dio: in lei si incontrano la piccolezza più umile e la grandezza più venerabile. San Paolo è molto scarno: parlando di Gesù dice: “nato da donna”. È l’unica volta che l’apostolo menziona la madre di Gesù, senza dirci null’altro di lei. Ma di lei ci dice la cosa più grande, perché afferma che da lei è nato colui che è «Figlio di Dio», quel Figlio il cui Spirito è mandato a noi per gridare: “Abbà, Padre”.
Il vangelo oggi ci presenta la Madre di Dio in silenzio. Il suo silenzio è ascolto, è meditazione, è contemplazione di quel Dio di cui tiene in braccio la Parola. Attorno a lei c’è un gran movimento: i pastori che vengono e vanno, che parlano e raccontano, e poi gli incaricati della circoncisione, cui lei deve dire il nome che il bambino già possiede nei cieli. Il suo silenzio è più eloquente di tutto ciò che vien detto e fatto. Noi dal suo silenzio impariamo una grande lezione che ci matura la vita. Diventiamo capaci di osservare le intenzioni di Dio, e di pazientare perché non le comprendiamo. Dal silenzio di Maria impariamo ad ascoltare, e l’ascolto è il primo passo dell’amore vero.
L’ascolto di Maria segna l’inizio del nuovo anno civile, anno che trascorreremo uniti al suo Figlio. Egli sarà la nostra benedizione, quella benedizione che già Aronne aveva profetizzato al popolo d’Israele e che oggi viene pronunciata per noi: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”. Proprio di pace oggi si parla, perché oggi è la giornata della pace.
Che cos’è la pace? È un mistero. È la volontà di Dio per noi, una volontà che solo Gesù può realizzare. “Egli è la nostra pace”, dice San Paolo. La vera pace, quella che dà all’uomo la gioia, la sazietà, la serenità interiore, non viene dagli uomini. Essi non riescono a darla a nessuno e nemmeno a prendersela. La vera pace è Gesù nel nostro cuore, è Gesù nelle nostre famiglie, è Gesù nel mondo. Invochiamo perciò ancor più la sua Madre che ci aiuti a contemplarlo, ad amarlo, a custodire l’unità con lui per tutto il nuovo anno.
2ª Domenica del Tempo di Natale - Anno A
1ª lettura Sir 24,1-4.8-12 dal Salmo 147 2ª lettura Ef 1,3-6.15-18 Vangelo Gv 1,1-18
Continuiamo a celebrare il Natale del Signore. Le letture ci soffermano ancora su questo mistero che non riusciamo mai a comprendere del tutto. È un mistero che vogliamo però continuare a celebrare per lodare e benedire la sapienza dell’amore di Dio. Di questo parla appunto il brano del libro del Siracide. Alla sapienza Dio dice: “Fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele, affonda le tue radici tra i miei eletti”. È nel popolo d’Israele che s’incarna il Verbo, cioè la Parola del Dio Altissimo. Dio vive nella nostra storia, non è un’idea, come lo immaginano le religioni scoperte o inventate dagli uomini. Su questa venuta di Dio nella nostra storia si sofferma S. Giovanni iniziando il suo vangelo. Il Verbo che era in principio, che sta cioè a fondamento di tutto, era Dio. Le parole della nostra lingua non riescono a tradurre tutto quello che l’evangelista vuol dirci. Con il termine «Verbo» egli intende parlare della Parola, o meglio del contenuto della Parola che Dio stesso vuole comunicare agli uomini, per renderli partecipi della sua vita, cioè del suo amore. Dio non ci vuol solo parlare, ma con la parola ci vuole trasmettere la sua vita, cioè la sua capacità di amare. E ogni volta che viene ripetuto “era” non si vuol raccontare un fatto passato, ma un avvenimento presente e futuro: noi dovremmo tradurre: era e continua ad essere. Egli era e continua ad essere presso Dio, era e ed è ancora e sempre sarà luce e vita, venne ad abitare in mezzo a noi e con noi rimane e rimarrà sempre.
La verità del mistero che l’evangelista ci vuole riassumere in queste prime righe del suo Vangelo è testimoniata da un uomo di nome Giovanni, il Battista. Egli ha preceduto “la luce”, quella luce che splende nelle tenebre, e che attira lo sguardo e l’attenzione di tutti gli uomini. Questi, accogliendolo, diventano “figli di Dio”, trasformando la propria vita, vita che è parte della tenebra, in un raggio di luce, di cui molti possono godere.
L’evangelista Giovanni, a differenza di Matteo e Luca, non ci presenta Gesù bambino. Noi, infatti, oggi non abbiamo a che fare con un bambino, ma con colui che è morto e risorto. Se amiamo il bambino è perché egli è con noi, risorto. La festa che ci rende sensibili e capaci di ogni bontà non termina con l’Epifania, ma continua per tutto l’anno: Gesù, il Figlio di Maria, è sempre con noi. Questo ci viene ricordato anche da San Paolo, che gode per il fatto che i cristiani credono in Gesù Cristo. È questa fede che fa sì che essi siano in comunione tra di loro e con lui: così la loro vita mai s’inabisserà nel buio o nello scoraggiamento o nella tristezza tipica di chi non conosce il significato della propria esistenza.
Ringraziamo per il mistero dell’incarnazione: Dio con noi, uno di noi, sempre per noi. Godiamo e ringraziamo perché lui è la sapienza che ci fa saggi in mezzo ai maestri, ci rende sicuri in mezzo ai boriosi, ci fa sereni in mezzo alla confusione che ci circonda, ci fa lieti in mezzo a folle tristi e depresse. Ringraziamo e stiamo pronti a rispondere a chi ci chiederà come mai siamo contenti, come mai non ci lamentiamo, come mai non abbiamo soggezione di coloro che si ritengono grandi e arrivati. Risponderemo che Gesù è Dio con noi, e che la sua vita non è un ricordo del passato, ma una realtà attuale: su di lui possiamo appoggiarci per guardare al futuro senza paure!
Epifania del Signore - A
Iª lettura Is 60,1-6 dal Salmo 71 IIª lettura Ef 3,2-3.5-6 Vangelo Mt 2,1-12
Gli artisti, piccoli e grandi, che hanno rappresentato e rappresentano il presepio hanno ben compreso uno dei significati della solennità odierna. Davanti a Gesù, tenuto in braccio da Maria, volendo raffigurare i Magi venuti dall’Oriente, mettono tre personaggi provenienti da popoli diversi: il bianco, l’olivastro e il nero. Sono coronati e vestiti da re, e questo dà loro un significato di rappresentanza, quasi a dire che con loro ci sono folle e folle di persone della loro razza e della loro lingua e della loro religione. Tutti i popoli fanno riferimento a quel Gesù che fu accolto con gioia dai poveri e fu rifiutato con cattiveria smisurata dai potenti. Gli uomini di tutte le religioni sanno di essere in attesa di una pienezza che ancora non è arrivata per loro: la pienezza è quel bambino, che sembra insignificante, impotente, povero, un nulla. I grandi si devono piegare davanti a lui e devono riconoscere che tutto ciò che essi ritengono prezioso, è prezioso solo se sta nelle sue mani. I loro tesori che cosa sono nelle mani d’un uomo, dato che egli è come un soffio? Oro incenso e mirra, ricchezza gloria e vita lunga, che cosa sono se non sono nelle mani di chi le sa usare per amare? Le ricchezze in mano all’egoista produrranno violenza e prepotenza, produrranno povertà e miseria; la gloria dell’uomo aumenta la superbia e il dominio dell’uno sull’altro; la vita lunga dell’uomo dà origine a sofferenze e irresponsabilità. Tutto questo deve essere posto nelle mani dell’uomo che incarna l’amore divino: questo è il posto della ricchezza, perché allora serve ad alleviare sofferenze e povertà; l’uomo-Dio è capace di gloria e di vita lunga, perché dell’amore nessuno si stanca mai.
I magi ci danno così una grande lezione. Siamo capaci di impararla? Essi hanno affrontato il viaggio lungo di una conversione totale: hanno lasciato i loro paesi, le loro abitudini, le loro sicurezze, sono venuti dove sono sconosciuti, nel nascondimento, nella povertà; hanno operato delle scelte di semplicità, accettando di passare dalla parte dei perseguitati.
L’incontro con Gesù, benché ancora soltanto un bambino, ha cambiato loro la vita. Quel bambino ha sostituito la stella che aveva dato loro curiosità e poi gioia profonda. Ora nel loro cuore e nella loro mente pesa soltanto quel bambino in braccio a sua madre. Null’altro più li attira, nemmeno i movimenti delle stelle nè le opinioni degli uomini grandi. Ormai, una volta svuotati gli scrigni, di loro non sappiamo più nulla. O meglio, sappiamo che anche a loro è avvenuto quello che avviene a noi quando cominciamo ad amare Gesù. La vita inizia a diventare vita vera, comincia ad avere un significato importante non solo per noi, ma per Dio stesso, e quindi per tutta l’umanità. Nella vita non abbiamo più bisogno di ricchezze nè di ambizioni nè di fama e nemmeno di salute. Addirittura amando quel bambino comprendiamo che la vita ha valore al di là e al di sopra di quello che normalmente le attribuiscono gli uomini: la vita ha valore e significato anche se ancora non produce e anche quando non produce più nulla. La vita vale perché in essa un legame spirituale ci unisce al bambino che è il centro dell’universo degli uomini. Tutti devono porsi davanti a lui e prendere posizione. I grandi come Erode, i sapienti e persino i sacerdoti sono sconvolti da quell’inerme bambino. Anche la loro vita viene cambiata da lui: li costringe a diventare piccoli e umili, se sono capaci di accettare questo passaggio! Quel bambino è davvero un mistero. Egli contiene e rivela il mistero di Dio, cioè la volontà divina di ricoprirci del suo amore e di vederci immersi nell’amore. Ma per riuscire noi ad amarci gli uni gli altri dobbiamo accogliere l’amore di quel bambino: amarlo e lasciarci amare dal suo sguardo disarmante e dal suo bisogno di essere aiutato.
