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Oggi con me sarai nel paradiso

Oggi con me sarai nel paradiso

 


Domeniche del Tempo Ordinarioanno C

dalla Xª domenica

 

Alla festa di Cristo Re vedremo Gesù che risponde al ladrone: “Oggi con me sarai nel paradiso”.

Noi viviamo in attesa di quell’oggi, che Gesù rivolge anche a noi, che continuiamo a dirgli: ricordati di me! In quest’attesa ci aggrappiamo alla sua Parola, la teniamo nel cuore e in tutti i nostri desideri, perché sia lui a sostenerci, a guidarci, a darci forza per diffondere l’amore del Padre: egli poi ci accoglierà.

Il mio e il tuo ascolto sia sempre vigile e generoso.

Don Vigilio Covi

Le omelie qui riportate sono state scritte nell’anno 2013.

Nihil obstat: P. Modesto Sartori, capp., cens. Eccl., Arco, 08 maggio 2016



10ª Domenica del T.O. - C

1ª lettura 1Re 17,17-24 * dal Salmo 29 * 2ª lettura Gal 1,11-19 * Vangelo Lc 7,11-17


San Paolo con grande confidenza ci confida il passaggio più importante della sua vita. Egli era un gran peccatore, ma non perché avesse disobbedito a qualcuno dei dieci comandamenti, bensì perché aveva perseguitato la Chiesa di Dio con grande accanimento. Le sue intenzioni allora gli parevano «buone», volendo “sostenere le tradizioni dei padri”, ma quanto aveva fatto era contro la volontà del Dio vero. La conoscenza di Gesù ha cambiato la sua vita. È stata una grazia grande, un dono inatteso del Signore. Ora si impegna con tutte le forze per accrescere ed edificare quella Chiesa che prima avrebbe voluto distruggere. Con gioia annuncia il vangelo, la bella notizia che non è frutto di ragionamenti umani, ma rivelazione di quel Dio che ama tutti gli uomini e che per loro amore ha inviato Gesù.

L’amore di Dio, quell’amore che Gesù ha fatto vedere, è fonte di vita, è la vera vita per gli uomini. Ogni vero amore agli uomini cerca di donare loro la vita, quindi la conoscenza del Signore. Sia nell’esperienza del popolo ebraico che nel percorso di Gesù di Nazaret sulla terra ci sono stati dati dei segni e gesti profetici perché potessimo comprendere che la vita è nelle mani di Dio e che da lui la riceviamo sempre come dono. Elia nella città di Sarepta, in territorio pagano, restituisce vivo, alla vedova che lo ospitava in casa, il figlio unico che le è morto. Disperata, quella madre si lamenta col profeta. Ella non ha nessuna speranza di riavere quel figlio, che sarebbe diventato il sostegno della sua esistenza. Ma Elia prega, invoca con forza il Signore, chiede che la vita rientri nel bambino. E così avvenne: Dio lo ha ascoltato. Simile l’episodio a Nain, mentre Gesù camminava per raggiungere i villaggi della Galilea. “Veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova”. E Gesù le disse: “Non piangere”. Come si può dire ad una madre, cui è morto l’unico figlio, di non piangere?

La vita , la nostra vita, è nelle mani di Dio. Egli ce l’ha data ed egli può ridarcela. Gesù rivolge la parola al ragazzo, ed egli non solo ode la voce di Gesù, ma gli ubbidisce: si alza e risponde. La parola di Gesù dona vita, apre gli orecchi, dona capacità di comunicare con gli altri, risveglia energie nuove: la Parola di Gesù!

Oggi ci sono molti figli incapaci di ascoltare, incapaci di comunione e di relazionarsi persino con i propri genitori. E ci sono genitori incapaci di relazionarsi con i figli oltre che con molte altre persone. Sono uomini e donne, anche adulti, che vivono come morti, chiusi nel proprio mondo, freddi nei rapporti con gli altri: soffrono la morte propria o dei propri cari Ad essi manca la vita. Che si può fare?

L’unica vita, unica fonte di vita vera, è Gesù! Quando una persona ode la Parola di Gesù comincia a rinascere. Per questo la Chiesa si impegna ad evangelizzare il mondo. Per questo ciascuno di noi credenti siamo attenti a tenere in noi la Parola del Signore, sicuri che essa ci mantiene in vita e ci rende diffusori di vita vera, di serenità, di pace, di capacità di attenzione a chi ci sta vicino. La Parola di Gesù nel nostro cuore è un dono grande, non solo per noi, ma per tutti quelli che ci circondano. Se poi questa stessa Parola la pronunciamo con amore, facendola udire, diventa novità, sorgente di comunione e speranza per quanti sono come morti e soffrono, e fanno soffrire i loro cari.

Quando vediamo qualcuno che soffre, qualcuno che vive relazioni malate sia con i propri familiari che con chiunque altro, ricordiamo che unica medicina per donare sollievo fino a guarire è la Parola di Gesù. La sua Parola ci mette in comunione con lui, apre la porta al suo santo Spirito, avvia la guarigione di tutti i nostri rapporti. L’episodio di Nain e quello simile di Sarepta alimentano la nostra speranza in un futuro sereno e nuovo. La preghiera di Elia e l’ascolto della Parola di Gesù ci pongono sulla via sicura. Quando incontri una persona interiormente morta, donale la Parola di Gesù, non farle discorsi, ragionamenti, esortazioni: questi sono spesso inutili, a volte persino controproducenti. La Parola di Gesù dona vita, è salvezza, spinge alla speranza, fa risorgere. Guardiamo alla svolta di San Paolo, imparando anche dal suo impegno generoso per portare ovunque la Parola e il nome di Gesù!



11ª domenica del T.O. - C

1ª lettura 2Sam 12,7-10.13 * dal Salmo 31 * 2ª lettura Gal 2,16.19-21 * Vangelo Lc 7,36 - 8,3


Le letture di oggi iniziano con un grave rimprovero al re, colui che Dio stesso aveva scelto per guidare il popolo. Benché scelto da Dio, da lui beneficato e protetto e da lui persino consacrato, Davide, cedendo alla concupiscenza cade nel peccato di adulterio e quindi in quello di omicidio. Per bocca del profeta Dio gli ricorda tutti i benefici che ha ricevuto, ma lo rimprovera di aver “disprezzato la parola del Signore” per fare quello che voleva. Il peccato genera male, genera sofferenza a molti, ma nemmeno chi lo compie ne rimane immune. Il pentimento che ne segue, necessario, ottiene sì perdono, ma le sofferenze che sono state generate rimangono.

È proprio il re che viene rimproverato. L’autorità, ogni autorità, non è immune dalla tentazione, e non può ergersi come fosse superiore al suo Dio. Nessuna autorità può ignorare la Parola del Signore e ritenersi esente dall’obbedienza ai suoi comandi, che con sapienza mirano alla gioia e alla pace di tutti. Questo rimprovero rivolto alla suprema autorità del popolo ci fa bene. Noi stessi, che ormai ci vantiamo di essere l’unica autorità che possa guidare la nostra vita, veniamo ammoniti. Nello stesso tempo siamo aiutati a confrontare con la Parola di Dio anche il comportamento di coloro che onoriamo come guide del popolo. Ciò che essi fanno non è sempre esemplare per noi. Spesso, purtroppo, il loro comportamento deve essere rimproverato con forza. Anche ciò che essi stabiliscono come legge per tutti e che propagandano come progresso, se non rispetta la luce che viene dall’Alto è male, è gran male.

Il nostro compito di vigilanza per noi stessi e per i nostri figli è messo alla prova tutti i giorni. Alcune ideologie che vengono propagandate sempre più, insegnate nelle scuole senza che i genitori se ne accorgano, proposte dai dirigenti di aziende e della politica, sono ideologie che provocano alla disobbedienza dei comandamenti di Dio. Non ci possiamo meravigliare poi se arrivano per tutti crisi su crisi, sofferenze su sofferenze. Ce le compriamo.

Anche Gesù deve rimproverare, e deve rimproverare Simone, uomo stimato da tutti perché fariseo, zelante nell’osservanza della legge. Questi, in quel momento, è suo benefattore, avendolo invitato a pranzo con i discepoli. Gesù non è lì per adularlo, ma per amarlo. Lo amerebbe davvero se approvasse i suoi pensieri e le sue parole? I suoi pensieri non combaciano con quelli di Dio. Con grande maestria e bontà, ma anche fermezza e verità, Gesù gli pone una domanda semplicissima per aiutarlo a giudicare una donna non in base ai peccati del passato, ma in base al suo amore presente. E l’amore più grande merita un perdono più grande. La donna ha amato Gesù con molti gesti per i quali ha impegnato i suoi tesori, ma soprattutto il suo tempo e la sua reputazione, con umiltà impressionante. Lui invece, Simone, non ha manifestato nessuna particolare simpatia per il Maestro che stava ospitando. Anche lui avrebbe avuto bisogno di perdono, anche se non lo riteneva necessario: ma non lo ricevette, appunto perché non ha espresso amore a colui che Dio ha mandato come suo Cristo e suo Figlio. La donna ha ricevuto il perdono, perché ha amato, ha amato l’inviato di Dio!

Essere perdonati! Quanto è importante il perdono per godere la pace, per rafforzare la salute, per diventare strumento di comunione e di armonia con tutti! Oggi assistiamo ad un continuo degenerare di ogni convivenza, persino della famiglia. Assistiamo ad un aumento di sofferenze e di malattie strane, certamente frutto del peccato nostro e di chi ci circonda. Com’è necessario il perdono! Dio vuole perdonarci e, come ha detto papa Francesco, non si stanca mai di perdonarci, siamo noi invece che ci stanchiamo di chiedere perdono. Nessuno di noi è immune dal peccato, dovremmo tutti imparare a chiedere perdono a Dio per crescere in umiltà e diventare capaci di chiederlo anche ai fratelli. Bisognerebbe fare in modo che i sacerdoti siano sempre occupati ad ascoltare le richieste di perdono, ad assolvere i peccatori. Ogni quanto ti confessi? Aspetti che vengano le grandi festività per farlo? Non saresti un “buon” cristiano. Il tuo rapporto con Dio deve essere in pace tutto l’anno e non solo qualche giorno ogni sei mesi. Vuoi essere portatore di pace, essere strumento di benedizione, essere un dono per i tuoi familiari? Allora almeno una volta al mese cerca un sacerdote che ti ascolti e ti doni la parola del perdono del Signore: sarà non solo una bella pulizia, ma anche un buon ricostituente per la tua vita interiore e la tua fede, e un regalo grande alla tua famiglia e alla società.



12ª domenica del T.O. - C

1ª lettura Zc 12,10-11 * dal Salmo 62 * 2ª lettura Gal 3,26-29 * Vangelo Lc 9, 18-24


San Paolo ci rivela che siamo “rivestiti di Cristo” dal momento che siamo battezzati in Cristo. Rivestiti di Cristo! È una bella immagine che mi è tornata alla mente e mi ha fatto pensare tanto quando è arrivata la notizia del crollo della fabbrica dei nostri vestiti a Dacca in Bangladesh, provocando la morte di un migliaio di operai. Allora ci siamo accorti di cosa siamo vestiti realmente. Chi si vanta d’essere avvolto in vesti firmate, in realtà è vestito di lavoro non pagato, di lacrime di donne e bambini, adesso orfani, probabilmente abbandonati sulla strada. Con tutta la nostra ricchezza siamo rivestiti della soddisfazione del diavolo, che riesce a seminare sofferenza e morte in paesi lontani e in noi vanità, vanagloria e superficialità, e quindi altre sofferenze che uccidono le nostre relazioni. Quando siamo stati battezzati l’intenzione di Dio era che fossimo “rivestiti di Cristo”, della sua umiltà, della sua povertà e della sua carità, del suo amore che sa rinnegare se stesso per dare vita e gioia ai fratelli.

Non abbiamo ancora fatto la fatica necessaria per stare al passo con Gesù e con il suo amore per noi. Se l’amore per il Signore Gesù non occupa tutto il nostro cuore, la nostra mente, le nostre forze, se lui non è il primo in ogni momento, rimane sempre qualcosa di noi occupato dal nostro nemico. E questo spazio, che egli domina, diventa sorgente di menzogne, di discordie, di disuguaglianze e tensioni, di vanità e di superficialità. Siamo davvero un campo di battaglia, se Gesù non può essere il tutto di noi.

Egli interroga i suoi discepoli. La risposta che gli dà Pietro è una risposta vera e completa. Ad essa manca però la verifica. “Tu sei il Cristo”, dice Pietro. Con questa parola egli dichiara che Gesù è inviato da Dio e consacrato da lui, degno quindi dell’obbedienza che si deve a Dio. Pietro lo ha detto, ma poi, le sue azioni manifesteranno questa verità? Il cuore di Pietro sarà tutto del Signore? Questo sarà verificato giorno per giorno dal modo con cui egli prenderà o rifiuterà le piccole o grandi croci che gli si presenteranno. Chi sta con Gesù, chi è rivestito di lui, non dovrà essere preoccupato di salvare la propria vita, anzi, dovrà smettere di pensare a se stesso. Chi pensa a salvare la vita e non la lascia nelle mani di Gesù affinché sia lui a salvarla, vivrà in tensione, sarà triste, si confronterà con gli altri, cercherà soddisfazioni dagli uomini e li accontenterà, allontanandosi dal Padre.