Signore Gesù, ti adoriamo. Ti ringraziamo che ci sei, anche se non fai nulla. Non devi fare nulla per me, perché se soltanto so che ci sei io sono contento della mia vita, della mia povertà, della mia malattia, della mia piccolezza. Ecco, tutto quello che è nelle mie mani e nelle mie possibilità è a tua disposizione: il mio oro e il mio incenso e la mia mirra possano servire a te, a realizzare il tuo amore che non ha confini! Tutti i popoli e tutte le età e tutte le religioni ti conoscano, tu che sei la vita vera di ciascuno. Gloria a te!
Battesimo del Signore - A
1ª lettura Is 42,1-4.6-7 dal Salmo 28 2ª lettura At 10,34-38 Vangelo Mt 3,13-17
Il Battesimo di Gesù fa parte del mistero della manifestazione di Dio: il Padre rivela il Figlio e lo consacra con lo Spirito perché realizzi ogni promessa fatta al popolo e all’umanità. La risposta che Gesù offre a Giovanni Battista, che vorrebbe rifiutarsi di battezzarlo, rivela la sua decisione di offrirsi a compiere la volontà del Padre. Egli la conosceva grazie alle Scritture che avevano profetizzato non solo la venuta del Messia, ma anche la sua passione e la sua esaltazione. Egli sapeva che il Messia sarebbe vissuto in modo semplice, tale da non far concorrenza ai grandi della terra. Lo abbiamo letto dal profeta Isaia proprio ora: “Non griderà nè alzerà il tono…”. Egli non si impone, non usa violenza nè dominio. E infatti Gesù, entrando nell’acqua in cui si abbassavano i peccatori per pentirsi, ci lascia comprendere che vuole lottare contro il peccato assumendo su di sè il suo peso. In tal modo egli alleggerisce i peccatori e dona loro speranza. Così egli «fa giustizia», cioè rende giusti, graditi a Dio, tutti gli uomini.
Questo gesto di Gesù ci manifesta fin dove giunge l’amore: è un amore vero, puro dono, un amore pieno. Egli ama, senza attendersi nulla dagli uomini, nemmeno il grazie. Dai peccatori che cosa ci si può attendere se non ingratitudine e rifiuto? Questo riceverà Gesù, eppure egli con decisione piena entra in quell’acqua, dove tutti deponevano i loro peccati per poter iniziare una vita nuova. Il passaggio nel fiume Giordano aveva un grande significato per gli ebrei: là era passato il popolo che dal deserto finalmente entrava nella terra promessa da Dio ai patriarchi. Questo passaggio era avvenuto sotto la guida di Giosuè, il successore di Mosè, che portava il nome dallo stesso significato di quello di Gesù. Quel popolo, che nel deserto aveva continuato a mormorare, dimostrando così la sua infedeltà, passando il Giordano aveva la prova definitiva della fedeltà di Dio. Ora i peccatori, accogliendo la guida di Gesù, possono risollevarsi e sperare con grande fiducia nella misericordia del Padre. Dal Padre stesso ricevono l’assicurazione che quell’uomo, entrato nell’acqua con loro, è il suo Figlio, colui che porta vicino a noi tutta la pienezza dell’amore divino. Egli è colui di cui ha parlato il profeta dicendo: “Ecco il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio Spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni… Ti ho stabilito come luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi…”. La parola che viene dall’alto mentre Gesù esce dall’acqua, accompagnata in modo visibile dalla colomba che si posa su di lui, è un richiamo a questa e a molte altre profezie. Per questo S.Pietro, nella sua prima evangelizzazione ai pagani, ricordava questo avvenimento dicendo che proprio in quell’occasione “Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret”. Quale fu la potenza che Gesù ha ricevuto? Quella di risanare “tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo”, cioè tutti i peccatori.
Noi rinnoviamo oggi il nostro legame con Gesù, per godere ancora e sempre della sua potenza, della potenza del suo amore gratuito. Noi siamo stati battezzati nel suo nome e così siamo stati liberati dal nemico che ci vuol rovinare, vuol portar via da noi la capacità di amare e la gioia dell’essere amati. Rinnoviamo la nostra unità con il Signore, Figlio di Dio, perché egli possa vincere ogni giorno i tentativi con cui il nemico continua ad assalirci.
Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, pieno di Spirito Santo, ci hai amato con un amore impensabile: hai voluto portare su di te il peso del nostro peccato. Noi ti adoriamo, ti amiamo, ti ringraziamo, e ti chiediamo: abbi pietà di noi. Apri i nostri occhi, perché vediamo tutto il mondo alla tua luce, la luce dell’amore del Padre. E rendici partecipi della tua vita santa, affinché, con pazienza, insieme a te portiamo anche noi il peso dei nostri fratelli.
1ª Domenica di Quaresima - anno A
1ª lettura Gn 2,7-9;3,1-7 dal Salmo 50 2ª lettura Rm 5,12-19 Vangelo Mt 4,1-11
La liturgia della Quaresima incomincia ricordandoci una situazione molto negativa. Nella nostra vita è presente il peccato, ed è presente per colpa nostra. Il peccato consiste nell’essere distanti da Dio, nel voltargli le spalle: una situazione in cui ci si potrebbe trovare anche senza saperlo e senza volerlo, ma quando questa situazione la accettiamo o la vogliamo, e quando facciamo qualcosa per continuarla ed esplicitarla, allora in quel peccato ci troviamo per nostra colpa. Oggi vediamo che cosa succede ad Adamo e ad Eva, due personaggi in cui ci rispecchiamo tutti. Noi veniamo al mondo come creature amate e volute da Dio, ma non siamo capaci di essere fedeli al suo amore e ci lasciamo condizionare da quel che sembra bello e buono ai nostri occhi e ai nostri sensi. Allora quello che Dio ci dice passa nel dimenticatoio e ci troviamo con le spalle girate a lui. Camminiamo su una strada che ci allontana dal Padre, da colui che ci ama e ci vuole capaci di comunione con lui nell’amore. La voce, che ci fa valutare i nostri pareri e le nostre sensazioni come più vere della Parola di Dio, è la voce del serpente, voce avvelenata e subdola. Se la fede in Dio non è ben ancorata, chi resiste? Come facciamo noi ad essere, nella fede, migliori di Adamo e di Eva?
Durante il passaggio del popolo attraverso il deserto, Mosè aveva dovuto innalzare su un’asta un serpente di rame, perché chi l’avrebbe guardato con fiducia fosse guarito dai morsi mortali dei serpenti. Gesù stesso ha letto quell’episodio come profezia. Lui è stato innalzato sulla croce, dove appariva “come verme, non uomo”, per attirare tutti a sè affinché fossero salvati. Gesù è l’ancora della nostra fede, è colui che ci può riportare al Padre. È lui che può far sparire da noi il peccato, quel peccato che ci trascina in comportamenti colpevoli, che poi ancor più ci rendono deboli e incapaci di camminare verso il Padre. È Gesù il salvatore! Oggi il vangelo ci racconta come proprio lui ha vinto la forza del peccato che gli si presentava con la voce del tentatore. Il tentatore, per farsi seducente, usava sottili ragionamenti. Li usava non per attirare al Padre, ma per ignorarlo o per comportarsi come se lui non avesse detto nulla. Usava addirittura la Parola di Dio, ma non per amarla, bensì per servirsene per il proprio tornaconto. Usava le promesse profetiche di Dio, quella del Regno senza fine destinato al Messia, per portare Gesù stesso all’adorazione di Satana, invidioso del potere che il Figlio obbediente riceve dal Padre. Gesù ha vinto con l’obbedienza umile. Lui non ha voluto dar credito al pensiero che gli avrebbe fatto dimenticare l’amore del Padre.
Il pane è necessario alla vita, ma la vita stessa è dono di Dio: attendere da lui ogni indicazione è vita sicura! La Parola di Dio è vera, ma non dev’esser messa alla prova: sarebbe dubitare di Dio! I regni umani sono una realtà, ma regnare sugli uomini è servizio d’amore e non esercizio di potere: solo Dio può rendere capaci e solo lui può dare l’incarico. Gesù non vuole appropriarsi nè del pane, nè della Parola e nemmeno del potere. Queste sono tentazioni che fanno l’uomo succube di Satana, l’avversario. Con l’umiltà e con l’amore Gesù rimane aggrappato alla Parola di Dio, e così il peccato non lo travolge: egli rimane unito al Padre come figlio amante e ubbidiente.
San Paolo, scrivendo ai Romani, ragiona su questo fatto e ci dice che l’ubbidienza di Gesù è fondamentale. Grazie a lui infatti noi possiamo essere salvati. Tenendoci uniti a lui la situazione di peccato in cui eravamo fin da Adamo, situazione che abbiamo ereditato e imparato dalle generazioni passate, viene superata. Uniti a Gesù le infedeltà dei nostri padri non ci condizionano più. Lo vediamo guardando i bambini. Quando essi sono aiutati a guardare a Gesù, anche se crescono in una famiglia senza timor di Dio e senza fede, godono della sua pace e vivono capaci di amare e anche di soffrire per il Signore. Gesù è salvatore! Viviamo come i bambini che si lasciano affascinare da Gesù!