La nostra vita è destinata dal Padre a vivere relazioni con gli altri fino ad essere immagine e somiglianza di Dio. Dio è amore, quindi dono di sè senza ritorni, senza rimborsi, senza rimorsi. Vivere quest’amore talora è croce per noi. Vivere l’amore con gli altri, che come noi sono peccatori e limitati nell’amare, può essere faticoso e diventare croce. La croce non limita la gioia, anzi, la perfeziona, e rende forte la nostra fede. Anche ci accorgessimo che attorno a noi Gesù non è amato né ascoltato e nemmeno conosciuto nella sua vera identità, non ne avremmo scandalo. Gesù è sempre “colui che hanno trafitto”, come scrive il profeta Zaccaria. Questo è il suo segno distintivo, e perciò noi non ce ne potremo meravigliare. Desideriamo anzi essere anche noi segnati del suo stesso segno. Ciò avviene quando gli obbediamo per osservare il suo comandamento nuovo, “amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato”. Proprio per questo San Paolo può dire che “tutti voi siete uno in Cristo Gesù”: siamo uno perché in noi regna lo stesso amore per Gesù e quindi ci amiamo gli uni gli altri. Ciò non significa che diventiamo tutti uguali. Le nostre differenze restano, e noi non siamo capaci ancora di vederle come ricchezza che completa le nostre deficienze! Spesso facciamo difficoltà ad accettarle, tanto da permettere che generino tensioni e provochino sofferenza. Noi vogliamo invece tenere lo sguardo fisso sul Signore Gesù, sul suo amore, e non continuare ad osservare i limiti e le differenze dei nostri fratelli e delle nostre sorelle.

Ciò che dicono le folle del nostro Signore Gesù ci servirà a stimolarci a “dare ragione della nostra speranza” per aiutare qualcuno a incontrarlo e conoscere così il suo amore, che è pronto anche per lui. E saremo attenti, come gli apostoli, a non rivelare a nessuno chi è Gesù solo con le parole, ma con la nostra vita. Sarà una vita che spesso va contro corrente, che mette pace dove c’è discordia, amore alle persone là dove c’è amore per il denaro, amore a Gesù là dove è seguita l’attrazione del divertimento e del piacere. Allora qualcuno ci interrogherà, e noi potremo far vedere la firma del nostro vestito, la firma di Gesù!


Eventualmente

- per la solennità di S. Giovanni Battista vedi Anno B 02, Testimone fedele

- per la solennità dei Santi Pietro e Paolo vedi anno A 02, Saranno riunite…


13ª Domenica del T.O. - C

Oggi colletta per la carità del papa

1ª lettura 1Re 19,16.19-21 * dal Salmo 15 * 2ª lettura Gal 5,1.13-18 * Vangelo Lc 9,51-62


Chiamare e rispondere: è il tema principale delle letture odierne. Il profeta Elia chiama Eliseo, impegnato nel lavoro dei campi, e lo chiama con una gesto significativo: gli getta addosso il proprio mantello. Questo gesto sta a dire: da questo momento tu sei un altro, hai un nuovo ruolo nella società, hai il mio stesso compito. Il compito di Elia è il compito dei profeti: ascoltare Dio e ripetere la sua Parola agli uomini. Come risponde Eliseo? Egli comprende e non si fa né spiegare né ripetere l’invito: solo organizza una festa per dire a tutti il suo cambiamento di vita e per condividere la sua gioia con parenti, conoscenti e dipendenti: egli gioisce perché Dio ha posato il suo sguardo su di lui. I campi ed i buoi, evidentemente, erano ritenuti da lui solo uno strumento per fare la volontà di Dio: non gli costa lasciarli quando scopre che la volontà di Dio per lui è un’altra.

Questa è la storia di coloro che hanno ricevuto o ricevono una chiamata dal Signore. Questa è anche la mia storia. Avevo già qualche progetto per la mia vita quando Gesù mi ha fatto intravedere il suo. E ancora, ogni giorno, molte volte, gli eventi, che noi chiamiamo contrattempi, altro non sono che interventi con i quali Dio ci fa comprendere che la sua volontà per noi è diversa. Invece di arrabbiarci dovremmo ringraziare! È infatti desiderio assodato del cristiano compiere sempre la volontà di Dio: lo chiediamo ogni giorno con la preghiera del Signore: “Sia fatta la tua volontà”! Quando diciamo così assicuriamo il Padre della nostra ubbidienza: ci interessa soltanto ciò che lui vuole. Egli ci chiama: le sue chiamate possono essere indicazioni per piccole azioni quotidiane, a volte invece sono indicazioni che richiedono cambiamenti radicali che trasformano tutta la vita. Così è stato per Eliseo, e così per quelli che Gesù incontrava e chiamava. Il vangelo di oggi ci dà qualche piccolo assaggio di ciò che succedeva lungo il percorso che lo portava a Gerusalemme per compiere la sua offerta. Qualcuno non lo voleva nemmeno incontrare: qualche pregiudizio era impedimento a lasciarlo entrare nella propria città. Questo è successo in Samaria, dove venne ritenuto nemico solo per il fatto che era Giudeo. Egli non se ne meravigliò, e non volle castigare il rifiuto: era infatti motivato da ignoranza. Rimprovera piuttosto i discepoli che pensano di dover dare una terribile lezione a quei samaritani. Gesù usa benevolenza. Saranno poi proprio i Samaritani ad accogliere tra i primi la predicazione degli apostoli, quando questi arriveranno da loro durante la persecuzione che li farà fuggire da Gerusalemme.

Gesù incontra uomini che lo vogliono seguire, e altri che egli stesso chiama. Tutti coloro che lo seguono non devono avere nient’altro di importante da pensare o da fare: se egli per loro non è tutto, non lo seguiranno seriamente, ma soltanto si illuderanno di essere suoi ed egli non potrà fare affidamento su di loro. Chi conservasse qualche interesse materiale, anche solo trovare una sistemazione o un’abitazione, o soddisfare un’ambizione per la propria vita, saranno delusi: Gesù infatti non ha nemmeno “dove posare il capo”, non è come gli uccelli o le volpi che si occupano del nido o della tana. Chi segue Gesù non ha pensieri per sé, né per la salute, né per il denaro, nemmeno per la considerazione degli altri o per i pensieri dei propri parenti. Noi comprendiamo il perché: Gesù è l’amore di Dio per gli uomini, quindi non c’è nulla di più importante di lui né per noi stessi né per le persone che amiamo. Queste non le amiamo veramente se non desideriamo che anch’esse incontrino Gesù e lo accolgano. Il Signore è molto risoluto: chi lo segue non deve nemmeno volgersi indietro. Che significa? Chi si volge indietro quando tiene in mano l’aratro, lo fa per compiacersi del lavoro compiuto, sia per averne realizzato molto sia per averlo eseguito bene. Chi avesse anche solo questa inclinazione “non è adatto per il Regno di Dio”.

L’avere come occupazione solo il seguire Gesù è definito da San Paolo libertà. Egli dice infatti che “Cristo ci ha liberati per la libertà” e la libertà ci permette di essere del tutto rivolti ad esercitare l’amore di Dio senza impedimenti. L’amore di Dio va esercitato come lo ha vissuto Gesù, come un servizio ai fratelli. “La libertà è la mancanza di arroganza e vanità” ha scritto S.Giovanni Crisostomo (cf. Bartolomeo I a Milano, 2013). La vera libertà la troviamo quindi quando seguiamo Gesù, se lo seguiamo senza aver alcun desiderio per noi. Egli a questo ci chiama, e in tal modo porta a compimento le nostre aspirazioni più profonde. La nostra gioia sarà piena e i nostri fratelli pienamente amati anche da noi, e da Dio stesso attraverso di noi. Saremo attenti e aperti alle chiamate del Signore, a quelle piccole di ogni giorno e a quelle che possono cambiare la nostra vita. A lui stesso chiediamo la grazia di essere generosi a rispondergli con prontezza, come Eliseo!


14ª Domenica del T.O. - C

1ª lettura Is 66,10-14 * dal Salmo 66 * 2ª lettura Gal 6,14-18 * Vangelo Lc 10,1-12.17-20


Domenica scorsa abbiamo ascoltato Gesù che rispondeva a chi lo voleva seguire e chiamava altri a stare con lui. Oggi lo contempliamo mentre manda coloro che gli hanno risposto a preparare il suo arrivo in altri luoghi. Chi ha accettato di stare con lui accetta pure di allontanarsi da lui per aiutare altri ad accoglierlo. A chi lo voleva seguire o accettava la sua chiamata egli raccomandava di non desiderare null’altro che lui. Ora, quando li manda, dice ancora che devono essere liberi da qualunque desiderio, sia di ricchezza, che di comodità e di considerazione da parte degli uomini. Il compito che egli affida loro è nuovo: lo devono realizzare in comunione, a due a due, in modo da esercitarlo impegnati ad amarsi l’un l’altro, offrendo così la Parola di Dio contemporaneamente alle orecchie e agli occhi di chi li incontrerà.

L’obbedienza a Gesù poi deve cominciare con la preghiera e svolgersi in preghiera. Il Signore esorta infatti i discepoli a pregare il Padre di inviare anche altri per svolgere lo stesso loro lavoro. In questo modo in essi rimane viva la coscienza di essere non protagonisti, bensì solo collaboratori di Dio; e non prenderà spazio nel loro cuore nessuna forma né di gelosia né di invidia verso chi venisse mandato ancora a lavorare nel Regno del Signore. La preghiera li terrà inoltre costantemente attenti alla propria vita interiore, per essere in rapporto con il Padre e dare il primato sempre a lui. La preghiera li aiuterà anche a non scoraggiarsi e nemmeno spaventarsi qualora incontrassero difficoltà. Questa infatti è la seconda cosa che Gesù dice loro: saranno “come agnelli in mezzo a lupi”. Non si aspetteranno successi immediati, anzi saranno pronti a dare testimonianza a Gesù crocifisso. Se apparirà all’orizzonte la croce, non si ritireranno dal loro compito, ma lo continueranno con fede, sapendo che è Dio che dà la vita ed è lui che salva gli uomini dalla condanna. “Come agnelli in mezzo a lupi”: quest’espressione prepara gli apostoli, e prepara noi, a ubbidire a Dio senza minimamente pensare a chiedere consiglio agli uomini su come si deve ubbidirgli. Serviamo gli uomini annunciando Gesù, e Gesù crocifisso, come ci testimonia San Paolo. Questo è un annuncio che agli uomini talora non piace, li scuote e li fa reagire anche con violenza. Noi annunceremo Gesù con verità e pazienza, e con la libertà di chi è pronto a soffrire senza resistere ad eventuali opposizioni.

Il Signore dà altre indicazioni ai predicatori del vangelo: dovranno essere poveri, e non sognare ricchezze: la Parola di Dio ha in se stessa la forza e la verità per donare vita a quanti l’ascoltano. Ciò che il mondo apprezza diviene impedimento all’accoglienza del vangelo, o lo fa ritenere qualcosa di umano: alla prima difficoltà sarà rifiutato o annacquato.

Finalmente Gesù dice qual è il compito dei suoi inviati: rivolgeranno la parola a chi incontrano, una Parola che sia quella di Dio. “Prima dite: Pace a voi”, dice Gesù.Pace a voi” è lo stesso saluto con cui lui, risorto, incontrerà gli stessi apostoli. Ma non è solo un saluto: potremmo dire che è il riassunto di tutto quello che essi dovranno comunicare. Comunicheranno l’amore di Dio, con le parole sì, ma anche con l’attenzione e la cura agli ammalati e a quanti soffrono. Il loro compito è realizzazione delle profezie, anche di quella che oggi abbiamo ascoltato da Isaia: è un compito di amore in tutte le dimensioni, è portare Dio a contatto con gli uomini per donare loro vita e gioia in abbondanza. Per questo essi devono essere staccati da se stessi, noncuranti persino della propria soddisfazione, perché l’amore del Padre è sempre gratuito, libero, santo.

Noi stiamo attenti a quanto Gesù dice ai settantadue discepoli, perché questa esortazione sarà patrimonio di tutta la Chiesa, e noi tutti, membra del Corpo di Cristo, partecipiamo, in gradi e modi diversi, allo stesso ministero. Tutti siamo incaricati di rendere vero ed attuale, a parole e in opere, il saluto “Pace a voi”! La Chiesa non si diffonde e non si sviluppa per l’opera dei soli apostoli, dei vescovi e sacerdoti, ma per la testimonianza di tutti i cristiani. Tutti ascoltiamo perciò con attenzione anche questo insegnamento del Signore.

Gli inviati poi tornano a consegnare a Gesù quanto hanno compiuto in parole ed in opere. Gesù apprezza il loro operato, ma vuole che essi non siano contenti di quanto hanno fatto. Aveva già detto infatti che chi lavora all’aratro non deve volgersi indietro. Per questo dice loro: unico motivo di gioia e soddisfazione per voi è che siete amati dal Padre anche voi, e non solo coloro cui voi avete portato il suo amore. E voi siete amati dal Padre anche qualora tutto il vostro lavoro fosse svolto invano, anche non ci fosse stato nessuno che ha accolto il vostro annuncio per essere salvato.


15ª Domenica del T.O. - C

1ª lettura Dt 30,10-14 * dal Salmo 18 * 2ª lettura Col 1,15-20 * Vangelo Lc 10,25-37


Obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi”, dice Mosè a nome di Dio. E aggiunge, quasi a prevenire le nostre rimostranze e lamentele: “Questo comando non è troppo alto per te, né troppo lontano da te”. Siamo sempre in cerca di giustificazioni, perché la pigrizia ci fa resistere e l’egoismo ci fa pigri. Il dottore della Legge che interroga Gesù manifesta una sua forma di pigrizia. La sua domanda sembra interessante, ma è proprio la domanda cui lui stesso dovrebbe saper dare la risposta, se leggesse con attenzione le Scritture, di cui è chiamato maestro. La vita eterna è la vita di Dio, e Dio è amore. Entrare nella vita eterna significa entrare corpo e anima, mani e piedi, del tutto, nell’amore. Chi comincia ad amare non fa distinzioni: egli ama Dio, suo Signore, e ama coloro che Dio ha creato e continua ad attendere.

Amerai…” è scritto nella Legge, e anche nel cuore di ogni uomo. Quando un uomo ama è felice, quando un uomo dona se stesso riceve gioia! Amerai Dio sempre, perché Dio è sempre vicino a te. Amerai il prossimo, perché sempre ti passa accanto qualcuno. Sembra tutto chiaro, ma la pigrizia cerca ancora giustificazioni alla propria incapacità di amare: il mio prossimo? Chissà dov’è! Quando siamo pigri non vediamo nessun prossimo.

Per rispondere al dottore della Legge Gesù formula quella parabola che ci ha già aiutato tanto e che ancora ci aiuta ad aprire gli occhi e ad accorgerci di chi soffre. Raccontando questa parabola il Signore presenta se stesso. Non è lui colui che si accorge dell’umanità sofferente, affaticata e oppressa, umiliata dal peccato proprio e altrui, e si avvicina per curarne le ferite? “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” ha detto. L’uomo che scende da Gerusalemme a Gerico lo incontra lui, che da Gerico sta salendo a Gerusalemme. Egli vi sale per offrirsi al Padre a togliere dalle nostre spalle il peso dei peccati e caricarlo sulle sue. Chi si allontana da Gerusalemme è colui che si allontana dalla dimora di Dio, colui che gli volta le spalle, e così si mette nelle mani del primo dei briganti, il nemico di tutti gli uomini, il diavolo. Nessuno è capace di soccorrere chi è sotto il potere del diavolo, nessuno, nemmeno coloro che fanno della religione la loro professione. Chi serve Dio per mestiere, o per abitudine, o anche per devozione, non riesce a soccorrere chi è stato ferito dal nemico, menzognero e omicida.

Colui che vive soltanto di amore, di amore di Dio e amore delle sue creature, può e sa incontrare nel modo vero e nuovo gli uomini, tutti già portatori dei segni della morte.

Gesù, il vero buon samaritano, si avvicina al peccatore, a noi, feriti dal maligno nel più profondo, ci tocca con la sua mano e ci cura con i segni del suo amore, i sacramenti della fede. E ci consegna nell’edificio già edificato della sua Chiesa, come albergo per chi ha bisogno di difesa, di custodia, di cura, di ristoro. E là, nella Chiesa, qualcuno può continuare l’opera di curarsi delle piaghe fino a guarirle. Egli, Gesù, poi se ne va, sembra allontanarsi del tutto, ma promette che ritornerà per dare la ricompensa a chi ha continuato la sua fatica. Già anticipa i due denari, quello dell’amore a Dio e quello dell’amore al prossimo!

Noi, che siamo le pietre vive che formano la Chiesa, l’albergo in cui il Signore ospita coloro che hanno bisogno di guarire dalle ferite del peccato, serviamo gli uomini di cui lui ha avuto ed ha compassione. Dopo essere stati curati noi stessi in quest’edificio santo, rimaniamo a sua disposizione, perché egli trova ancora molti, tutti quelli che si allontanano da Gerusalemme, dal suo Calvario e dalla sua croce. Questi sono tutti privi di forze, sofferenti, feriti: per ritrovare vita devono passare di qui, essere curati da chi vive di amore di Dio e di amore del prossimo, da chi vive con i due denari lasciati da Gesù.

È davvero grande Gesù, e preziosa la sua opera nel mondo. San Paolo tenta di presentarcelo: “è immagine del Dio invisibile”, “è il capo del Corpo, della Chiesa”. Egli ha “pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli”. Ma lui stesso ci dice ancora di sè una cosa importante: chi è “prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. “Colui che ha avuto compassione di lui”, risponde il dottore della Legge. Così sappiamo chi è Gesù per noi: è il nostro prossimo! Per amare il mio prossimo io amo Gesù, e con il suo amore, pieno e perfetto, amerò i peccatori, caduti come me nelle mani del brigante. Li aiuterò a rialzarsi, li porterò nell’albergo dove i due denari lasciati dal Signore continuano a stimolarci a vincere la nostra pigrizia, ad essere fonte di vita, di guarigione e di salvezza!



16ª Domenica Anno C

1ª lettura Gn 18,1-10 * dal Salmo 14 * 2ª lettura Col 1,24-28 * Vangelo Lc 10,38-42


Cristo in voi, speranza della gloria”: è il mistero che deve essere vissuto e conosciuto da tutti, dice San Paolo, che ha faticato per annunciarlo alle genti, non solo dagli ebrei. Per questo, per farlo conoscere veramente, anche noi viviamo i patimenti di Gesù, soffriamo offrendo la vita con un atto d’amore unito al suo. Cristo in noi significa che viviamo la sua croce. Infatti San Paolo dice di essere lieto delle sofferenze che lo uniscono a Gesù in croce. Sono le sofferenze patite per poter annunciare il vangelo, sofferenze procurate da chi vuole rifiutare il vangelo perché non collima con i suoi interessi. Cristo in noi! Cristo nostro ospite, non solo ospite nella nostra casa, ma nel nostro intimo: egli guida i nostri pensieri, rinnova i nostri desideri, muove la nostra volontà e ci orienta in tutte le scelte. Cristo Gesù può essere in noi, se noi siamo peccatori? Possiamo annunciare questa parola in modo che non sia diffamazione per lui? Che egli sia in noi, lo si deve poter vedere, lo si deve dedurre dal nostro modo di pensare, di parlare, di agire, di rapportarci con gli altri. Che egli sia in noi è senza dubbio un dono, ma è anche un impegno quotidiano. Siamo aiutati a comprenderlo dall’episodio che il vangelo di oggi ci presenta: Gesù viene accolto in casa da due sorelle. Che cosa succede quando egli entra in una casa?

Nella casa di Betania Gesù viene accolto da due sorelle. Una lo accoglie con uno sguardo umano, l’altra con uno sguardo divino. La prima è preoccupata per le necessità del corpo, necessità materiali, e, mossa da questa preoccupazione, offre quanto può soddisfare la fame e la sete del corpo. Questo amore non le impedisce di lasciarsi trasportare al giudizio e alla critica di sua sorella e persino a comandare al Signore stesso. Marta ha accolto Gesù nella sua casa. Sua sorella Maria invece ha accolto Gesù nella sua vita. Ella non manifesta preoccupazioni preconfezionate. Vuole essere attenta a quanto lui desidera, a quello che, caso mai, lui stesso chiederà. Col suo silenzio e con un ascolto attento offre a Gesù la propria disponibilità, la propria obbedienza. Con la sua attenzione sembra voler dire che Gesù è il suo padrone, è lui che deve guidare la sua vita. Lei può dire che Cristo non è solo nella sua casa, ma nella sua vita stessa. Cristo in noi!

Ovviamente Gesù si accorge della differenza dei moti del cuore delle due sorelle. Apprezza l’ascolto di Maria, perché da lei si sente accolto come Maestro e Signore, come Parola di Dio, come guida e pastore. Dall’accoglienza che tiene occupata Marta egli si sente accolto come uomo, come un uomo qualsiasi, affamato e assetato. A lei Gesù rivolge un invito a indirizzare la sua attenzione alle realtà spirituali. Vorrebbe che anch’ella potesse dire: Cristo in me! Le si rivolge con delicatezza, con affetto, ma anche con precisione e chiarezza. Le sue parole a noi sembrano rimprovero e ci paiono dure perché… siamo noi a meritarle. Siamo noi infatti che dedichiamo grande attenzione alle cose materiali, tanto che spesso rischiamo di dimenticare di ascoltare il Signore, dimentichiamo la preghiera, la partecipazione ai Sacramenti, in particolare alla confessione, molto importante per vivere l’incontro domenicale con il Risorto! Le parole di Gesù a Marta non sono dure, sono vere. Metterci in ascolto di Gesù è il meglio, perché dalle sue parole veniamo a conoscere la volontà di Dio per noi e dalle sue parole riceviamo la consolazione del Padre.

Anche Abramo aveva accolto i tre uomini che vide vicino alla sua tenda. Egli ha dato esempio di accoglienza al forestiero, nel quale ha poi riconosciuto la presenza del suo Dio. Egli impiega tutte le sue energie, quelle di sua moglie Sara e quelle dei suoi servi per preparare una degna ospitalità ai tre viandanti, che si sono rivelati poi angeli di Dio. Lo fa perché quegli uomini si fermino da lui, per potersi mettere in ascolto attento della loro voce e accogliere le loro rivelazioni e le loro promesse: “Egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero”. Abramo ci offre un esempio di premurosa ospitalità in vista di ricevere la parola che sarebbe uscita dalla loro bocca.

Allo stesso modo l’ascolto di Gesù non ci lascia inoperosi, anzi. Abbiamo sentito domenica scorsa come egli ci propone l’esempio del buon samaritano che si occupa dell’uomo bisognoso di tutto, di aiuto materiale, di consolazione e di speranza. Ma non è possibile essere così disponibili al fratello se non mettendoci appunto in attento ascolto e generosa obbedienza al Signore che ci offre i suoi insegnamenti. Il nostro amore ai poveri e ai sofferenti dev’essere indirizzato e sostenuto dall’amore che ascolta Gesù, per poter perseverare anche quando incontreremo ingratitudine e stanchezza.

Vogliamo accogliere Gesù come nostro Dio, come la presenza più importante nella nostra vita. Allora egli sarà “Cristo in noi” e trasformerà noi in tempio della sua gloria, luogo dove regna l’amore di Dio, benedizione per tutte le persone che incroceremo.



17ª Domenica Anno C

1ª lettura Gn 18,20-21.23-32 * dal Salmo 137 * 2ª lettura Col 2,12-14 * Vangelo Lc 11,1-13


Perché San Paolo mette al centro Gesù Cristo? Egli è al centro del cuore del Padre! Oggi l’apostolo ci dice che il Padre ci ha fatti vivere, dopo l’esperienza della morte causata dal peccato, tramite la croce di Gesù. I chiodi della croce hanno inchiodato anche le dichiarazioni della nostra colpevolezza, della nostra disobbedienza alle leggi: infatti ora Dio guarda non ai nostri peccati, ma alla nostra accoglienza di suo Figlio. Dato che ci siamo uniti a lui fino ad essere “con lui sepolti nel battesimo” e ad esserci rialzati per vivere obbedienti a lui, il nostro peccato non pesa più su di noi. Con questa consapevolezza possiamo avvicinarci a Dio con confidenza, per parlargli, per pregarlo, per godere della sua presenza. Come possiamo parlare a Dio? Come possiamo pregarlo? Come intrattenerci con lui?

A queste domande risponde il libro della Genesi e ci risponde pure Gesù con esempi e parabole.

Ascoltiamo anzitutto la Genesi. Abramo si trova in modo imprevisto a tu per tu con Dio, che gli manifesta i propri propositi. Ci sono alcune città che, se non fermate in tempo, con i loro peccati di perversione sessuale guasteranno tutto il mondo. Unico modo possibile a Dio per spezzare la catena di quel male è la loro distruzione. Ma Abramo ricorda che in una di quelle città vive Lot, suo nipote, e allora vuole intercedere per quelle città, proponendo a Dio di estendere a tutti la misericordia che meritano alcune persone che, in quelle stesse città, vivono in modo integro. Egli prende coraggio per domandare a Dio: «Se ci fossero cinquanta giusti in quelle città, le distruggeresti? Vuoi renderti colpevole di un’ingiustizia così dura?». Abramo insegna a Dio la giustizia, gli insegna la misericordia, per sei volte. Egli parla sì con tanta umiltà, ma lascia intravedere che sotto sotto ritiene se stesso più giusto e più misericordioso di Dio. Abramo fa quello che noi abbiamo fatto parecchie volte: abbiamo insegnato a Dio cosa deve fare o dove non deve intervenire. È bello vedere che Dio non umilia Abramo: lo lascia parlare, gli risponde con pazienza, lo asseconda nel suo procedere nel dialogo. Abramo però deve comprendere che la sapienza di Dio e la sua giustizia e misericordia non hanno bisogno di maestri: egli infatti penserà anche a salvare Lot, mentre gli preme la custodia e la purificazione di tutto il mondo. Siamo noi che dobbiamo imparare sempre da lui.

Gesù continua l’insegnamento sulla preghiera, per incontrare davvero il cuore di Dio. La sua preghiera ci fa anzitutto ammirare Dio contemplandolo con amore, essendo egli nostro Padre. Così, pregando, lo lodiamo e ci disponiamo a compiere la sua volontà. Gli possiamo chiedere pure il pane, ciò che è necessario per la vita materiale e per quella spirituale, ma non pensando solo ciascuno per sè, bensì ognuno per tutti. Allo stesso modo per tutti chiediamo perdono e protezione dalla tentazione. Siamo sempre deboli, tanto che senza la grazia che viene dalla bontà del Padre non potremmo vivere. Gesù continua l’insegnamento con parabole. Con quella dei tre amici ci dice che possiamo essere insistenti con Dio. L’insistenza non lo offende, bensì gli testimonia che non intendiamo rivolgerci a nessun altro. Ci sono infatti delle persone che, se non sono subito esaudite da Dio, pensano di rivolgersi ai maghi, a coloro che con riti speciali chiamano in soccorso il diavolo. La nostra insistenza con Dio è dimostrazione che non vogliamo aver nessun altro che il Padre come nostro interlocutore! L’insistenza esprime pure fiducia. E Gesù ci esorta a non recedere dalla fiducia filiale: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”. Questo ordine di Gesù ci dà fiducia, e anche coraggio per rivolgerci al Padre con sicurezza, benché per i nostri peccati non siamo degni di essere ascoltati. Potremmo dire a Dio: «Questa cosa oso chiedertela perché Gesù ci ha detto: “chiedete e vi sarà dato”. Non vorrai per caso rendere vana la Parola di tuo Figlio? Vengo a te in obbedienza a lui, non puoi permettere che io venga deluso dal tuo unigenito Figlio!».