2ª Domenica di Quaresima - anno A
1ª lettura Gn 12,1-4a dal Salmo 32 2ª lettura 2Tm 1,8b-10 Vangelo Mt 17,1-9
Domenica scorsa abbiamo osservato la disobbedienza di Adamo, oggi consideriamo invece l’obbedienza di Abramo. Dio gli fa una richiesta molto impegnativa, promettendogli la sua benedizione. “Vattene dalla tua terra…, verso la terra che io ti indicherò”: Abramo deve rinunciare a tutto: proprietà, sicurezza sociale, sicurezza economica, affetti, per ancorarsi alla Parola di colui che gli sta parlando. Obbedienza, espressione di fiducia completa al Dio invisibile: e Abramo partì.
L’obbedienza di Abramo è profezia della vita di Gesù. È lui l’obbediente per eccellenza, colui che ha vissuto la fiducia in Dio in modo completo, totale. Oggi lo contempliamo sul monte, mentre conversa con Mosè e con Elia, i due personaggi che hanno vissuto la fede in modo esemplare. Essi sono quelli che hanno parlato con Dio, lo hanno ascoltato e gli hanno ubbidito. Essi parlano con Gesù, quasi a dire che Gesù compie la loro attesa, anzi, colui che essi hanno profetizzato con la loro vita. Egli è colui che, nuovo Mosè, deve guidare il popolo verso il traguardo finale, ed è colui che, nuovo Elia, al popolo offre la fede autentica nell’unico Dio vero. Mosè aveva innalzato il serpente di rame nel deserto, profezia di colui che sarà innalzato per la salvezza dei peccatori. Elia, sul Carmelo, ha offerto il sacrificio gradito a Dio, che lo ha accolto con il fuoco, profezia del vero sacrificio di Gesù, che Dio ha dimostrato di gradire con il farlo risorgere dai morti. Dio si compiace di questo suo Figlio, e ordina ai tre discepoli di ascoltarlo. È lui che offrirà loro la Parola eterna e vivificante, la Parola creatrice, la Parola che illumina i passi dell’uomo. “Ascoltatelo”, disse la voce dall’alto, voce che continua a risuonare anche ai nostri orecchi.
Le settimane della Quaresima iniziata sono esercizio all’ascolto di Gesù. Lo ascolteremo in silenzio. I tre discepoli, che hanno visto la luce sul volto del Signore, sono scesi dal monte in silenzio. Gesù stesso ha raccomandato loro di tacere. Prima di raccontare quanto hanno visto e quanto hanno udito e quanto hanno vissuto sul monte, essi devono riflettere, devono lasciare che quella visione e quella Parola porti frutto anzitutto nel loro intimo e li trasformi. Anche noi ascoltiamo la Parola in silenzio. Siamo certamente chiamati a proporre il vangelo a chi incontriamo, ma dobbiamo proporre un vangelo che noi stessi viviamo, che noi stessi lasciamo diventare vita, pensieri, azione concreta di amore e di fedeltà. Quando davanti ai nostri occhi c’è “Gesù solo”, come davanti agli occhi di Pietro, Giacomo e Giovanni, allora la nostra vita stessa è un dono per coloro che incontriamo. Il silenzio è anche il modo più bello con cui possiamo avvicinarci alla Passione del Signore, quella Passione che ci ottiene salvezza e che è il passaggio obbligato per tutti quelli che vogliono arrivare alla pienezza di vita. Pienezza di vita è la pienezza dell’amore, del dono di sè, e vi si giunge solo morendo a noi stessi, lasciando morire i nostri stessi desideri.
Ci avviciniamo alla Pasqua in silenzio, un silenzio nel quale accogliamo Gesù che si immerge nel battesimo della sua passione. Dentro questo silenzio accogliamo anche noi le eventuali contrarietà e fatiche della vita per offrirle al Padre insieme con il sacrificio di Gesù. A questo ci invita l’apostolo. “Con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo”.
Vogliamo prendere sul serio questo invito, e non rifuggire la sofferenza che l’amare con fedeltà ci costa. Cerchiamo anche qualche volontaria rinuncia, in unione con l’offerta d’amore di tutta la Chiesa. Qualche digiuno, non solo l’astinenza dalle carni, qualche prolungato momento di ascolto della Parola, partecipazioni a incontri di preghiera e di catechesi, assistenza a qualche malato, vicinanza a persone sofferenti: sono fiori che segnano la nostra strada di avvicinamento alla Pasqua del Signore, e lampade che danno luce alla nostra vita come vita che si muove nella fede, la stessa fede accolta da Abramo.
3ª Domenica di Quaresima - anno A
1ª lettura Es 17,3-7 dal Salmo 94 2ª lettura Rm 5,1-2.5-8 Vangelo Gv 4,5-42
La sete dell’uomo: questo sembra essere il tema cui le letture di oggi fanno riferimento. Il popolo, guidato da Mosè, ha sete. Chi può dare all’uomo assetato l’acqua che lo disseti? Nel deserto non c’è speranza di trovare dell’acqua, e perciò la sete è sinonimo di morte imminente. Nemmeno Mosè sa cosa fare, e si lamenta con Dio. Per Dio i problemi dell’uomo sono occasione per manifestarsi, per farsi conoscere, per aiutare l’incredulità umana a fidarsi e affidarsi a lui e quindi ricevere vita.
La sete d’acqua è simbolo di tutti quei desideri inappagati del cuore che si fanno sentire e generano ansia e tormento, e spesso trascinano lontano dalla via di Dio verso strade illusorie indicate dall’egoismo. Ogni sete è appagata solo dal Signore. È lui che conosce i bisogni dell’animo umano, ed è lui solo che sa quali sono i momenti e i modi per soddisfarli.
Di sete parla pure il Vangelo. È Gesù che ha sete di acqua quando a mezzogiorno si siede sul pozzo di Giacobbe. La sua sete è solo occasione per aiutare la donna di Samaria ad accorgersi di essere più che assetata, di avere dentro di sè molte seti insoddisfatte che lui soltanto può acquietare. Ella non vorrebbe fare ogni giorno la fatica di andare al pozzo a prendere l’acqua, non ha una vita affettiva ordinata e fedele, non ha chiarezza sulla preghiera e quindi sulla vita interiore e sulla salvezza finale. Di solito le donne vanno al mattino o alla sera ad attingere l’acqua, nelle ore meno calde; lei va a mezzogiorno, e questo dice il disordine della sua vita, la pigrizia e la volontà di non incontrare altri. Incontra invece Gesù. Nell’incontro egli si comporta in modo nuovo, sorprendente. Un giudeo non avrebbe mai accettato di bere dal recipiente immondo di un samaritano, ed egli invece lo chiede. Un giudeo non avrebbe parlato con una donna della Samaria, per non perdere tempo e per non gettare le sue perle ai cani: Gesù invece cerca il dialogo con lei e vuole insegnarle le cose di Dio. Gesù ama, e ama tutti. Il suo amore disseta, il suo amore riempie di vita e di gioia. Il suo amore è luce che permette di vedere il Padre e tutti gli uomini come suoi figli. La donna a contatto con l’amore spirituale e concreto di Gesù diventa nuova: non è più lei. Ella sfuggiva il contatto con gli altri, ora corre a chiamare i concittadini. Finora aveva solo cose da nascondere, ora deve manifestare la sua gioia e la sua pienezza. L’incontro con Gesù le ha cambiato la vita. E adesso ella è persino esempio e modello per i discepoli. Essi avevano lasciato il Maestro per andare ad occuparsi del cibo, e a nessuno di loro è passato per la mente di invitare i samaritani a conoscere Gesù. Questi arrivano correndo per le parole della donna, cui finora non avevano potuto dare alcuna fiducia, anzi, l’avevano solo criticata e giudicata.
A questo punto devo fare una verifica dei miei modi: preoccupato delle mie cose materiali, non ho a volte il coraggio di invitare altri ad incontrare il mio Signore: li hanno invitati invece persone disperate, persone disordinate, persone che sembrano essere al margine della Chiesa: esse sono decise nel presentare quel Gesù crocifisso, che io penso non sia gradito ai miei interlocutori. È ancora vera questa pagina del vangelo. Gesù siede ancora sull’orlo dei pozzi dove corrono gli uomini di questo mondo. Egli là è pronto ad accogliere le singole persone e le folle che accorrono, attirate non dai discepoli, ma dalla testimonianze di peccatori che cambiano vita, che raccontano il loro incontro con lui. Gesù, nonostante tutto, non licenzia i suoi discepoli. Anzi. A loro indica la messe abbondante che sta loro davanti. Devono prepararsi al loro compito, avvicinare a Gesù coloro che accorrono, assetati di lui!
I discepoli stessi devono tener sempre presente di essere essi stessi graziati da Dio. Possono vantarsi non di sè, ma solo di lui. Questo ci vuol dire San Paolo. Noi siamo peccatori, e quindi non siamo migliori di nessuno. Abbiamo un compito, portare tutti a Gesù, ma prima di tutto dobbiamo restargli vicini noi, per essere riempiti e trasformati dal suo Spirito, per essere dissetati alla e dalla sua presenza. La prima sete da dissetare non è quella degli altri, bensì la nostra!