Gesù termina il suo insegnamento assicurandoci che il Padre, migliore dei nostri padri terreni, ci dona, se glielo chiediamo, persino lo Spirito Santo! Lo Spirito Santo è la presenza di Dio in noi, al livello più profondo della nostra vita. In tal modo il Padre non solo ci dona quanto osiamo chiedergli, ma ci rende partecipi della sua stessa vita. Ricevendo lo Spirito Santo noi ci rendiamo conto di non aver più bisogno di nulla, e tutte le cose, che avremmo pensato di chiedere o di esigere da Dio, diventano secondarie, tanto che non le bramiamo più.

Gesù è davvero il centro di tutto, anche nel nostro rapporto con Dio. Senza di lui Dio sarebbe lontano, come fosse assente. Non solo egli ci insegna a pregare, ma è lui stesso la nostra preghiera: al Padre infatti ci offriamo con lui presente in noi, e siamo certi della nostra salvezza!


18ª Domenica Anno C

1ª lettura Qo 1,2; 2,21-23 * dal Salmo 94 * 2ª lettura Col 3,1-5.9-11 * Vangelo Lc 12,13-21


La vanità è una grande tentazione. È una tentazione grande perché ci fa desiderare ciò che è vuoto e ci fa faticare per cose inutili. La vanità ci impedisce di fissare lo sguardo e il desiderio su ciò che realmente ha valore e dura per sempre. Vanità è stato tutto l’affannarsi degli uomini impegnati a costruire la torre di Babele: si sono ritrovati più divisi e più nemici di prima. Vanità è stato l’impegno degli abitanti di Sodoma a procurarsi il piacere sensuale: sono morti miseramente perché né terra né cielo sopportarono la loro depravazione. Vanità è la nostra fatica spesa per le emozioni forti: esse si concludono con il nulla o addirittura con danni alla salute e distruzione delle relazioni familiari. “Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità”! Che cosa rimane? Per che cosa impegnarci? Dove spendere le nostre energie e dove indirizzare le nostre fatiche? Quali desideri coltivare? Sono le domande che ci pone la prima lettura.

Ci ha risposto l’apostolo San Paolo scrivendo ai Colossesi, ma prima ancora riascoltiamo quanto ci dice Gesù nel Vangelo. All’uomo preoccupato per l’eredità che stava per essergli soffiata dal fratello, egli dice: “Fate attenzione e tenetevi lontano da ogni cupidigia”. L’eredità ti spetta, certamente, sembra dire Gesù: ma che cosa ti servirà se non sei in pace con tuo fratello? Egli è avido e ne approfitta della tua debolezza e della tua bonarietà, ma a te giova lasciargli tutto, piuttosto che spendere per pagare avvocati e per di più perdere la tua pace, la serenità, la capacità di sorridere. E per aiutare quell’uomo, e per aiutare noi, Gesù ha inventato quella semplicissima parabola dell’uomo ricco. È una storia che vediamo ripetersi di quando in quando. Il ricco pensa ad arricchire ancora e adopera le sue ricchezze per accumulare: ritiene in tal modo di potersi godere la vita. Ma nemmeno lui può allungarla di un giorno solo. Anche la sua vita è nelle mani di Dio, che gliela può richiedere da un momento all’altro. Tutto il suo lavorare e il suo preoccuparsi finiscono in una bolla di sapone. Anzi, le sue ricchezze gli hanno impedito di curarsi della sua vita eterna, quindi lo hanno imbrogliato ben bene. Per questo Gesù chiama la ricchezza “iniqua”. È stolto colui che accumula tesori per sè, ed è sapiente invece colui che “si arricchisce presso Dio”.

Ed è proprio questo che San Paolo vuole raccomandare ai suoi cristiani. “Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria”. Noi, con il battesimo, siamo diventati nuovi, non siamo più servitori degli idoli vani, quelli di cui il mondo va pazzo! Chi vive con Cristo vive una vita diversa, impegnata non per sè, ma per amare, quindi per gli altri, e questo per amore di Dio. L’amore di Dio ci tiene nascosti agli occhi degli uomini: non ci interessa infatti essere visti da loro. Se qualcuno ci vede impegnati nel compiere l’amore vero dovrà dare gloria a Dio. Chi ama Gesù quindi abbandona ciò che ci tiene legati alla terra, e si trova libero da “impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi, cupidigia”. L’apostolo dice ancora: “Non dite menzogne gli uni gli altri”. Le menzogne peggiori sono il dare importanza a ciò che importanza non ha. Ricordo che quando lavoravo in fabbrica, i miei compagni di lavoro parlavano tutto il giorno e tutti i giorni fino al mercoledì della partita di calcio che avevano visto la domenica precedente, e il giovedì e venerdì facevano pronostici per la successiva. Ho imparato così, di settimana in settimana, a convincermi della vanità di ciò che avveniva allo stadio. A cosa serviva? Distoglieva gli uomini dalle cose serie, li orientava a ciò che non sazia e che non aiuta a vivere e ad accorgersi delle sofferenze degli altri, e nemmeno ad affrontare le proprie. All’ospedale ero in camera con uno che teneva in mano il telecomando del televisore: a che serviva vedere per ore alcune persone che giocavano a indovinare le risposte a domande inutili, risposte chiuse in una scatola, per vincere poi migliaia di euro senza aver faticato nulla? E di chi era quel denaro che veniva elargito così a buon mercato? Idoli, vanità, involucro - quel televisore - menzognero e ingannatore. E ancora, quanta vanità nelle strade, nelle case, nei luoghi di divertimento!

Noi ricordiamo di essere risorti con Cristo, uomo nuovo, che ci fa sapienti e ci aiuta a vivere con serietà e con vera gioia, quella prodotta dall’amore che si dona ai fratelli dopo aver rinunciato alle vanità che imperversano attorno a noi. Non voglio più a tutti i costi l’eredità: voglio piuttosto a tutti i costi essere coerede di Cristo, essere riconosciuto figlio di Dio, privo di ricchezze per essere ricco della vera sapienza.


19ª Domenica Anno C

1ª lettura Sap 18,6-9 * dal Salmo 32 * 2ª lettura Eb 11,1-2.8-19 * Vangelo Lc 12,32-48


Domenica scorsa il Signore ci ha arricchiti di sapienza con la parabola dell’uomo ricco, pronunciata in risposta a quel fratello che desiderava essere aiutato ad ottenere giustizia da suo fratello, avido dei beni di questo mondo. Oggi egli continua l’insegnamento, perché i suoi discepoli sono rimasti sconcertati. Come si fa a ritenere un bene l’esser privati dei propri diritti e delle ricchezze che tutti desiderano in quantità? Ecco, ci sono cose più grandi, più preziose e più desiderabili dei beni della terra. Noi siamo in attesa del Regno, il Regno dei cieli. A questo siamo destinati, ed è questo Regno che ci dona le soddisfazioni durature, e quindi più vere. In quel Regno dobbiamo perciò accumulare i nostri tesori: non ci deve spaventare il fatto di essere in pochi a coltivare questi desideri. Sono pochi quelli che si pongono come traguardo il Regno dei cieli, “piccolo gregge”, ma prezioso perché nelle mani di Dio, guidato, difeso e custodito da lui. Sono pochi, ma sono quelli che indicano la strada agli altri. E come si fa ad accumulare tesori là, dove saremo alla fine? È abbastanza semplice: dare in elemosina! Ciò che doniamo risulterà essere testimonianza della nostra fede e del nostro amore. Le cose che usiamo per farne dono di Dio ai poveri diventano un nostro tesoro nel suo cuore!

E poi Gesù si premura di affidare alcune regole ai discepoli per il tempo che ancora trascorreranno in questo mondo dopo la sua morte e la sua risurrezione, regole per vivere appieno il Regno e manifestarlo presente. Essi saranno sempre pronti, pronti ad amarlo. Non si dimenticheranno mai di attenderlo, perché egli di certo vorrà incontrarli per premiarli della loro fedeltà. Gesù sa che, purtroppo, la tentazione sarà sempre in agguato anche ai suoi più fedeli amici. Per questo non smette di raccomandare la vigilanza, la prontezza, l’attenzione a non addormentarsi. Dormire significa non accorgersi di quanto succede. Il discepolo di Gesù deve saper vedere sempre le conseguenze a breve a e a lungo termine di tutti i fatti che avvengono e di tutte le azioni che compie. Chi non è vigilante può compiere dei gesti che al momento sembrano buoni o anche senza importanza, ma che poi provocano una catena di sofferenze, di impedimenti, di condizionamenti fuori programma. Così è delle disobbedienze ai comandamenti, cioè di tutti i peccati. La tentazione fa apparire come bene l’ignorare qualche comandamento di Dio, ma poi quella disobbedienza genera mentalità e condizionamenti impensati. Questo vale non solo per i cristiani, ma per tutti, perché la Parola di Dio è data a tutti per il loro bene e non per ingannare. Pietro chiede esplicitamente a Gesù: “Questa parabola la dici per noi o anche per tutti?”. Ed egli risponde che la vigilanza è un bene per tutti, tanto più per chi ha compiti di responsabilità per gli altri. Nella Chiesa c’è chi ha responsabilità per gli altri credenti, ma tutta la Chiesa ha responsabilità per il mondo. Essa deve testimoniare la sapienza di Dio a tutti quelli che non credono, essa deve far vedere a tutti che Gesù è il Signore che dà vita, la verità che rallegra, e il Giudice di cui Dio si servirà per giudicare il mondo. Tutti i battezzati quindi, per più ragioni, devono essere vigilanti, sia per difendere se stessi che per illuminare il mondo che li circonda, per portarlo a conoscere e godere l’amore del Padre.

Prima del vangelo abbiamo sentito una pagina della lettera agli Ebrei. Questa pagina ci ricorda gli esempi di fede di Abramo e degli altri patriarchi, fede che li ha portati ad ubbidire a Dio senza dubitare di lui. Questa è la strada per vincere la tentazione del mondo, e questo è il modo per essere vigilanti in ogni situazione. Aver fede in Dio significa credergli e ubbidire alle sue indicazioni, non perché le vediamo giuste, ma perché sono sue. Egli è colui che ci ama e non solo non ci imbroglia, ma non vuole che ci inganniamo da noi stessi. Per questo ci parla. Abramo è sempre l’esempio più fulgido: Dio gli chiese il figlio, ed egli, sapendo che Dio stesso glielo aveva dato, ubbidisce. Egli sa che suo figlio preme a Dio più che a lui. La vigilanza di Abramo è perfetta: non permette ai propri ragionamenti di intromettersi nella Parola di Dio. Non mette se stesso al posto di Dio. È nelle sue mani infatti la storia dei singoli e del popolo, e quella di tutti i popoli. A questa verità ci ha riportato il libro della Sapienza. Anche nei periodi di persecuzione i figli santi di Dio gli ubbidiscono, anche se devono servirlo in segreto. Anche se “piccolo gregge”, perseveriamo nella fedeltà al nostro Signore, non lasciandoci condizionare dalle opinioni degli uomini, opinioni che propongono disubbidienza a Dio. Cerchiamo di arricchire davanti a lui, distaccati dal denaro e dai beni terreni, che ingannano poiché non danno salvezza, anzi, favoriscono divisioni e rotture e ostacolano la nostra testimonianza della centralità di Dio. Questi beni li affidiamo a Dio stesso, facendone appunto segno del suo amore per i poveri.



20ª Domenica Anno C

1ª lettura Ger 38,4-6.8-10 * dal Salmo 39 * 2ª lettura Eb 12,1-4 * Vangelo Lc 12,49-53


Colui che ha scritto la lettera agli Ebrei ci confida l’attenzione sua e della sua comunità. Essi hanno la consapevolezza di essere membri di una Chiesa di martiri, i testimoni, e che questi, benché già nella gloria, sono vivi e presenti, e con il loro esempio sostengono coloro che sono ancora qui sulla terra. Essi inoltre descrivono la nostra vita come una corsa faticosa, una corsa nella quale lo sguardo è tenuto fisso sul Signore Gesù. Di lui la cosa più degna di attenzione è la croce. Guardando a Gesù dovremmo notare la sua pazienza, la forza con cui ha sopportato l’“ostilità dei peccatori”. Questa pazienza deve diventare anche la nostra caratteristica: i cristiani infatti avranno sempre da soffrire. Prima di tutto essi soffrono per quell’inimicizia che sta dentro di noi a causa del peccato, e quindi anche l’inimicizia stessa di cui soffre il nostro Signore Gesù nel mondo. Lo sguardo rivolto a Gesù perciò avrà lo scopo di renderci forti, di evitare di stancarci nell’esercitare la fede. È lui che dà origine ad essa ed è lui che la fa maturare fino a divenire perfetta, come quella dei patriarchi e dei santi che ora ci sono d’esempio. La pazienza deve continuare tanto da “resistere fino al sangue nella lotta contro il peccato”.

Gesù ha sopportato l’ostilità, proprio come ci si poteva aspettare conoscendo la profezia della vita dei profeti. Oggi abbiamo sentito come Geremia è stato trattato: i capi lo condannarono a morte gettandolo nella melma di una cisterna, solo perché annunciava il disastro per la città, dato che i grandi erano disobbedienti a Dio. Ma il re lo fece salvare. Questo fatto è preannuncio della morte del Messia e annuncio della sua risurrezione. I profeti infatti non profetizzano soltanto con le loro parole e le loro invettive, ma anche, e soprattutto, con le vicende della loro vita. Gesù lo sapeva. Per questo egli sta in attesa degli eventi che lo getteranno nella sofferenza e nell’angoscia. Ai discepoli dice con chiarezza che egli si attende un “battesimo”, cioè un’immersione completa, immagine che allude alla morte. Ad essi confessa la sua quasi impazienza per quell’evento che segnerà il compimento della sua missione. Una missione, la sua, particolare: “Gettare fuoco sulla terra”: di che fuoco si tratta? Come percepiva Gesù la sua missione? Il fuoco purifica, il fuoco illumina, il fuoco riscalda.

Gesù è venuto a purificare. La terra ha bisogno di grande purificazione, perché, come egli stesso ha avuto occasione di dire, gli uomini si comportano come ai tempi di Noè, ignorando ogni voce che viene dall’alto. Gli uomini della terra sono come quelli di Ninive e come quelli di Sodoma e Gomorra, che si tirano addosso il castigo della distruzione. Gesù viene a purificare con il suo sangue, versato per la remissione dei peccati. Chi lo accoglierà godrà del perdono di Dio.

La terra ha bisogno di essere illuminata. Quanta tenebra avvolge le nazioni! E quante persone vivono in continua confusione senza sapere come comportarsi sia per vivere serenamente sia per aiutare gli altri! Di quanta luce c’è bisogno per vedere il volto di Dio, che gli uomini non conoscono come Padre, ma di lui hanno solo opinioni diverse che mettono solo incertezza e paura. Dio è temuto, è ritenuto geloso degli uomini, vendicativo e terribile: quale luce è necessaria! Gesù viene per dare a tutti e per essere per tutti la luce che ci fa contemplare l’amore semplice, vero e costante del Padre.

La terra ha bisogno di essere riscaldata. Parliamo di calore, quello necessario nelle relazioni tra uomini. La freddezza fa star male, non è il nostro habitat normale e necessario. Non è nemmeno la caratteristica degli uomini di Dio. Dio ama, e l’amore riscalda i cuori, li unisce, e ci fa sentir bene dappertutto, anche quando non ci si capisce con la lingua. La sapienza e l’amore di Gesù riscaldano la terra.

Il fuoco che Gesù vorrebbe “fosse già acceso” è certamente quello del suo Spirito. Ma affinché il suo Spirito possa venire è necessario che egli parta da questo mondo, come egli stesso ha detto ai discepoli. Gesù quindi desidera ardentemente che si compia il mistero della sua partenza da questo mondo, perché così può venire lo Spirito Santo a purificare, illuminare e unire i cuori degli uomini e dei popoli. Il fuoco poi che egli getta nel mondo continuerà a bruciare e avrà bisogno, per essere alimentato, di persone che si offrono a Dio, come egli si è offerto. Ci saranno sempre incomprensioni e divisioni, perché Gesù sarà sempre un segno contraddetto: chi non lo vuole incontrare, odierà coloro che diverranno suoi. Queste divisioni faranno soffrire le persone che maggiormente si amano: familiari, parenti, amici. Saremo sempre riconoscenti a quella “moltitudine di testimoni” che ci circonda e ci dà esempio di fedeltà e di pazienza!



Assunzione della B.V. Maria

1ª lettura Ap 11,19; 12,1-6.10 * dal Salmo 44 * 2ª lettura 1Cor 15,20-26 * Vangelo Lc 1,39-56


Celebriamo questa festa di Maria santissima in un anno segnato da avvenimenti santi e sorprendenti nella Chiesa, ma anche da prodromi di possibili persecuzioni per il popolo cristiano! Abbiamo goduto e ringraziato Dio per aver visto l’umiltà di papa Benedetto e per aver ricevuto inatteso il dono della povertà e semplicità del papa Francesco. Assistiamo d’altra parte al profilarsi di disegni perfidi che trapelano dalle decisioni dei grandi della terra e che manifestano volontà di mettere la Chiesa a tacere e di volerla costringere ad agire contro la propria coscienza, in disubbidienza palese a Dio.

Dal mistero che oggi contempliamo siamo aiutati e consolati: possiamo contemplare infatti la nostra Madre già presente nei cieli, già splendente della gloria riservata a chi ha fatto della vita un dono a Dio Padre. A lei possiamo presentare le nostre gioie, per viverle insieme, e a lei pure presentiamo le nostre preoccupazioni e sofferenze per ricevere forza e consolazione. Dov’è la madre possono sperare di arrivare i suoi figli! La Madre è la figura e la profezia della Chiesa intera. Come lei e con lei godiamo e ci rallegriamo per la conoscenza di un Dio Padre attento ai piccoli e agli umili, e con lei affermiamo la debolezza dei potenti e la caduta dei superbi, con lei stacchiamo il cuore dalle ricchezze che, nonostante la parvenza, preparano la povertà e la fame di chi le possiede. Il cantico di Maria, che continua a risuonare ogni giorno con le voci e le armonie di tutti i popoli, ci fa partecipare alla sua gioia e alla certezza della sua fede e della sua speranza di giustizia. Gli uomini agiscono e dominano il mondo con il loro peccato, ma Dio non ha smesso di seguire le vicende dei piccoli e dei poveri, di chi si affida a lui. Egli mantiene le sue promesse e verrà in loro aiuto.

La vita di Maria, come la conosciamo dai vangeli, è tutta un canto di lode, è tutta un atto di amore. Ella ama Dio ascoltandone la voce, lo ama offrendosi a compiere il volere del Padre, lo ama servendo ovunque: serve Elisabetta, serve poi Giuseppe e il Figlio in tutte le sue vicende. Lo ama senza lamentele durante la fuga in Egitto, a Nazaret, dov’è tornata per decisione di Giuseppe, nella vita quotidiana e silenziosa, e poi, senza gelosie, anche insieme alle altre donne negli spostamenti in Galilea. È vicino a lui persino sul Calvario e rimane presente alla Chiesa che continua ad ubbidire a suo Figlio. Non facciamo fatica quindi a contemplarla oggi nella gloria dei cieli. Ha condiviso la gloria della croce di Gesù: quella era gloria divina, luogo che manifestava l’amore pieno, il dono perfetto di sè. Ora Dio ci manifesta l’altro aspetto della gloria, vista con il suo sguardo: la bellezza e la pienezza della gioia.

Maria oggi gioisce: gioisce anche se coloro che sono destinati ad essere suoi figli non sono ancora tutti redenti, non ancora tutti santi, non ancora vicini al suo Figlio. La sua gioia è un altro atto di amore per quei figli ancora lontani: li vuole attrarre al Figlio non con i rimproveri, ma con il suo sorriso, non con le lacrime, ma con le danze degli angeli attorno a lei.

San Giovanni nell’Apocalisse ci parla di “un segno grandioso nel cielo”: si tratta di “una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle”. Noi sappiamo che egli pensava alla Chiesa, splendente del suo Signore, coronata dei dodici apostoli, superiore a tutti gli eventi che passano e ritornano, come la luna. Ma quella Chiesa è presentata come una donna che deve “partorire un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni” il cui nemico, il drago, lo vuole divorare. L’immagine della Chiesa dunque coincide con la madre di Gesù, la beata Vergine Maria. Lei per noi è sempre un segno e un segno grandioso. È la madre del capo della Chiesa, e quindi di tutto il Corpo! È rivestita della gloria di Dio, in lei risplende l’amore pieno e perfetto, quell’amore che serve il Figlio di Dio. Oggi la veneriamo accolta in cielo dalla Trinità Santissima: diventa così per noi un traguardo, e una consolazione. Le vicende che potrebbero in un prossimo futuro crearci gravi sofferenze non ci spaventano, come non si è spaventata Maria. Per lei poi le persecuzioni sono divenute occasioni per manifestare fedeltà a Dio e rendere pubblico l’amore per suo Figlio Gesù. Nel cielo, dove è accolta tutt’intera, anima e corpo, ci attende. E noi ci prepariamo a raggiungerla, cantando il suo stesso cantico di lode a Dio, vivendo un’amicizia seria con il suo Figlio e osservando con serenità ciò che succede nel mondo, senza timore: siamo nelle mani di quello stesso Dio che ha premiato lei.



21ª Domenica Anno C

1ª lettura Is 66,18b-21 * dal Salmo 116/117 * 2ª lettura Eb 12,5-7.11-13 * Vangelo Lc 13,22-30

Genti tutte, lodate il Signore”: il salmo invita tutti i popoli a celebrare il Dio di Israele, un Dio che vuole essere il Dio di tutti, e quindi vuole unire tutte le genti in un unico coro che canti la gioia di essere una sola famiglia. Lo stesso progetto di Dio è espresso pure dal libro del profeta Isaia: “Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria”! Questo annuncio non era facile da accettare per il popolo d’Israele, che si riteneva il popolo prediletto da Dio, e quindi l’unico a poter godere la sua benevolenza; si riteneva privilegiato e si vantava di questo privilegio tanto da disprezzare gli altri popoli, e da tenersene distanti evitando persino di entrare nelle loro case. Questa interpretazione dell’amore di Dio era talmente errata, da costringere Dio a rifiutare il suo popolo stesso: non svolgeva il suo compito. Egli non vuole rinunciare a donare a tutto il mondo la sua grazia. Gesù, attento alla Parola dei profeti, lo dice espressamente: “Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio”. E afferma pure: “Voi invece cacciati fuori”. È terribile questa conclusione, ma è la conseguenza dell’orgoglio che i capi del popolo coltivano, interpretando l’amore di Dio come un privilegio e non come una missione, un compito, un impegno verso gli altri. Per questo Gesù approfitta della domanda curiosa di “un tale” per dare un serio ammonimento. La domanda che gli viene rivolta è quella che talora ci poniamo anche noi: “Sono pochi quelli che si salvano?”.

Gesù è in cammino verso Gerusalemme, annota san Luca. E noi sappiamo che se Gesù si è messo in cammino decisamente verso Gerusalemme, è perché si sta avviando alla sua passione e morte, a realizzare cioè la volontà di Dio, che è l’offerta della sua vita sulla croce per “attirare tutti a sè” e consegnarli, salvati, al Padre, tutti gli uomini. Gesù potrebbe quindi interpretare quella domanda come una tentazione: «Serve poco la tua offerta? è forse inutile il tuo sacrificio? Perché ti preoccupi tanto di arrivare a Gerusalemme, tanto… serve poco». Una tentazione si, ma è un’occasione per dire qualcosa di importante ai discepoli e a tutti gli altri. Perché il suo sacrificio ottenga la salvezza, è necessario che ognuno la desideri, e partecipi con la sua fatica. Quale fatica? La salvezza è come una porta, dice Gesù. La porta è stretta, quindi per passare devi alleggerirti di ogni bagaglio, lasciare tutto. L’essere al di là della porta deve diventare l’unico tuo desiderio, l’unico tuo tesoro; tutto il resto può essere lasciato. “Sforzatevi di entrare per la porta stretta”, dice con decisione Gesù. E allora la risposta alla domanda è comprensibile: ti puoi salvare anche tu, se abbandoni tutti i tuoi sogni, tutte le tue cose, tutto ciò che ti tiene legato alla terra. Non importa se sono tanti o pochi quelli che si salvano, importante è che ci sia anche tu tra i salvati. Se anche tu fai qualcosa, il mio sacrificio porta frutto anche per te e ottiene che anche tu sia figlio di Dio.

E il Signore continua l’insegnamento per sfatare facili illusioni. L’aver ascoltato la Parola non è sufficiente, nemmeno l’aver mangiato in compagnia dei santi, né avere tra i parenti un prete o una suora. L’aver fatto il chierichetto fino a quindici anni, se non è servito a sostenere la fedeltà al Signore, non è motivo di vanto. L’essere membro del coro parrocchiale, se non ti aiuta a vincere le tentazioni di infedeltà matrimoniale, torna a tua condanna! E se ti adatti a tutte le mode del mondo, a quella di anticipare il matrimonio con la convivenza, non vantarti di aver fatto una gran festa per la prima S. Comunione: ne hai rinnegato il valore, mettendoti nella situazione di non poter più celebrare i Sacramenti della tua fede. E se ti fai complice di ingiustizie o approvi qualcuno ad abortire o ti disinteressi della società, che serve essere Consigliere parrocchiale o amico del tal Santuario o frequentatore di luoghi di apparizioni della Madonna? Gesù ha il coraggio di dire: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me”. Sono parole dure, e Gesù non si vergogna di pronunciarle. Dato che ci ama, si permette di essere severo e di parlare chiaramente. Il suo amore vuole correggere i nostri modi errati di pensare e di comportarci. La correzione, dice proprio oggi il Signore nella lettera agli Ebrei, può anche farci soffrire, perché noi siamo attaccati ai nostri modi di agire, soprattutto se sbagliati. Ma proprio la correzione ci rende persuasi che Dio ci ama come un papà che ama i suoi figli: non li lascia comportarsi in modo da farsi del male e da abituarsi al male. Da adulti siamo riconoscenti ai genitori che ci hanno educati anche con i rimproveri. E quando matura in noi la fede ringraziamo Dio di aver usato con noi anche metodi duri e severi, di averci lasciato soffrire perché crescessimo nella capacità di amare e di accogliere Gesù con la sua croce. Sarà grande la nostra gioia quando avremo passato la porta stretta, quella porta che ha la forma di croce!



22ª Domenica Anno C

1ª lettura Sir 3,17-20.28-29 * dal Salmo 67 * 2ª lettura Eb 12,18-19.22-24a * Vangelo Lc 14,1.7-14


Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, così troverai grazia davanti al Signore. … E dagli umili egli è glorificato”. Quanto più una persona sta vicino al Signore, tanto più diventa umile, dolce, mite e semplice. L’umile gode la fiducia di tutti, sa star vicino a tutti, è gradito ai piccoli e ai grandi. Questi, se fan conto della loro grandezza, sono orgogliosi e superbi. E “per la misera condizione del superbo non c’è rimedio, perché in lui è radicata la pianta del male”. Sono preziose queste osservazioni, tanto più che sono di Dio. Egli stesso in tal modo si fa conoscere come umile. Umiltà quindi è la caratteristica di Dio e di coloro che gli appartengono. Maria, nel cantico da lei pronunciato, dice: Dio “ha guardato l'umiltà della sua serva”. Non che lei si vanti di essere umile, bensì gode della propria piccolezza e povertà, perché queste sono oggetto della attenzione e della compiacenza del Padre. Anche Gesù ci ha detto: “Imparate da me: io sono mite e umile”. Lo diceva già il profeta che il servo di Dio “non fa udire in piazza la sua voce”. È il Figlio stesso di Dio che è maestro di umiltà: da lui impariamo, dal suo atteggiamento, dal suo modo di porsi vicino ai discepoli e vicino ai bambini, agli ammalati, ai sofferenti di ogni tipo.