4ª Domenica di Quaresima - anno A
1ª lettura 1Sam 16,1.4.6-7.10-13 dal Salmo 22 2ª lettura Ef 5,8-14 Vangelo Gv 9,1-41
Quante volte succede quello che ci descrive il primo libro di Samuele! Senti una persona parlare molto bene, spiegare benissimo la Bibbia, raccontare storie edificanti, ma Dio ti dice: “Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo”. Vedi una persona che sa fare di tutto, che riesce in tutte le sue azioni, e Dio ti dice: “Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo”. Incontri una persona che si presenta bene, con un bel volto sorridente, con una invidiabile gentilezza, pronto ad una generosità fuori del normale, e Dio ti dice: “Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo. Che cosa vede Dio? I suoi occhi sono proprio tanto diversi dai nostri? “L’uomo vede l’apparenza, il Signore vede il cuore”. Il Signore vede se il nostro cuore è immerso nel suo, se il nostro cuore è ricolmo di amore gratuito e misericordioso come il suo, se il nostro cuore è libero da egoismo, da invidia, dal desiderio di emergere. Il profeta Samuele si è meravigliato di quello che Dio gli diceva mentre davanti a lui passavano i forti figli di Iesse. Nemmeno lui conosceva in anticipo le scelte di Dio e come esse si rivolgono a coloro cui nessuno di noi dà importanza.
L’episodio della scelta di Davide da parte di Dio deve farci stare molto attenti: siamo portati a giudicare… e invece, spesso, coloro che noi giudichiamo fuori posto, sono i suoi preferiti. I discepoli di Gesù pensavano che il cieco fosse peccatore o figlio di peccatori. Questo giudizio li lasciava indifferenti alla sua sofferenza e li teneva distanti da lui. E invece proprio quel cieco è stato degno di soffrire per il Signore: perché ha dato testimonianza a lui, è stato scacciato dalla sinagoga, escluso dal popolo; con la sua fede, è diventato modello persino dei discepoli. I farisei si permisero di giudicare addirittura Gesù, di pensare di lui che fosse un peccatore, uno che non osserva la loro legge. Anche della loro Legge pensavano che fosse un chiodo fisso e non un’indicazione data per amare l’uomo bisognoso di incontrare Dio. Il sabato Dio l’aveva dato come giorno in cui lasciarsi amare da lui! Gesù vedeva il desiderio del Padre di amare quel cieco completandone la creazione con l’aprirgli gli occhi, e perciò non ha creduto fosse una disobbedienza farlo nel giorno della gioia di Dio. Egli ha adoperato quello stesso fango che Dio ha usato all’inizio per formare l’uomo. L’acqua poi che il cieco obbediente ha usato per lavarsi, ha fatto sparire le tenebre non solo dai suoi occhi, ma anche dal suo cuore: egli ha cominciato ad amare Gesù e si è disposto ad accoglierlo come proprio salvatore.
L’ultima domanda, formulata come domanda retorica dai farisei, è una domanda che io pure voglio pormi: Sono cieco anch’io? Dato che non vedo quel che vede Dio, che non vedo con quell’amore con cui Dio vede il mio prossimo, dato che Dio sceglie ciò che io non avrei scelto, è segno che anch’io sono cieco. Per grazia posso rivolgermi a Gesù e chiedergli di porre il suo fango sui miei occhi. Sembra un controsenso mettere fango sugli occhi: è un’operazione che potrebbe… lasciarmi cieco del tutto? Per gli uomini sì: gli uomini giudicano ciechi i credenti, e li disprezzano. Ma è proprio colui che non crede che rimane cieco, privo della sapienza di Dio. Il credente, vedendo l’amore del Padre, si rallegra, e la sua gioia diventa capacità di generosità e di amore gratuito e fedele. La vita del credente diviene un dono per tutti, perché egli non fonda la propria decisione di amare nè sulle proprie qualità nè sui meriti dei bisognosi, bensì soltanto sulla grandezza della misericordia del Padre. E questo grazie a Gesù!
San Paolo ci aiuta esortandoci a cercare di capire quel che piace al nostro Dio. Benché anche noi fossimo stati ciechi come tutti, ora però, grazie al Signore Gesù, abbiamo in noi la luce della fede che genera amore agli uomini e amore alla verità eterna. Siamo in grado perciò di vivere diversamente dai modelli che ci vengono proposti, abbiamo capacità e coraggio di discernere il male e condannarlo. Per questo il mondo non ci vuole come suoi e ci odia, ma è proprio la diversità del nostro giudizio che ci rende parola nuova, segno significativo e prezioso, sale con sapore. Approfittiamo di questo tempo quaresimale per nutrirci abbondantemente di Parola di Dio per essere suo dono al nostro mondo che egli ama e a cui perciò vuole offrire noi come lampade accese, perché molti vedano la strada e siano salvati dalla perdizione dove sono già caduti.
5ª Domenica di Quaresima - anno A
1ª lettura Ez 37, 12-14 dal Salmo 129 2ª lettura Rm 8, 8-11 Vangelo Gv 11, 1-45
Com’è misteriosa la nostra fede! Noi siamo convinti di credere e professiamo la nostra fede, e poi dobbiamo riconoscere di non aver creduto! Così Marta: dice di credere, dichiara solennemente la sua fede con parole che Gesù stesso riconosce vere ed esemplari, e poi, quando il Signore ordina di togliere la pietra, è la prima che fa rimostranze per impedire che la sua Parola venga osservata. Crede che Gesù è il Figlio di Dio, ma ritiene più sicura la propria esperienza umana: un morto di quattro giorni non va disturbato, non lo può scomodare nemmeno Gesù, nemmeno se è il Cristo! E con operazioni simili, anche noi rendiamo inoperosa e inutile la nostra fede, anzi, impediamo a Dio di operare i suoi prodigi nella nostra storia.
La liturgia di oggi ci vorrebbe svegliare. “Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio” dice Dio per bocca del profeta. Con queste parole egli vuole darci speranza. Dio è capace di sorprenderci, di fare cose nuove, inaudite, da noi nemmeno mai sognate. Cosa faremo? Obbediremo alla sua voce, eseguiremo i suoi suggerimenti, e vedremo novità, vedremo che la sua Parola è davvero un seme da cui nasce vita inaspettata.
“Togliete la pietra”, “Lazzaro, vieni fuori”. Se nessuno avesse obbedito alla prima di queste parole di Gesù, che a noi appare insensata, egli non avrebbe potuto pronunciare la seconda. Quando qualcuno gli obbedisce, Gesù può farsi capire dai morti, può parlare comunicando loro la vita. Attorno a noi sepolcri e sepolcri… Persone amiche, parenti, vicini e compagni di cammino ci fanno soffrire perché li vediamo chiusi in se stessi, incapaci di comunione, fermi e schiavi delle cose che passano, legati da realtà senza valore e senza futuro. “Togliete la pietra” sembra dirci Gesù. Abbiate speranza, non arrendetevi. Mettete in luce la povertà di quel vivere schiavo del nulla, e permettete al Signore di far arrivare là la sua voce. La Parola di Gesù potrà essere udita dai morti, e sembra che proprio quella aspettino per fare qualche passo. Poi ancora bisogna aiutarli a sciogliere le bende, perché vedano la luce.
La situazione del mondo, e della Chiesa in esso, non è mai disperata. C’è Gesù con noi. Egli si mette in gioco, rischia la vita per avvicinarsi al sepolcro per farne uscire colui che è già tra i morti. Lo fa per aiutare i discepoli a credere in lui: sono essi che devono uscire dalla loro incredulità, che è una situazione di morte simile al sepolcro. Chi non crede in Gesù infatti non ha vita, non riesce ad entrare in comunione con gli altri, non gusta le gioie spirituali, non ha forza per accogliere e portare le croci e non vede un significato del proprio vivere all’infuori di quello puramente materiale. Oggi, guardando Lazzaro che esce dopo quattro giorni dalla sua morte, apriamo gli occhi su colui che lo chiama e cominciamo a credere, o rafforziamo la fiducia in lui e nella sua parola.
È necessario e utile osservare un particolare. Prima di dare l’ordine al morto, Gesù ordina a coloro che lo circondano di togliere la pietra e, dopo che Lazzaro è uscito, Gesù ordina ancora a chi sta con lui di liberarlo dalle bende. Gesù non opera da solo, chiede collaborazione agli uomini, discepoli o altri. E questi, che possono collaborare con Gesù per la vita nuova, possiamo essere noi, posso essere io! Mi offro a lui in questi ultimi giorni di quaresima per aiutare qualcuno ad incontrare Gesù, a fare qualche passo obbedendo a lui: aiuterò qualcuno ad essere presente a qualche preghiera o celebrazione, ad avvicinarsi al sacramento della confessione, a vivere le celebrazioni del triduo pasquale, in modo che possano ricevere lo Spirito di Dio, che solo là è presente dove Gesù opera. Rinnoviamo e rafforziamo la nostra fede perciò, ripetendo con amore le parole di Marta: “Io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”!