E oggi egli parla proprio di umiltà con un paio di insegnamenti dati in casa di persone che l’umiltà non la conoscevano, o meglio, non la praticavano. Gli invitati al pranzo, cui egli stesso era presente, cercavano i primi posti. Si ritenevano importanti, o tali volevano essere ritenuti dagli altri. Per un osservatore come Gesù, quelli erano davvero ignobili e inaffidabili: infatti, se cerchi di essere grande davanti agli uomini, sei disposto a pagare tale grandezza e vanagloria anche con la menzogna e con il disprezzo degli altri. Ecco quindi che Gesù dice chiaramente: “Non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro più degno di te”. Non bisogna mai escludere questa possibilità. Chi è superbo non la considera, ma solo chi è umile, chi accetta l’invito a pranzo come un atto di amore e non come un’occasione per mettersi in mostra. “Va’ a metterti all’ultimo posto”, consiglia Gesù. Qual è l’ultimo posto? È il posto di chi s’aspetta di servire, di chi trova la sua gioia nel servire e nell’amare i fratelli. È il posto di Gesù. Essendo il posto di Gesù, l’ultimo posto diventa il più bello, il più amabile, il più santo, diventa il primo! Per questo motivo “chi si umilia sarà esaltato”: chi cerca il posto di Gesù potrà godere il premio di Dio, sarà unito al Figlio e regnerà con lui.

Ma Gesù ha un altro segreto da trasmettere al capo dei farisei che l’aveva invitato. Chissà per quale motivo l’ha invitato! Ebbene, il nostro Signore vuole suggerire al suo ospite un modo di fare che gli meriterebbe la benevolenza di Dio e lo renderebbe ricco nel regno dei cieli. “Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti”. È, questo, un consiglio inaudito. Chi mai invita a pranzo, in casa propria, persone che sono considerate immonde? E con ogni probabilità anche grandi peccatori se non addirittura maledetti da Dio? E poi, che gusto c’è ad invitare sconosciuti e poveracci? Non ci si guadagnerebbe nessuna considerazione tra le persone del mio rango! Gesù sta esagerando! No, egli ci rivela i modi di fare di Dio stesso, Padre e amico degli uomini. Dio invita tutti nel suo cuore, e lo ha fatto e lo fa attraverso di lui, attraverso Gesù.

Gesù è il “Dio con noi” ed è qui per invitarci a tavola con sè. Ha moltiplicato i pani per i cinquemila e li ha fatti sedere tutti insieme senza chiedere che si allontanino i poveri e gli storpi, ha accolto tutti gli inviti a pranzo che gli sono stati rivolti, ha continuato la cena anche se era presente Giuda, il suo traditore. Con quei consigli Gesù non solo aiuta il suo ospite a vivere una fede più autentica e consapevole, ma anche rivela in modo più preciso la propria identità. Adesso conosciamo un pochino di più il Maestro. È lui l’invito di Dio che ci vuole tutti in comunione con sè!

Dio non ci vuole spaventare, né vuole trattarci come schiavi. Non usa metodi che mettano paura: questo poteva avvenire nell’antica alleanza, prima che lui stesso, in Gesù, venisse a stare nel mondo. Prima della sua presenza con noi, in noi avevano peso le nostre immaginazioni e fantasticherie, e per questo di Dio avevamo paura. Ora invece tutto ci parla di gioia, perché godiamo e ci rallegriamo della presenza del “Dio con noi”! Così ci istruisce la lettera agli Ebrei. Non abbiamo bisogno di essere grandi, anzi, a fianco di colui che è davvero grande godiamo di essere piccoli e semplici, godiamo di crescere nell’umiltà!



23ª Domenica Anno C

1ª lettura Sap 9,13-18 * dal Salmo 89 * 2ª lettura Fm 1,9-10.12-17 * Vangelo Lc 14,25-33

Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio”: così ci ha aiutato a pregare il salmo. Chi è capace di contare i propri giorni? Possiamo certamente contare i giorni già vissuti, ma quelli che ci restano come facciamo a contarli? Se tenessimo presente questa nostra impossibilità, vivremmo un po’ più umilmente e con una maggior fiducia in Dio. Le letture di oggi hanno proprio questo scopo: aiutarci ad essere umili, riconoscendo i nostri limiti, e aiutarci ad essere attenti a prevedere le conseguenze delle nostre azioni, per non essere stolti e perdere così, insieme con i nostri beni materiali, anche la nostra considerazione sociale.

La prima lettura esordisce con interrogativi, cui nessuno può rispondere: “Quale uomo può conoscere il volere di Dio?”. E continua dicendo appunto che i nostri ragionamenti, per quanto intelligenti, sono limitati, perché noi non possiamo disporre della conoscenza di ciò che accadrà. Non conosciamo il futuro, non conosciamo ciò che avviene a distanza, e proprio bene non conosciamo nemmeno ciò che sta succedendo a noi stessi. Come possiamo perciò pretendere di conoscere il volere di Dio, nelle cui mani è il passato e il futuro, il vicino e il lontano? Soltanto se lui ce li manifestasse, potremmo conoscere i suoi progetti e programmare quindi di conseguenza la nostra vita.

Prevedere… o essere previdenti è il centro delle due parabole che Gesù ha raccontato alla folla numerosa che lo seguiva. Un ricco vuol costruire una torre e un re vuole andare in guerra. Tutt’e due prima di iniziare la prima mossa deve riflettere, calcolare, prevedere le conseguenze. Chi costruisce farà calcoli per sapere come fare a pagare la spesa cui va incontro, altrimenti non comincia nemmeno. E se comincia sconsideratamente farà le cose a metà e andrà incontro alla derisione di tutti. Chi va in guerra calcola le proprie forze e quelle del nemico. Non rischierà di essere sconfitto prima ancora di cominciare.

C’è un terzo caso: ci sono persone che programmano di diventare discepoli di Gesù. Devono anch’essi calcolare qualcosa? Certamente. Essere discepoli di Gesù è un grande investimento, non lo si può e non lo si deve sottovalutare, non deve diventare fonte di illusione e quindi grande delusione: ne scapiterà persino la nostra eternità.

Chi vuol essere discepolo di Gesù deve fare i suoi calcoli per vedere sia cosa ci guadagna, come pure cosa ci perde. Così riuscirà a vedere se vale la pena perderci tutto quanto tale decisione costerà. Essere discepolo del Signore significa seguire colui che vive già nel cuore del Padre, colui che tiene in mano il mondo, colui che sa amare come nessun altro, colui che è uomo in pienezza: significa ricevere la vita, possedere la libertà, godere la gioia piena. Ma essere discepolo costa, costa tutti i propri averi, come sono costati a quell’uomo che ha voluto comprare quel campo che nascondeva sotto la propria superficie un grande tesoro. Anzi, di più: essere discepolo di Gesù costa mettere in secondo piano i propri parenti, le persone più care, “e perfino la propria vita”. Il prezzo è alto; ma bisogna sapere che i propri affetti e la propria vita non vengono vissuti appieno se non c’è l’amore di Gesù. Chi mette davanti a tutto e a tutti il Signore sarà capace pure di amare in modo libero i propri parenti, senza volerli possedere e senza esserne posseduto.

Essere discepolo: ecco il programma di vita che richiede riflessione e poi decisione matura. Quando sarai discepolo potrai contare sul Maestro, anzi, sul Signore. Sarai nel suo cuore, ed egli ti manifesterà i progetti di Dio, diverrai partecipe della sua fatica per quel Regno che diventa benedizione per tutto il mondo. Quando sarai discepolo non avrai più interessi per le cose e le ricchezze di questa terra, e quindi nemmeno ti devasteranno le paure e preoccupazioni e le avidità e tentazioni che quelle generano. Quando sarai discepolo ti interesserà soltanto ciò che aiuta i tuoi fratelli ad essere immersi nell’amore di Dio. Allora non sarai offeso dalle offese che ti raggiungono, non sarai schiavo delle azioni degli altri né dei loro pensieri. Quando qualcuno ti deriderà tu cercherai di sollevare la sofferenza che lo affigge, e avrai per lui misericordia, e ti sentirai partecipe della compassione di Dio Padre.

San Paolo ce ne offre un esempio quando scrive a Filemone. Quest’uomo, padrone di uno schiavo fuggito, dando peso alla propria fede, sarà capace di accogliere con benevolenza il ritorno dello schiavo e di tenerlo con sè come un amico, come un fratello di Gesù. L’apostolo questo gli chiede, perché sa che chi ama Gesù e gli è fedele è in grado di farlo e lo farà con gioia, sapendo di essere in tal modo testimone e partecipe dell’amore e della sapienza di Gesù. Anche chi si ritiene padrone offeso deve saper contare i propri giorni con il pallottoliere della misericordia di Dio!



24ª Domenica Anno C

1ª lettura Es 32,7-11.13-14 * dal Salmo 50 * 2ª lettura 1Tm 1,12-17 * Vangelo Lc 15,1-32

Quale mistero! Mosè deve accorgersi, malgrado tutto il suo impegno e la sua fedeltà, che il popolo da lui guidato si è pervertito. Sono passati soltanto quaranta giorni, i giorni in cui egli si è ritirato sul monte per ascoltare Dio e adorarlo, e il popolo s’è lasciato andare a cercare i piaceri della vita, rinnegando così la sua identità di popolo di Dio. Tutti si sono lasciati attrarre dalle parvenze e si sono messi a seguire i propri desideri terreni e mondani, ciò che arreca piacere ed emozione, ciò che non impegna il proprio cuore a manifestarsi obbediente a Dio. Il popolo ha così apostatato dalla propria fede: perché Dio dovrebbe ancora proteggerlo e aiutarlo? È la domanda che ci poniamo anche noi quando vediamo come vanno le cose nella nostra nazione. Non vediamo altro che gente alla ricerca di denaro e di piacere, cioè del vitello d’oro che attrae e inganna, che fa nascere invidie e quindi prepotenze, soprusi e vendette, ingiustizie e adultèri. Proprio in quella situazione Mosè stesso interpreta il desiderio più profondo di Dio stesso, venendo preso da un sentimento di grande e profonda misericordia. Egli si rende conto che il peccato del popolo è gravissimo, e che meriterebbe davvero di essere distrutto. Ma che figura ci farebbe proprio Dio, che lo ha fatto uscire dall’Egitto? E come potrebbe Dio mantenere le promesse fatte ad Abramo, ad Isacco e a Giacobbe? Per mantener fede a queste promesse egli ora deve usare misericordia e lasciar vivere il popolo. Questo pensiero diventa la preghiera di Mosè.

I ragionamenti di Mosè rivivono nelle parabole di Gesù. Egli è seduto a pranzo con i peccatori. Questa è una ripugnanza, anzi uno scandalo per i farisei, che pensano di meritare l’amore di Dio e il perdono con le proprie buone azioni. Per questo essi non riescono a capire Gesù. Essi non pensano che Dio riceve gloria e onore esercitando la misericordia, amando e perdonando gli uomini senza far conto dei loro meriti, spesso inesistenti, ma solo per essere fedele alle proprie promesse. Egli si vuole manifestare come un Dio che sa amare davvero, e sa amare chi non lo merita. Chi si scopre amato, a sua volta ringrazia e cerca di ricambiare l’amore. Gesù, ai peccatori che mangiano con lui e ai farisei che lo stanno spiando dalla porta, racconta tre parabole, due delle quali molto simili tra loro, facili da comprendere. I peccatori saranno incoraggiati a convertirsi e i farisei a cambiare il modo di giudicare gli altri e di esaltare se stessi.

Un uomo perde una pecora e una donna perde una moneta. Tutt’e due cercano con ansia ciò che hanno perduto, e quando ricuperano il loro tesoro, fanno festa e condividono la gioia con gli altri. Dio si comporta proprio così. Quando riesce a ricuperare qualche peccatore, fa festa con gli angeli che non hanno conosciuto il peccato.

Perché i farisei non si rallegrano del fatto che i peccatori ascoltano il Figlio di Dio? Il loro amore per Gesù arreca gioia a Dio, perché da questo momento non sono più lontani da lui, non più quindi nel peccato, ma sono già ricuperati! Dio infatti non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva.

La terza parabola è ancora più esplicita. Un uomo non perde né una moneta né una pecora, bensì addirittura uno dei suoi due figli. Questi si stanca di stare con il proprio padre e con il proprio fratello e va in cerca di esperienze nuove, che lo portano alla rovina, lo buttano nella miseria e nella sofferenza. Egli è come il popolo di Mosè, e riproduce la situazione dei peccatori: lontano da Dio, disobbedendo ai suoi comandamenti, essi sono nel disordine e nella sofferenza. Nemmeno l’altro figlio è consolazione per il padre: rimane sì con lui, ma da lui non impara ad essere misericordioso, nè ad amare; egli nasconde in sè degli interessi materiali, e questi influenzano i suoi sentimenti e i suoi rapporti con gli altri. Questo figlio rappresenta la situazione dei farisei, che ubbidiscono sì ai comandi di Dio, ma non apprendono da lui né la misericordia né l’amore per tutti. Nella parabola, il figlio che se n’è andato, stimolato dalla fame, ricorda la bontà del padre e torna a chiedergli perdono per farsi nuovamente accogliere e poter mangiare il suo pane. L’altro figlio, approfittando del fatto che il padre manifesta il suo amore per suo fratello, mostra la propria disapprovazione: non vuole imparare da lui. Si capisce così che egli lo ritiene solo un datore di lavoro. È vissuto con lui come un servo, non come figlio. Riconosciamo in lui l’atteggiamento di coloro che sono sì fedeli, anche molto praticanti, ma non innamorati del proprio Dio e nemmeno quindi misericordiosi con il prossimo. In questa parabola il padre non va a cercare il figlio: per rispettare la sua libertà si limita ad attenderlo, con impazienza. Un uomo non è una pecora né una moneta. L’uomo ha una volontà e un cuore che devono smettere il proprio orgoglio per sostituirlo con l’umiltà, e così far posto a Dio in sè. Tutti e due i figli hanno bisogno di conversione, allo stesso modo che tutti noi abbiamo bisogno di avvicinarci al Padre per vivere e per lasciarci cambiare il cuore!