Domenica delle Palme - anno A
processione: Mt 21,1-11
1ª lettura Is 50,4-7 dal Salmo 21 2ª lettura Fil 2,6-11 Vangelo Mt 26,14 - 27,66
Il canto del nostro Osanna, con cui siamo venuti in chiesa portando l’ulivo, si contrappone al grido “Sia crocifisso”, della folla aizzata dai capi: Pilato si è lasciato così convincere a condannare Gesù. Riusciremo a restare fedeli al canto che abbiamo innalzato? La nostra fedeltà sarà messa a dura prova dalle molte voci che si odono ogni giorno attorno a noi, voci che ci vogliono distogliere dal continuare ad amare il Signore crocifisso. Le meditazioni e le celebrazioni che ci vengono offerte nei giorni della Settimana Santa ci aiutano nella nostra fedeltà. Esse ci accoglieranno proprio per rafforzarci nel nostro essere discepoli e per distanziarci dal pensare del mondo, frivolo e vuoto, che ci circonda e ci influenza.
Abbiamo seguito Gesù mentre entrava a Gerusalemme, ora egli esce dalla città con la croce. Allora veniva acclamato, ora viene rifiutato. Allora ricordavamo i suoi miracoli, ora tutto è dimenticato e tutti sono soddisfatti della libertà accordata a Barabba. Unica diversità è la vicenda vissuta da Simone, un estraneo, non il discepolo. Questi viene costretto a servire Gesù e ad accompagnarlo. Gesù ne è sollevato, benché Simone lo segua malvolentieri. È un particolare che viene accennato brevemente, prima di ascoltare tutte le offese e derisioni che vengono rivolte al Signore dai capi e dai passanti. Questi si fanno beffe di lui con le parole “salva te stesso”! Salvare se stessi è proprio il contrario di quanto Gesù ha sempre cercato di fare e insegnare. Chi vuol salvare se stesso perde la vita, perde l’unione con Dio, che è amore che dona se stesso. Salvare se stesso è la tentazione che continua ad insinuarsi nei pensieri degli uomini e che vorrebbe condizionare anche i credenti per rendere inutile il loro credere e abbassare il tono del loro amore, quell’amore con cui essi dovrebbero cambiare il mondo.
Oggi, osservando Gesù, lo vogliamo adorare. Non ci accontenteremo di dirgli belle parole di elogio e di amore, ma cercheremo di trovare le occasioni per condividere con lui quell’amore che offre se stesso. Troveremo in questa settimana i momenti per morire a noi stessi pur di realizzare qualche Parola del Signore: le parole che ci propongono la preghiera, il digiuno e la carità. Parteciperemo alla preghiera della comunità, apriremo il cuore ai poveri del mondo e soprattutto a chi ci circonda in casa nostra, e rinunceremo a qualcosa che ci piace mangiare o ascoltare o vedere pur di dare maggior spazio a Dio e ai fratelli.
Domenica di Pasqua
1ª lettura At 10,34.37-43 dal Salmo 117 2ª lettura Col 3,1-4 Vangelo Gv 20,1-9
Questa notte abbiamo celebrato l’avvenimento più importante: Gesù, rifiutato dagli uomini e condannato da loro, è uscito dalla morte che l’aveva ingoiato. Questo avvenimento, la morte, non è più il nostro traguardo, non è più il momento atteso da noi con terrore: ora sappiamo che una vita nuova, non più segnata dalla morte, è possibile. Gesù è vivo! Egli ha trionfato. Cristo è risorto, e noi, che siamo suoi, abbiamo la certezza che risorgeremo con lui. Abbiamo celebrato nella notte perché il Signore è risorto nella notte, l’abbiamo celebrato con la luce del fuoco e del cero, perché la sua risurrezione illumina il buio tenebroso dell’uomo, l’abbiamo celebrato con l’acqua, perché nell’acqua siamo morti con lui e dall’acqua siamo risorti, l’abbiamo celebrato col pane e col vino perché egli stesso ce li ha dati come memoria perenne di questo avvenimento straordinario.
Maria Maddalena e poi Pietro e Giovanni corrono al sepolcro di Gesù persuasi di trovarvi il suo cadavere, e invece… Maria si convince che questo è stato trafugato, mentre i due discepoli osservando i particolari capiscono che dev’essere avvenuto qualcosa di straordinario, di cui non si rendono conto. Per comprendere cos’era in realtà avvenuto dovevano ricordare le Scritture. Queste parlano di una vita sulla quale la morte non ha potere, ed è la vita di colui che è amato da Dio in modo particolare, il suo Messia. Anche noi, come i due apostoli, rimaniamo muti e sorpresi dalla festa di oggi.
Pasqua è la luce di tutta la nostra vita. Non possiamo vivere senza questa luce. Il cristiano ogni giorno ricorda questo fatto quando fa il segno di croce e quando ogni domenica pensa che è domenica. Il cristiano senza la Pasqua non è cristiano. Il cristiano prende dal mistero pasquale la coscienza e la conoscenza di se stesso come uomo di Dio che vive nel mondo, e riceve quindi dallo stesso mistero la forza di perdonare, quella forza che è necessaria ogni giorno, e ancora la forza di vivere senza farsi ingannare dalle cose materiali, di guardare gli altri con uno sguardo che trabocca amore. La Pasqua per il cristiano è tutto: è speranza, è certezza di un futuro eterno, è luce per l’oggi, è fuoco che lo riscalda e lo rinnova. La pasqua per il cristiano è gioia: Gesù è risorto! Gesù, distrutto dalle risa, dall’invidia e dall’odio degli uomini, è risorto. Egli è l’unico ad essere risorto, e perciò tutti gli devono tutto. Il cristiano che soffre per la fede, il cristiano deriso nei vari ambienti dove vive, il cristiano odiato per la sua fede e per l’inspiegabilità del suo amore e del suo impegno, questo cristiano è nella gioia grazie alla pasqua. Gesù è risorto. Non dimenticarlo né oggi né mai. Ricordalo quando soffri, quando sei solo e ti senti abbandonato da tutti, quando cominciano a farsi sentire le malattie: Gesù è risorto!
La luce della pasqua ti accompagni sempre tutto l’anno. Ogni settimana vivi la tua pasqua, la pasqua di Gesù, vivila in comunione con tutta la Chiesa, per trasmettere speranza e fiducia a tutto il mondo.
2ª Domenica di Pasqua - anno A
della Divina Misericordia
1ª lettura At 2,42-47 dal Salmo 117 2ª lettura 1Pt 1,3-9 Vangelo Gv 20,19-31
Quest’anno la domenica della Divina Misericordia è particolarmente significativa: proprio oggi viene beatificato il papa Giovanni Paolo II: proprio lui ha voluto che questa festa fosse celebrata da tutta la Chiesa. Egli ha seguito i suggerimenti di un’umile suora polacca, M. Faustina Kowalska: morta a 33 anni nel 1938 e beatificata e canonizzata da lui nel 2000. In un suo libro ella riferisce parole come pronunciate da Gesù riguardanti appunto la sua infinita misericordia. Proprio quei messaggi suggeriscono di celebrarne la festa nella domenica dopo Pasqua. Di misericordia parla san Pietro nella sua lettera, che oggi ascoltiamo. In che cosa consiste o come si manifesta la misericordia di Dio, detta “grande” dall’apostolo? Essa si realizza e si manifesta come frutto della risurrezione di Gesù Cristo dai morti, che è la nostra rinascita nel battesimo. Durante la veglia pasquale ne abbiamo rinnovato le promesse e il Signore ha rinnovato in noi la grazia della sua vita, la vita eterna, quella vita che nessuno di noi poteva conoscere perché l’accesso ci era precluso. Con la sua morte e risurrezione Gesù ce ne ha aperto il passaggio. Unendoci a lui nel morire alle cose del mondo e nel vivere con lui e per lui, egli ci fa gustare la letizia di una nuova esistenza che non si nutre delle cose che passano e non ha come traguardo il raggiungere le illusioni che ci offre il mondo. Il nostro traguardo ora è al di là di questo mondo, oltre ciò che si vede. E di questo traguardo abbiamo certezza, perché promesso e raggiunto dal nostro Gesù. Le afflizioni che ancora ci restano sono solo delle prove che, superate, danno a vedere che la nostra fede è preziosa e potente. Essa è una fede che ci fa amare il Signore di un amore grande e bello, bello perché capace di offrirsi a colui che non vediamo. Questa stessa fede, che ci fa amare l’invisibile Gesù, ci tiene uniti tra noi: “Tutti i credenti stavano insieme”, dice san Luca negli Atti degli apostoli. La fede li rendeva capaci e generosi nell’amarsi, nell’ascoltare gli apostoli, nell’aiutarsi a pregare, nel servirsi gli uni gli altri e nel partecipare alle celebrazioni dei misteri del Signore, per renderle festose con la propria presenza.
Hai mai pensato che la tua presenza è necessaria alla Messa della domenica perché il Signore possa dare grazia e gioia a quanti vi sono riuniti? Tu sei necessario alla Chiesa, la tua fede è necessaria! Guarda cosa fa Gesù l’ottavo giorno. Si rende nuovamente presente ai suoi riuniti, ma, prima di dire loro qualcosa, va dritto dall’incredulo Tommaso e fa di tutto per riportarlo alla comunione di fede con gli altri. Senza la fede di Tommaso Gesù stesso non avrebbe potuto dare gioia agli altri e nemmeno trasmettere loro il suo Santo Spirito. Con Tommaso, ostinato e orgoglioso, Gesù usa la sua misericordia, davvero grande. Avrebbe potuto dire al suo discepolo: Ci sono qui dieci uomini che ti testimoniano la mia risurrezione: perché, Tommaso, non credi al cambiamento che vedi nei tuoi amici? E invece, con mitezza e umiltà Gesù lo invita: vieni a vedere con i tuoi occhi, vieni a toccare con il dito e con la tua mano! Come Gesù è misericordioso con Tommaso, così lo è con me e con te. Non siamo forse sempre un po’, o molto, increduli, nonostante le tante prove che egli ci ha dato di essere con noi? A parole crediamo, ma poi coltiviamo paure e diffidenze, come non credessimo affatto. Diciamo di essere credenti, ma poi facciamo quello che ci piace invece di accogliere gli insegnamenti e le proposte del Signore, invece di tenerci uniti alla sua Chiesa, dove egli è presente e operante. Siamo peggio di Tommaso, che si è inginocchiato a dichiarare la propria fede rinata, mentre noi addirittura rifiutiamo di riunirci agli altri nel giorno del Signore, perché non crediamo che egli sia là ad attenderci.
Nel giorno “del Signore” egli stesso dona la sua “Pace” e il suo “Spirito”. Perché molti, che si dicono cristiani, trovano più interessante viaggiare e divertirsi oppure dormire e oziare? Anche per loro e proprio per loro è grande la misericordia manifestata da Gesù! Egli aspetta, egli attende tutti, egli è pronto ad accogliermi e accoglierti con la luce del suo volto che si trasmetterà al tuo, per renderti testimone e gioioso portatore della vita nuova che il battesimo ha seminato nella tua vita!
3ª Domenica di Pasqua - anno A
1ª lettura At 2,14.22-33 dal Salmo 15 2ª lettura 1Pt 1,17-21 Vangelo Lc 24,13-35
Pietro, ricevuto lo Spirito Santo, parlando agli “Uomini d’Israele”, annuncia Gesù. È lui che Dio ha accreditato come nostro salvatore. È lui perciò che dobbiamo conoscere e amare per essere salvati. Di Gesù è necessario conoscere e accogliere la risurrezione operata da Dio, dopo che gli uomini lo hanno invece ucciso. Opera degli uomini è dare la morte, opera di Dio, dare la vita. Se Dio ha dato la vita a colui che gli uomini hanno ucciso, è segno che quell’uomo deve essere amato e accolto e ascoltato. Il vangelo di oggi ci presenta appunto Gesù mentre si fa conoscere e riconoscere da due discepoli increduli e affranti. Essi hanno visto la sua morte e sono rimasti persuasi che questa morte era la fine. Essa era la fine della vita di Gesù, ma anche delle loro speranze, della loro attesa, della loro fede. Cleopa e il suo amico, camminando verso un villaggio di campagna, sono il simbolo di tutti gli uomini che hanno perso ogni speranza e vedono solo buio davanti a sè. Ma i due, nel loro cammino, vengono avvicinati e interpellati da uno sconosciuto che si mette al loro fianco. Questi li ascolta e li interroga, poi li rimprovera e li istruisce. La sua istruzione è basata tutta sulle Scritture, che essi conoscevano, ma che non erano ancora riusciti a prendere sul serio e a comprendere appieno.
Il metodo di questo viandante, che noi sappiamo chi era, è tutto da imparare. Anzitutto abbiamo bisogno di leggere con attenzione le Scritture e insegnarle con amore. Esse sono fondamentali, non possiamo prescindere da esse. Anche se uno arriva a credere in Gesù prima di conoscere le Scritture, dopo le deve imparare per approfondire la conoscenza e l’amore al Signore. Conoscere le Scritture significa imparare la fede di Abramo e la sua obbedienza, la fede di Isacco e quella di Giacobbe, che si umilia di fronte alla superbia del fratello, ma non davanti all’idolatria e agli ingiusti soprusi del suocero. Conoscere le Scritture significa stupire della vicenda di Giuseppe, venduto dai fratelli, che non solo non si vendica contro di loro, ma li benefica, riconoscendo che ogni sua sofferenza è stata provvidenzialmente voluta da Dio per il bene di tutta la famiglia. Conoscere le Scritture vuol dire seguire con attenzione il cammino di Mosè, dal Nilo, in cui era stato abbandonato, fino al confine con la Terra promessa. E poi ancora conosce le Scritture chi condivide la fede di Elia e quella di Eliseo, e ascolta le profezie della vita e degli scritti di Davide, di Isaia, di Geremia, di Ezechiele e Daniele. In ognuna di queste vicende è nascosto il mistero di Gesù risorto. Egli ha ubbidito fino alla morte, si è lasciato umiliare, ma ha saputo resistere alle minacce di chi lo accusava d’infedeltà a Dio. Egli era presente nella vicenda di Giuseppe, venduto come lui, e più di lui salvatore non solo dei suoi fratelli, ma di tutti gli uomini del mondo. Egli è Mosè, che fin da piccolo doveva essere ucciso, ma poi è divenuto guida e pastore vero di noi tutti. Egli, più dei profeti, ha mostrato dove arriva la fede, o meglio l’amore del Padre a coloro che credono.
Attraverso le Scritture Gesù scalda il cuore dei due amici rassegnati al peggio, tanto che essi lo invitano nella loro casa a prendere il pane. Qui avviene quel miracolo che si ripete ormai ogni domenica e ogni giorno. Mentre egli spezza il pane essi lo riconoscono: è quel Gesù, che ritenevano morto. Egli invece ha parlato con loro, li ha illuminati e ora dà loro il cibo. E il miracolo continua: nella notte essi ritornano sui propri passi per incontrare la comunità dei discepoli riuniti. Chi incontra Gesù non vuole più rimanere solo, ma cerca gli altri credenti. Chi incontra Gesù diventa strumento di comunione anche a costo di grande fatica. Hai mai visto chi ha incontrato Gesù? Non ti sei accorto come questi cerca di incontrare altri credenti per condividere la propria esperienza di fede? Se tu non l’hai ancora fatto è segno che non hai ancora incontrato Gesù vivente, oppure l’hai incontrato, ma non l’hai invitato a fermarsi con te.
Gesù, vieni a camminare con me, vieni a istruirmi, ed io starò nella tua Chiesa come uno che dà testimonianza di te, della tua presenza, del tuo amore, della tua sapienza!
4ª Domenica di Pasqua - anno A
Giornata di preghiera per le vocazioni
1ª lettura At 2,14.36-41 dal Salmo 22 2ª lettura 1 Pt 2,20-25 Vangelo Gv 10,1-10
“Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso”. Così Pietro parla alla gente radunata dal fragore che ha accompagnato la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. Sentirsi dire “quel Gesù che voi avete crocifisso” deve aver scosso fortemente gli abitanti di Gerusalemme. Molti di loro infatti già si erano allontanati dal Calvario battendosi il petto. Tardi, ma si sono accorti che mettere a morte Gesù era stata oltre che un’ingiustizia, anche una follia. Ora Pietro ha questo coraggio, di dichiarare apertamente il loro peccato.
Con umiltà essi gli chiedono: “Che cosa dobbiamo fare?”. E allora Pietro, con decisione, risponde: “Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare”. Ecco il percorso indispensabile per chi ha crocifisso Gesù. Ora anche noi riconosciamo di aver preso parte al tradimento e alla condanna del Signore: il nostro peccato quotidiano, il nostro egoismo, le nostre disobbedienze a Dio non sono forse sostegno all’invidia dei sommi sacerdoti e alla decisione di Pilato? Che cosa dobbiamo fare?
Ci convertiremo e ci faremo battezzare. Siamo già stati battezzati, ma la conversione non l’abbiamo ancora portata a compimento. In noi è ancora vivo il peccato, o meglio ci sono vive le radici del peccato, che nutriamo ogni giorno con le nostre idolatrie, con il nostro orgoglio, con l’amore a noi stessi e alla considerazione vana da parte degli uomini: questi comportamenti fanno sì che non viviamo come battezzati. Ci sono molte cose che ai nostri occhi valgono più di Dio, e ad esse non rinunciamo, e così non seguiamo colui che egli ci ha mandato per guidarci alla vita eterna. Gesù infatti è il pastore che guida le pecore alla vita, al ristoro, al riposo, al riparo e alla comunione. Il pastore cammina davanti alle pecore per insegnare la strada e dare l’esempio. Egli in tal modo si accorge dei pericoli e li fa evitare alle pecore. Egli è davanti per essere seguito da chi cerca la vita vera. Gesù usa anche un’altra immagine per presentarsi: “Io sono la porta delle pecore”. Questa immagine completa l’altra, quella del buon pastore.
La porta è l’unico passaggio facile, ma soprattutto sicuro per essere in comunione e per essere protetti, per non essere preda del ladro e del distruttore. Passare per la porta significa essere salvati. Passare per la porta è entrare nella Chiesa attraverso il battesimo: non ci sono altri passaggi. “Ciascuno di voi si faccia battezzare”: già sono battezzato, ma significa qualcosa? La mia vita di battezzato si distingue da quella di chi ancora non conosce Gesù e non gli ubbidisce? Sono dentro la vita di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo? È vivo cioè anche in me l’amore che essi hanno per tutti, compresi i miei nemici?
Essere battezzato significa essere morto per le proposte futili e spesso dannose del mondo, essere morto per gli interessi puramente materiali, essere morto per i divertimenti che mi isolano dalle necessità dei poveri e dei sofferenti. Essere battezzato significa vivere in modo diverso, guardando e cercando “le cose di lassù, dove è Cristo”. E questo, anche a costo di soffrire, ci dice oggi San Pietro.