25ª Domenica Anno C

1ª lettura Am 8,4-7 * dal Salmo 112 * 2ª lettura 1Tm 2,1-8 * Vangelo Lc 16,1-13


Il profeta Amos descrive la nostra società. Potremmo dire che descrive ciò che si nasconde spesso dentro di noi, un’avidità di ricchezza tale da renderci falsi e capaci di ingannare, frodare e rubare. Persino impieghiamo i giorni di festa, creati per la gloria di Dio e per la nostra crescita spirituale, li usiamo per accontentare l’avidità nostra o dei nostri padroni. È più che mai vera l’accusa del profeta in un periodo, come il nostro, in cui si aprono i negozi nel giorno del Signore per attirare la gente e distoglierla dal cercare invece la Parola di Dio. Il frutto di questo comportamento non arrecherà che sofferenza a tutto il popolo.

L’accusa di Amos è continuata dalle raccomandazioni di San Paolo: egli esorta tutti gli uomini a pregare. E la preghiera dev’essere fervorosa, gioiosa, sentita. È l’atteggiamento di preghiera e la pratica della preghiera che può ottenere all’uomo quella sapienza e forza di volontà necessarie per contrastare il potere nefasto dell’avidità. La preghiera, che abbiamo imparata da Gesù, da cui continuiamo a riceverne lo spirito, ci tiene vicini a Dio, a quel Dio che ha appunto mandato Gesù per salvarci. La preghiera pure ci unisce e ci dona pace, perché Dio è “uno solo, e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini”. Il fatto che Dio sia uno solo, e che egli abbia dato soltanto Gesù come mediatore tra noi e lui, ci rende fratelli. Il nostro essere fratelli ci fa mettere in primo piano l’amore reciproco, per vincere l’amore del denaro.

Il denaro esiste, ed ha scopo di esistere. Esso deve servire allo spirito di fraternità dei discepoli di Gesù, e non deve tentarli e distrarli dal loro compito nel Regno di Dio. Purtroppo il cuore dell’uomo facilmente perde di vista l’importanza del Regno quando dà importanza al denaro. Per questo Gesù non esita a chiamarlo “ricchezza disonesta”. Perché “disonesta”? Ce lo chiediamo giustamente. Se la ricchezza fosse a disposizione dell’amore per i poveri, fosse adoperata per dare lavoro e dignità agli uomini, fosse a servizio della solidarietà, non sarebbe ricchezza. Se la chiamiamo ricchezza è perché essa è accumulata e attende che qualcuno perda tempo per custodirla, farla crescere, darle valore. Essa ruba così inutilmente tempo agli uomini, li rende schiavi, perché devono occuparsi di essa invece che essere da essa aiutati. E sul più bello, quando un uomo ricco se ne va da questo mondo, la sua ricchezza lo abbandona e diventa per di più capo d’accusa al giudizio di Dio. È disonesta ancora perché suscita invidie e prepotenze, prepara armi e coltiva odio, incita a vedere gli uomini come clienti o possibili avversari invece che fratelli.

La parabola che Gesù racconta ci dà un’idea di come un uomo può servirsi della ricchezza prima per i propri capricci e poi per comprare l’amicizia dei debitori, con una scaltrezza che coinvolge altri nella propria ingiustizia. Nella conclusione del racconto Gesù dà il suo suggerimento prezioso. Egli ammira la scaltrezza del disonesto, e propone a noi, “figli della luce”, di essere altrettanto scaltri per non farci ingannare dalla ricchezza disonesta! Sarebbe abbastanza semplice, basterebbe imparare dal disonesto: usare la ricchezza per farsi degli amici, cioè donarla ai poveri. Questi, essendo i preferiti da Dio, hanno sempre un peso sul suo cuore, e intercederanno per noi quando ci presenteremo al giudizio finale. Essi potranno testimoniare davanti a Dio che abbiamo avuto un cuore buono verso di loro, che siamo stati misericordiosi, che abbiamo distribuito il suo amore di Padre. Questo è l’unico modo di essere “fedeli”, cioè di esercitare la fede in Dio. Se dipendiamo da Dio per l’uso di cose poco importanti, come appunto la ricchezza, egli ci potrà affidare i tesori del suo Regno, ci potrà chiamare a servirlo nella sua Chiesa. Se usiamo secondo l’amore del Padre i beni materiali, cioè le ricchezze che non ci appartengono per sempre, ci verranno affidati i beni spirituali, quei beni che saranno nostri, che ci accompagneranno nel nostro passaggio alla vita eterna. L’uso sapiente delle ricchezze materiali ci prepara ad essere veri servitori di Dio. Avremo occhi aperti a vedere le sofferenze e necessità dei fratelli, avremo il cuore spalancato per aiutarli con quei beni che troviamo nelle nostre mani, e, per non lasciarci vincere dalle tentazioni, pregheremo in ogni luogo, come ci esorta l’apostolo. Sia la nostra preghiera che la nostra generosità trasformeranno la nostra società, perché in essa si diffonda uno spirito di famiglia, di fraternità, di condivisione. E la gioia si diffonderà in tutti i cuori.



26ª Domenica Anno C

1ª lettura Am 6,1.4-7 * dal Salmo 145 * 2ª lettura 1Tm 6,11-16 * Vangelo Lc 16,19-31

santi Arcangeli Michele, Gabriele, Raffaele


Gesù continua i suoi insegnamenti: gli sta a cuore che i suoi discepoli e tutti gli uomini, che devono essere salvati, non si lascino ingannare. Domenica scorsa ci ha detto che non possiamo contemporaneamente servire a due padroni. Li può ingannare quel padrone che non li ama. È uno solo il padrone che poi scopriamo essere Padre, lui solo che ci dona vita, l’altro ce la vorrebbe togliere. Per questo comprendiamo come al Signore prema istruirci bene e darci argomenti razionali e scritturistici perché ci sappiamo difendere dall’inganno che proviene dalla voglia di arricchire.

Anche oggi è Amos, il profeta mandriano, ad introdurci. Egli proclama il suo “guai” per gli spensierati, per coloro che spendono e spandono per godersi la vita: mangiano, bevono, cantano, usano il tempo per immergersi nei piaceri. Così facendo non s’accorgono che proprio essi provocano ingiustizie tremende facendo soffrire tutto il popolo. Quale sarà il loro futuro? “Andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti”: noi che viviamo in una società analoga, ci aspettiamo ora il crollo di coloro che pretendono essere onorati da tutti. E ad uno ad uno li vediamo perdersi nel nulla.

Gesù ha ancora una lunga parabola, molto realistica. Due sono i protagonisti: il ricco e il povero. Il ricco non è ritenuto degno nemmeno di avere un nome. Il povero invece possiede un nome significativo, Lazzaro: «Dio aiuta»! Non lo aiuta il ricco, che potrebbe farlo: questi anzi lo ignora, forse non per cattiveria, ma semplicemente perché non s’accorge di lui, nemmeno se quegli sta tutto il giorno alla sua porta. Il ricco è troppo impegnato a divertirsi, a gozzovigliare, a spassarsela. I suoi impegni sono troppo onerosi. Lazzaro ha l’aiuto di Dio: e Dio, non potendo aiutarlo con le mani degli uomini, gli manda i cani a consolarlo con la loro lingua. Lazzaro attende da Dio la sua parte, e non è deluso. Arriva infatti per lui il giorno di lasciare questo mondo, e vengono gli angeli a ritirarlo e a condurlo nel luogo degli amici di Dio, insieme ai veri grandi, insieme ad Abramo. La sua miseria è dimenticata, perché la gioia e la pienezza di vita accolgono la sua anima. Il giorno fatidico arriva anche per colui che si riteneva padrone del mondo. Gli uomini non sanno fare altro che deporlo in un sepolcro, mentre gli angeli non possono occuparsi di lui. I tormenti lo ricompensano del modo con cui ha speso il tempo e della sua volontaria cecità.

Adesso egli si accorge di molte cose, si sveglia, soffre. La sofferenza gli apre gli occhi: vede Lazzaro tra coloro che si sono appoggiati a Dio. Ora tenta di diventare umile, o, meglio, elemosina un po’ di sollievo ai suoi tormenti. Nulla da fare. Dio misericordiosissimo è anche rispettoso delle scelte operate dall’uomo, anche di quelle sbagliate. Ed egli è anche giusto, tanto da lasciare che ciascuno goda o soffra le conseguenze del proprio operato. Nulla da fare: nell’eternità non si può comprare nulla, né con il denaro né con l’adulazione, nemmeno tentando di suscitare compassione.

Gesù termina la parabola mettendo in bocca al ricco ormai dannato una richiesta, apparentemente colorata di fede, per i suoi fratelli che lo avevano seguito nei divertimenti e nel godersi la vita. Bisogna ammonirli severamente, far loro paura, altrimenti anch’essi finiranno male. E si permette di suggerire di mandar loro Lazzaro. In bocca ad Abramo Gesù mette la risposta: la parola di Dio vale più di quella di un morto che appare in sogno o nella veglia: e la Parola di Dio è molto chiara, facile da comprendere. Ma il ricco sa che la ricchezza se n’infischia della Parola di Dio, e perciò i suoi cinque fratelli non l’ascolterebbero né la prenderebbero sul serio.

La conclusione di Gesù, che ancora mette in bocca ad Abramo, è semplice. Chi non ha fede, chi non vuole credere in Dio e non accoglie la sua Parola, non si lascerà persuadere nemmeno dalla visione di un morto che rivive. E infatti i capi dei giudei vedranno uscire dalla tomba il fratello di Marta e Maria, anch’egli di nome Lazzaro, ma non crederanno a Gesù. E quando risorgerà e le guardie del sepolcro riferiranno l’accaduto, i capi metteranno mano al portafoglio, come con Giuda, per comprare anche la loro bocca e usarla per diffondere calunnie e menzogne.

Conclusione: sta’ attento alle ricchezze: ti ingannano; sii disponibile piuttosto ai poveri: essi non solo non ti impediscono, ma ti aiutano a “combattere la buona battaglia della fede” perché tu sia accolto nella “vita eterna, alla quale sei stato chiamato”.



27ª Domenica Anno C

1ª lettura Ab 1,2-3;2,2-4 * dal Salmo 94 * 2ª lettura 2Tm 1,6-8.13-14 * Vangelo Lc 17,5-10


Il profeta Abacuc sembra dar voce a quella preghiera che si nasconde in noi e spesso non abbiamo coraggio di rivolgere a Dio. Ci sono spesso attorno a noi ingiustizie tali da scoraggiare anche la nostra preghiera! Dio le vede, perché non interviene? Perché permette che esse facciano soffrire tante persone? Il Signore risponde: c’è una scadenza per ogni cosa, anche per l’ingiustizia, anche per la violenza. È importante che rimanga viva la fede, perché è questa la sorgente della vita. La fede non deve sparire, essa deve dare fiducia, sicurezza, abbandono alle mani potenti di Dio.

I discepoli di Gesù si accorgono che la fede è necessaria, soprattutto dopo che il Maestro ha parlato loro della necessità di perdonare. Come si fa a perdonare sette volte al giorno? Dove prendiamo la forza d’amore necessaria per una cosa che va tanto contro corrente, ma anche contro l’istinto naturale e normale che ci troviamo dentro? È in questa circostanza che fanno la loro richiesta accorata: “Accresci in noi la fede!”. Si è rallegrato il Signore di questa domanda? A prima vista noi diciamo che è proprio bella, e ci uniamo volentieri a loro. Accresci in noi la fede! Questa richiesta presuppone due cose: anzitutto che noi la fede l’abbiamo, e poi che essa sia insufficiente e che proprio lui, il Signore, debba darcene un supplemento. Qualcuno arriva a pensare e a dire persino che se non ha fede è perché Dio non gliel’ha data, incolpando Dio della propria incredulità. La fede è sì dono di Dio, ma non è detto che, se tu non ne hai, sia colpa sua. Egli può avertela donata, ma tu puoi averla nascosta, non l’hai mai usata, l’hai lasciata morire. La fede infatti è una relazione con Dio, relazione tra due persone: è quindi qualcosa di vivo, e come ogni realtà viva ha bisogno di essere coltivata, nutrita, curata.

Che cosa risponde Gesù alla domanda degli apostoli? Una risposta così non ce la saremmo aspettata! Egli dice che non occorre avere molta fede, perché essa, per quanto piccola sia, ottiene grandi cose. Ne hai tanta quanto un granellino di senape? - Il granellino di senape è così piccolo che nemmeno lo avvertiresti tra le dita! - Se ne hai un granellino ti basta, perché grazie ad essa avvengono grandi cose. La fede infatti è il tuo appoggiarti sull’onnipotenza di Dio, sulla potenza del suo amore, sulla sua carità. Da ciò comprendiamo che la fede c’è o non c’è. È un po’ come la corrente elettrica: se c’è, la lampada è accesa, se non c’è la lampada è inutilizzata.