Essere battezzato significa intendere la propria vita come una chiamata, e affrontarla come risposta a colui che chiama. Mi chiama Gesù: egli mi chiama ad essere suo, a collaborare con lui, a fare miei i suoi desideri e la sua volontà, il suo amore per tutti gli uomini bisognosi di salvezza dal peccato. Egli mi chiama a dare la mia vita, a darla formando una famiglia dove si vive non per se stessi, ma per lui, dove l’amore tra sposo e sposa è fondato nella fede in Dio, dove si imita l’amore obbediente e fedele delle Persone divine. Egli chiama qualcuno, molti, a dare la vita a servizio delle necessità della Chiesa, consacrati alla sua missione e alla sua testimonianza nel mondo. Oggi in particolare preghiamo per questi chiamati, perché abbiano la generosità e la gioia di dire il loro sì e di portarlo a compimento. Questa preghiera dev’essere viva e presente ogni giorno, perché la Chiesa ha bisogno di pastori e di esempi significativi di vita donata del tutto a Gesù.
5ª Domenica di Pasqua - anno A
1ª lettura At 6,1-7 dal Salmo 32 2ª lettura 1Pt 2,4-9 Vangelo Gv 14,1-12
Gli Atti degli apostoli narrano una delle prime difficoltà sorte all’interno della comunità cristiana a Gerusalemme. La vita nella comunità non è facile per noi e non fu facile nemmeno per loro. Pur sapendo di essere tutti fratelli nella stessa fede e nello stesso amore a Gesù, la lingua e la formazione del passato influirono in maniera pesante sui rapporti interni alla comunità. Era facile per gli apostoli stessi, o per i loro primi collaboratori, anche senza accorgersene, fare delle preferenze nella distribuzione dei beni di prima necessità alle vedove povere. I credenti di lingua greca se ne accorsero e si lamentarono. È bello vedere come i Dodici accettarono l’osservazione e ammisero il proprio errore cercando subito una soluzione. Hanno cominciato così, provvidenzialmente, a distinguersi i diversi ministeri nella Chiesa. Gli apostoli riconobbero di avere un compito importante da cui non potevano esimersi, quello della preghiera e dell’annuncio del vangelo. Essi ne erano stati incaricati direttamente da Gesù in varie occasioni e, ultimamente, quando era salito al cielo! Il servizio ai poveri poteva essere demandato ad altri. Comunicarono la proposta a tutto il gruppo, e così nacque il ministero diaconale. I sette uomini scelti furono immersi nella preghiera della comunità e ricevettero l’imposizione delle mani dagli apostoli. La Chiesa cominciava così a strutturarsi in modo da essere gruppo ordinato, o, come dice San Pietro, come “edificio spirituale”. Questa è una bella immagine che ci trasmette il senso della fedeltà e dell’ordine: l’edificio è formato da molte realtà che si uniscono e rimangono al loro posto con fedeltà. Le pietre poste a fondamenta restano sempre nascoste nelle fondamenta, quelle che formano la parete rimangono in vista senza cambiar di posto, le porte e le finestre non si alternano nel servizio nè si invidiano a vicenda. E così ogni cosa si appoggia su un’altra e forma appoggio ad altre ancora. “Quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale”. E Gesù agli apostoli nel cenacolo dice: “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore”, cioè molti posti. I posti nella casa del Padre non sono poltrone da teatro, ma luoghi di servizio, diverse posizioni per amare, per donarsi. La Chiesa infatti, che è la casa del Padre che Gesù va a preparare, è una festa o una danza di tutte le capacità e possibilità di amare. Ogni forma di amore vi trova posto!
Il dialogo degli apostoli con Gesù continua con una domanda di Filippo, cui il Signore risponde con la frase che è diventata preziosa per ogni cristiano. “Io sono la via, la verità e la vita”. Gesù parla di se stesso e ci rivela con queste parole quanto egli sia prezioso e indispensabile per tutti e per ciascuno.
Egli è la via, la via per arrivare al Padre! Nessun altro infatti ci conduce a conoscere e ad amare un Dio che si è preso la responsabilità della nostra vita. Nessuna religione al mondo ci porta a sapere e a godere di essere amati nonostante la nostra piccolezza e povertà.
Egli è la verità che ci apre gli occhi sulle intenzioni più nascoste dell’amore del Padre. La verità è la conoscenza di colui che è nascosto ai nostri occhi, e quindi anche la conoscenza del suo amore che si nasconde dentro ogni fatto che capita e che ci capita! La verità non è quel che pare a me, quel che piace a me, come molti oggi dichiarano, ma verità è quel che vede e conosce Dio, il nostro creatore e Padre! Verità quindi è Gesù, il Figlio venuto per mostrarci le profondità dell’amore di Dio.
E Gesù è la vita. Vita non è soltanto respirare e digerire, vita è essere presenti al cuore e alla mente di Dio, vita è essere nel cuore di quel Padre da cui dipende tutto il mondo e tutto l’universo e soprattutto che contiene tutte le forme di amore possibili. Vita è Gesù, che è diventato piccolo per amare piccoli e poveri, peccatori e nemici. Gesù è la mia vita. Senza di lui sarei soltanto un tubo digerente mascherato dentro la vanità di qualche bel vestito. Gesù è la mia vita, è la vita dell’uomo. Chi lo porta nel cuore vive, chi non ha Gesù nel cuore non vive, ma spasima e fatica a continuare, e per continuare deve distrarsi da se stesso.
Gesù è nel Padre, e noi, uniti a Gesù, siamo anche noi partecipi della vita del Padre, cioè della grandezza e profondità del suo amore! Gesù, nessun altro che Gesù!
La Chiesa, formata da persone vive perché portano Gesù nel cuore, è il luogo dove l’amore continua a crescere e a dare forma e significato ad ogni credente. Tutti in essa diventano servitori, diaconi gli uni degli altri, pietre vive di un unico edificio!
6ª Domenica di Pasqua - anno A
1ª lettura At 8,5-8.14-17 dal Salmo 65 2ª lettura 1Pt 3,15-18 Vangelo Gv 14,15-21
Sentiamo che l’esortazione di San Pietro proviene da una persona che ama il Signore e che ha imparato ad amare gli uomini! “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori”: è un invito a coltivare la vita interiore, una vita che ci rende liberi da tutto e da tutti, che ci permette di essere disponibili ad amare. Infatti quest’adorazione interiore ci fa capaci di una parola sincera e vera per manifestare i misteri dell’amore di Dio che ci rendono sereni e fiduciosi. San Pietro sa che i credenti vivono in un ambiente che li rifiuta, che li giudica e li disprezza. Essi devono essere forti e ben radicati, devono essere in grado di non lasciarsi influenzare dalle calunnie e dal male che viene riversato su di loro. Sono proprio quelle persone che ci disprezzano che devono essere maggiormente amate, perché devono fare l’esperienza della bontà e della misericordia di Dio! Questo è un compito certamente difficile, ma Gesù ci assicura l’assistenza del Paraclito, che egli definisce “lo Spirito della verità”. I termini usati da Gesù stesso per indicare lo Spirito Santo sono significativi: “Paràclito” è il termine greco usato dall’evangelista, e vuol dire «chiamato a star vicino», quindi ad assistere. In qualunque situazione ci veniamo a trovare possiamo godere l’assistenza dello Spirito Santo, che per noi diventa consolatore, difensore, esortatore, avvocato, suggeritore. A chi Gesù promette lo Spirito Santo? “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito”: amare Gesù, questo è il compito del discepolo, che viene premiato con la presenza dello Spirito di Dio. Proprio questo ci ha raccomandato san Pietro. E come facciamo ad amare Gesù e ad adorarlo nel nostro cuore? Il Signore stesso ce lo dice: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama”. L’amore è fiducia, perciò chi ama Gesù gli dona fiducia e tiene presenti i suoi desideri, che diventano per lui dei comandi da osservare con attenzione. Noi ubbidiamo perciò a Gesù ed egli si impegna a farci assistere dallo Spirito Santo! Non avremo perciò più nessun timore, non avremo paura delle situazioni di sofferenza, di incomprensione e nemmeno di persecuzione che potremo incontrare.
La presenza dello Spirito Santo cambia la vita del discepolo e la rende feconda. Al battesimo si arriva per nostra scelta, dopo aver udito l’insegnamento del Signore e aver visto il suo amore per gli uomini. Il battesimo però non è la conclusione, bensì l’inizio di un cammino. Lo sapevano gli apostoli fin dall’inizio, e per questo Pietro e Giovanni sono scesi in Samaria, dove molti venivano battezzati. Essi li hanno raggiunti per invocare per loro e su di loro lo Spirito Santo: “Imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo”. Chi riceve lo Spirito Santo vive non solo godendo la presenza e l’amore di Gesù, ma anche collaborando con lui alla diffusione del vangelo, alla dilatazione dell’amore del Padre, all’edificazione della Chiesa di Dio. Quello che era successo nel cenacolo la sera della manifestazione del risorto deve succedere a tutti quelli che entrano a far parte della Chiesa col battesimo. Agli apostoli riuniti Gesù aveva consegnato lo stesso mandato che egli aveva ricevuto dal Padre e aveva alitato su di loro lo Spirito Santo perché avessero la forza di continuarlo. A coloro che vengono battezzati è necessario imporre le mani perché ricevano lo stesso Spirito e siano associati così pienamente alla vita e alla missione della Chiesa nel mondo. Anche a noi sono state imposte le mani dal Vescovo o dal suo delegato perché ricevessimo lo Spirito di Dio: è il sacramento della Cresima, che ci rende corresponsabili dell’edificazione della Chiesa e ci dà luce e forza per essere testimoni del Signore in questo mondo, sempre a lui ostile. Lo Spirito Santo ci dona la gioia di imitare Gesù nel suo offrirsi per la salvezza dei peccatori. Come per lui anche per noi questa disponibilità può comportare sofferenza e fatica, ma è la strada necessaria per portare a compimento la volontà del Padre.
Durante questa settimana inizieremo la novena in preparazione alla Pentecoste: invochiamo lo Spirito di Dio che scenda su di noi e su tutta la Chiesa, che ci doni forza e gioia di essere testimoni del Signore Gesù senza alcuna paura delle reazioni del mondo. Offrire Gesù agli uomini significa offrire loro la vita che realizza pienamente le aspirazioni del loro cuore!
Ascensione del Signore - anno A
1ª lettura At 1,1-11 dal Salmo 46 2ª lettura Ef 1,17-23 Vangelo Mt 28,16-20
Ascendere al cielo indica l’entrare nella dimensione divina. Ogni uomo, infatti, quando pensa a Dio volge lo sguardo in alto, ai cieli. Se Gesù sale al cielo entra anche lui nell’ «essere Dio». Noi sappiamo che Dio è il Dio dell’amore, e quindi vediamo l’essere Dio di Gesù non come un intromettersi in un posto di autorità o di potere che non gli compete, quasi a suscitare sospetto e gelosia a Dio stesso, anzi! Essere Dio non significa avere poteri, essere orgogliosamente al di sopra di tutti, bensì offrirsi in un amore che continua a donare se stesso. Egli è lo stesso amore che Dio ha riversato sugli uomini, per avvicinare tutti a sè. Ora egli «torna», se così si può dire, al cuore del Padre donde era partito. E vi ritorna promettendo ai discepoli il suo Spirito, che rimanga sempre con loro nella Chiesa.
Gesù è Dio! Che significa questo per noi? Come dice San Paolo, questo significa che l’autorità della Parola che egli ci ha rivolto è indiscussa. L’apostolo racconta infatti il mistero che stiamo celebrando con queste espressioni: “Lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro. Tutto infatti ha sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose”.
Dio stesso, il Padre, “ha fatto sedere alla sua destra nei cieli” il Figlio: noi dobbiamo ricordare i suoi insegnamenti come pienezza di amore che abbiamo ricevuto, e l’ubbidire ad essi come l’amore più grande che possiamo sviluppare. È e sarà la sua Parola il criterio per valutare e giudicare i nostri comportamenti e le nostre azioni. Affinché siamo in grado di viverla, egli stesso ci dona il suo Spirito, il soffio vitale della sua divinità. Senza Spirito Santo non riusciremmo mai a vivere l’amore, perché siamo sempre influenzati dall’egoismo. Egli l’ha promesso ai suoi e l’ha riversato su di loro nel giorno di Pentecoste. La stessa promessa vale anche per noi. Anche a noi Gesù dona il suo Spirito, e ce l’ha donato: infatti, ne abbiamo la prova dal fatto che, come lui, anche noi chiamiamo “Padre” il Dio dell’universo, e anche noi, come lui, offriamo la nostra vita in gesti di amore gratuito e generoso. Anche noi, come il Padre ha fatto a noi, presentiamo agli uomini Gesù come il dono più grande, che cambia la loro vita. Gesù stesso manda gli apostoli a predicare e fare discepole tutte le genti. Li ha mandati benché fossero stati ancora incerti nella fede: egli li avrebbe sostenuti.
L’amore che gli apostoli avrebbero diffuso nel mondo è portare gli uomini ad immergersi nell’amore del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. E questo è il battesimo. Una missione grande, impossibile alle capacità umane, perché per avvicinare qualcuno alla vita di Dio bisogna intervenire nel suo cuore! Per questo gli apostoli non saranno soli: Gesù promette di rimanere con loro ogni giorno.
Egli rimarrà con loro a sostenerli, a guidarli, a consolarli e rafforzarli. Essi non lo vedranno, ma saranno certi della sua presenza perché ne vedranno gli effetti. Anzitutto in se stessi percepiranno la sua grazia, la sua gioia, la sua sapienza; e poi, ogni volta che vedranno qualcuno credere alla loro parola, saranno certi che in quel cuore il Signore stesso è all’opera.
Gesù dal cielo vede me e vede te. E dal cielo ci manda la forza dello Spirito Santo perché siamo suoi testimoni. Attendiamo il suo dono con umiltà, con desiderio di essere trasformati e di essere ancora «adoperati» da lui per aiutare qualcuno ad entrare nella sua vita ed essere salvati. Attendiamo con grande desiderio il rinnovarsi della Pentecoste per tutta la Chiesa. L’attendiamo pregando, invocando lo Spirito Santo che venga ancora e continuamente a rinnovare la terra, cominciando dal nostro cuore e dai nostri pensieri.
Pentecoste - anno A
1ª lettura At 2,1-11 dal Salmo 103 2ª lettura 1Cor 12,3b-7.12-13 Vangelo Gv 20,19-23
Vieni, santo Spirito,
manda a noi dal cielo
un raggio della tua luce.
Oggi preghiamo così, certi di essere esauditi. Sono passate sette settimane dalla Pasqua e ora celebriamo il cinquantesimo giorno, come gli ebrei lo celebravano per rivivere il dono della Legge ricevuto da Mosè sul monte Sinai. Mosè ricevette le tavole di pietra con i comandamenti incisi su di esse, mentre gli apostoli oggi ricevono lo Spirito stesso di Dio nel loro cuore. Essi non vivranno più obbedendo come servi a regole che vengono dall’esterno, ma avranno in se stessi le motivazioni e la spinta per un comportamento santo. Essi avranno nel cuore l’amore, e saranno coscienti che il loro amore diventa in ogni azione rivelazione dell’unico vero Dio. Lo Spirito Santo fa dell’uomo un vero figlio di Dio. Il figlio riceve l’amore del Padre, cresce in esso e diventa così capace di amare. Il figlio rimane ubbidiente: l’ubbidienza è il modo con cui risponde all’amore che riceve, e non gli pesa affatto, proprio perché l’amare non è pesante, nemmeno quando è faticoso.
Noi riceviamo e abbiamo ricevuto lo Spirito di Dio. Anche noi siamo figli, e cerchiamo di amare ubbidendo. Continuiamo però ad invocare lo Spirito Santo, a chiedergli di venire, perché egli è come il vento: se smette di venire, noi rimaniamo privi della sua forza e della sua luce. La nostra preghiera perciò è continua, continua la nostra richiesta di essere condotti e assistiti dal Paraclito, continuo il nostro amore per Gesù: proprio il nostro rapporto vivo con il Signore è garanzia della presenza e dell’azione dello Spirito Santo. Egli lo ha “soffiato” sui suoi apostoli quando è apparso loro risorto. È lui che lo soffia su di noi quando stiamo alla sua presenza per ascoltarlo e per ricevere da lui la chiamata a partecipare alla sua missione. Questa partecipazione è diversa per ciascuno, perché, come ci dice oggi San Paolo, diversi sono i carismi che ognuno ha ricevuto e riceve. I carismi sono i doni che lo Spirito fa nascere e crescere in ogni battezzato, doni che servono ad edificare la Chiesa. L’apostolo sottolinea il fatto che la diversità dei carismi e dei ministeri hanno la stessa origine dall’unico Dio e quindi sono fonte di gioia per tutti. I doni che io ho ricevuto e che metto a disposizione dei fratelli sono fonte di gioia e di forza per tutti gli altri, così i doni che hai ricevuto tu e che metti a disposizione della Chiesa sono gioia per me. Non c’è posto per l’invidia e la gelosia nel corpo di Cristo, perché tutto appartiene a tutti: le capacità della mano servono agli occhi e le capacità degli occhi e dell’udito servono a mani e piedi e a tutto il corpo. L’immagine del corpo è molto eloquente ed efficace per farci comprendere l’unità che esiste e che dobbiamo rispettare e favorire nella Chiesa. Lo Spirito Santo infatti ci viene donato perché i singoli credenti in Cristo Gesù formino un’unità, diventino un cuor solo e un’anima sola, siano una presenza unita nel mondo per rendere presente in esso l’amore divino. Questo è quanto è stato profetizzato dall’avvenimento della prima Pentecoste.
Lo Spirito Santo ha portato gli apostoli fuori dalla sala, in cui si erano arroccati, per dire a tutto il mondo la grazia della morte e risurrezione del Signore. Sembra proprio che tutto il mondo si sia radunato ad ascoltarli e che il loro messaggio fosse adatto per tutti. Lo Spirito Santo ha fatto in modo che Gesù fosse colui che unisce coloro che la diversità delle lingue e delle culture divideva. Gesù è davvero la pace, colui che abbatte i muri di divisione, colui che unisce coloro che sono diversi e non si capiscono. Gesù con la sua morte e risurrezione dona la vera pace al mondo. Questo avviene quando egli può inviare il suo Spirito a chi crede in lui. Godiamo perciò il frutto della Pentecoste e continuiamo a tenere aperto il nostro cuore a lui, a Gesù, cosicché il suo Spirito possa fare di noi strumenti della pace vera e dell’unità di coloro che sono divisi dal peccato e dalla sofferenza, che il peccato ha prodotto e produce nei cuori e nella società. Continuiamo ad invocare la venuta dello Spirito Santo, perché
Senza la tua forza
nulla è nell’uomo,
nulla senza colpa.
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