E perché allora gli apostoli hanno chiesto un aumento di fede? Non utilizzavano la fede che già avevano. Non sapevano appoggiarsi sulla potenza di Dio, pensavano solo di dover avere qualcosa per poter contare su se stessi. La fede invece è proprio il contrario: io non ho niente, mi fido di te. Io non sono capace di nulla, mi affido alla tua capacità, o Dio. Non sono capace di amare e nemmeno di perdonare: tengo conto della capacità tua di perdonare e di amare.

Gesù continua la sua risposta aiutando i suoi a vivere una perfetta umiltà. Tu lavori? Fallo senza attenderti nulla. Considera la tua fatica un’attività dovuta, considera il tuo impegno come un dovere. Ritieni di essere solo un servitore che gode di servire. Lascia tutta l’importanza al tuo Signore, al tuo Dio. Lasci tutto a lui? Egli si sentirà impegnato per te, e per te impegnerà la sua onnipotenza. A chi è superbo o orgoglioso sembra esagerata questa umiltà, indegna della dignità dell’uomo. Ma chi ama Dio e chi è capace di amare il prossimo non si meraviglia, anzi gode di poter dire: “Siamo servi inutili”. L’atteggiamento che ne consegue è mitezza, è semplicità, è disponibilità, un atteggiamento che rende la sua persona gradita a chiunque, trasmettitrice di uno spirito di comunione e di fraternità. I veri benefattori dell’umanità sono stati e sono così. Gesù non ci inganna nemmeno su questo punto. Chi vive una siffatta umiltà non ci perde nulla, non è disprezzato da nessuno, anzi, è gradito e desiderato da tutti.

La coscienza di essere inutili, perché Dio è tutto, non è timidezza, quella timidezza che blocca ogni iniziativa. L’attribuire ogni merito a Dio è invece sostegno, come dice l’apostolo, ad essere forti, caritatevoli e prudenti. E il ritenersi poveri e incapaci è la base necessaria su cui poggiare la testimonianza al Signore Gesù, senza paura di credere in lui e per lui anche soffrire.



28ª Domenica Anno C

1ª lettura 2Re 5,14-17 * dal Salmo 97 * 2ª lettura 2Tm 2,8-13 * Vangelo Lc 17,11-19


Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore”. Con queste parole Naamàn, il comandante dell’esercito arameo, esprime la propria riconoscenza per essere stato guarito dalla lebbra. Il servo di Dio, il profeta Eliseo, che gli aveva detto cosa fare per guarire, non vuole assolutamente accettare regali, perché l’autore del miracolo è Dio: è lui che deve essere riconosciuto il benefattore di tutti. E allora il comandante si ripromette, e lo dichiara pubblicamente, di inginocchiarsi in adorazione d’ora in poi solo davanti al Dio d’Israele. Per questo chiede di portare con sè un paio di sacchi di terra, la terra di cui è Dio, il Signore d’Israele. Ci viene da sorridere di fronte a questa decisione. Essa è invece un modo concreto e manifesto di esprimere e rendere nota la propria nuova fede. Dio mi ha ridonato vita? Non mi devo e non mi posso vergognare di lui, altrimenti devo vergognarmi di me stesso. L’episodio narrato da questa prima lettura è significativo e utile per noi, anche per comprendere l’episodio narrato nel vangelo.

Qui sono dieci i lebbrosi che si rivolgono a Gesù con grande speranza. Dieci persone si rivolgono a lui ad alta voce chiamandolo per nome. Essi chiedono semplicemente: “Abbi pietà di noi!”. Gesù non si fa spiegare il significato di quella loro particolare invocazione, tanto è evidente. L’invocazione è speciale, perché la si rivolge soltanto a Dio, ed essi la rivolgono al “maestro” che sta andando verso Gerusalemme. Che cosa deve fare Gesù? Se si avvicina per toccarli rischia di essere abbandonato da tutti quelli che lo seguono: sarebbe ritenuto immondo, impuro. Senza avvicinarsi perciò li manda “a presentarsi ai sacerdoti”, che significa: siete già guariti, lo verificheranno gli ufficiali sanitari. Essi ubbidiscono, si avviano, e scoprono che la loro ubbidienza è già premiata: sono guariti, già purificati. Possono rientrare nei loro villaggi e nelle loro case, riavvicinarsi alle loro famiglie, riabbracciare i loro parenti. Ed è ciò che fanno tutti, tranne uno, uno straniero, anzi, un samaritano. Questi non pensa anzitutto a ritornare nella propria patria, ma a dire il suo grazie a colui che lo ha guarito. Il suo gesto ci dà l’occasione di assistere ad una delusione sofferta dal Signore, da Gesù. Egli è deluso dal comportamento degli altri nove, probabilmente tutti ebrei. Essi hanno vissuto la propria guarigione come un diritto, non come un dono. “Dove sono?”, si chiede il Signore. È una domanda che potrebbe risuonare ancora, anche per me, anche per molti che dovrebbero essere qui oggi a vivere questa liturgia eucaristica, che è il ringraziamento di ciascuno e di tutti per i grandi benefici che Dio ci elargisce ogni giorno. Ogni giorno egli è con noi, ogni giorno ci concede di vivere la grazia della comunione fraterna tra di noi, ci riveste di Spirito Santo, ci offre il suo perdono, ci riempie di sapienza per molte azioni e decisioni, ci rende capaci di amare e di perdonare. Quanti motivi per ringraziare, per celebrare l’Eucaristia non ogni domenica soltanto, ma tutti i giorni! È più facile certamente fare come i nove: hanno ottenuto, e continuano il viaggio tra i loro interessi materiali, come colui che viene guarito miracolosamente dal Signore e continua a pensare al suo negozio, ai suoi affari, ai suoi divertimenti, ai suoi esami, alle sue macchine, dimenticando allegramente colui che gli permette di godere la vita!

Comprendiamo l’esortazione che San Paolo indirizza al suo discepolo Timoteo: “Ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti…”. Ricordati: non dimenticare. Dimenticare è facile, ma non è utile. Per Gesù egli, l’apostolo, è in prigione e soffre, non solo fisicamente, ma anche perché scambiato per un malfattore, lui che ha faticato solo per annunciare Gesù. Chi accoglie Gesù si ritrova salvato, libero interiormente dalle schiavitù del mondo, gioioso portatore di vita, capace di donare amore a tutti quelli che incontra. Ricordati di Gesù. Per lui e con lui possiamo morire, in lui perseverare in mezzo a continue difficoltà, riconoscerlo necessario davanti a chi lo ignora o disprezza. È lui che ci ha guarito da una lebbra pesante, quella che ci isolava e ci teneva distanti da tutti, incapaci di comunione con gli altri e privi di pace interiore con se stessi, la lebbra del peccato. Egli ci ha purificato e lo fa ancora, quando ne abbiamo bisogno e lo chiediamo umilmente. Ci ricordiamo perciò anche di ringraziarlo pubblicamente, senza vergognarci di lui, anzi, ci gloriamo della sua presenza, invisibile, nelle nostre chiese! Ci sono di esempio e di stimolo il pagano Naamàn e il samaritano, che insieme con San Paolo ci dicono: “Ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti…”.



29ª Domenica Anno C

1ª lettura Es 17,8-13 * dal Salmo 120 * 2ª lettura 2Tm 3,14 - 4,2 * Vangelo Lc 18,1-8

L’importanza delle Scritture, cioè della Bibbia, è l’argomento su cui San Paolo si sofferma scrivendo al suo discepolo. Timoteo conosce già le Scritture fin dall’infanzia, perché sua nonna e sua madre erano ebree prima di diventare discepole di Gesù. Tutte le pagine della Bibbia sono un’introduzione utile e necessaria alla conoscenza di Gesù, perché in esse si trovano le preghiere che lui ha pregato, le profezie che lui ha compiuto, e gli episodi e le vicende che fanno da sfondo e preparazione alla sua vita. In esse si leggono anche molti insegnamenti sapienziali utili alla formazione di una personalità semplice, vera, prudente e capace di amare. Da quelle pagine, aveva detto Gesù, deve attingere anche il buon messaggero evangelico, perché sono Parola di Dio e perché da esse veniamo preparati ad accogliere il vino nuovo del regno dei cieli. Le Scritture sono perciò alimento prezioso al cristiano. Quale risonanza alle parole di San Paolo, san Girolamo affermò che l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo. Chi ama Gesù, infatti, cerca anche di conoscerlo, e per conoscerlo non superficialmente è necessario conoscere l’ambiente in cui è vissuto, quali pensieri e considerazioni erano presenti nella sua mente e a chi era indirizzato l’affetto del suo cuore. Le storie bibliche e le esortazioni profetiche erano certamente sempre presenti a lui, che era stato formato ascoltandole tutti i sabati nella sinagoga. Da quelle traeva la sua conoscenza di Dio, dei suoi disegni e dei suoi desideri.

Oggi egli ci parla proprio del Padre, e del suo desiderio di essere sollecitato continuamente dalla preghiera dei figli. Dio attende la voce degli uomini, attende le loro richieste insistenti, per poterle esaudire e poter così manifestare loro il suo grande amore. È un Dio che sa che gli uomini vivono nella sofferenza, perché vede con rammarico le continue ingiustizie cui sono sottomessi dalla prepotenza e dalla superbia di alcuni, proprio di quelli che avrebbero l’incarico di esserne i difensori. Nel suo amore, egli soffre con gli uomini, ma attende la loro preghiera per poter intervenire. Se la preghiera è insistente, continua, perseverante, egli interviene. Non è egli forse più attento e più buono di un giudice ingiusto, che fa il suo dovere solo per non essere importunato? Perciò la preghiera dei discepoli deve essere continua, “senza stancarsi”. Chi è che si stanca di pregare? Si stanca chi non conosce il Padre, chi non conosce la bellezza del suo amore per ciascuno di noi. Si stanca di pregare chi non dà fiducia a Dio, chi si ritiene abbandonato da lui, chi pensa di poter ricevere aiuto da qualcun altro. È vero, ci sono persone che ritengono di poter essere aiutati dalle promesse dei maghi e dai riti con cui essi invocano la potenza del maligno, nemico di Dio. Il discepolo di Gesù non vuole aiuti se non dal Padre di Gesù stesso, l’unico Dio che ama e che dona capacità di amare.

Il Dio che noi preghiamo è lo stesso che ha ascoltato la preghiera di Mosè. Il popolo da lui guidato si è trovato nella necessità di affrontare un esercito nemico. È un momento di grande sofferenza e fatica, per evitare il pericolo di essere uccisi o fatti schiavi. Che cosa fa Mosè? Come affronta la situazione? Incarica il suo aiutante Giosuè di scegliere alcuni uomini per affrontare la fatica della battaglia contro il nemico. Ma allo stesso tempo egli stesso si impegna in un’altra battaglia, quella della preghiera. Egli, con altri due persone importanti per il popolo, salirà sul monte dove insisterà con Dio. Gli farà vedere le proprie mani, gliele tenderà alzandole, persevererà nell’invocazione. L’invocazione insistente di Mosè otterrà che la fatica di Giosuè porti frutto. La fatica senza la preghiera non giova a nulla, non riesce a portare benessere al popolo. La fatica dell’uomo dev’essere affrontata insieme a Dio: l’uomo deve essere consapevole che colui che dà la vittoria è il suo Dio, e che il proprio impegno, necessario, sarebbe nulla, se non fosse accompagnato dalla benevolenza divina.

Un altro aspetto è importante: Mosè non è da solo. Da solo non riuscirebbe a perseverare nella preghiera. Egli deve farsi aiutare da altri due. La preghiera deve essere partecipata, comunitaria. Davanti a Dio bisogna stare con umiltà, altrimenti egli non sa che farsene delle nostre parole o dei nostri desideri, se non vengono da un cuore umile. Mosè non potrà dire «la mia preghiera ha ottenuto», ma dovrà affermare «la nostra preghiera è stata gradita a Dio». Così anche Gesù ci insegnerà a usare sempre, a partire dal nostro pensiero, le parole noi, nostro, a noi.

È necessario “pregare sempre, senza stancarsi mai”: se dico che basta un Padre nostro, che basta un quarto d’ora, che basta…, non ho ascoltato Gesù, anzi, lo rendo bugiardo, e inganno mio fratello. Sempre il mio e il tuo e il nostro cuore dev’essere rivolto a lui e al Padre: sempre! Sempre devi essere immerso nella preghiera, cioè avere i desideri di Dio e offrirti a compiere i suoi disegni! Questo, naturalmente, se vuoi essere discepolo di Gesù!



30ª Domenica Anno C

1ª lettura Sir 35,12-14.16-18 * dal Salmo 33 * 2ª lettura 2Tm 4,6-8.16-18 * Vangelo Lc 18,9-14


“Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza”: San Paolo fa questa confessione al suo discepolo in un momento molto difficile. Si trova in carcere ed è già iniziato il processo contro di lui, ma i suoi amici e fratelli lo hanno abbandonato quasi tutti. Come può dire: “Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza”? Egli ha maturato questa certezza perché sua preoccupazione non è la vita o la morte, bensì la diffusione del vangelo. Per questo la sofferenza non lo abbatte e nemmeno gli impedisce di stare rivolto al Signore continuamente. Ogni attimo della sua vita è diventato testimonianza a Gesù e preghiera. Le sue sofferenze, sia fisiche che morali, danno peso al suo pregare, che Dio certamente ascolta e fa fruttificare. Ora egli, più che mai, somiglia a Gesù e partecipa alla sua passione. Per questo è certo di essere esaudito: “Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno”: il male da cui San Paolo è certo di venir liberato non è la morte, ma il male vero, la lontananza dal suo Signore! La preghiera e la vita dell’apostolo è la preghiera e la vita del martire: a lui interessa soltanto glorificare e testimoniare Gesù, unico salvatore dell’uomo.

La preghiera vera, come appunto quella di San Paolo, non è spontanea, ma va imparata: essa non è automaticamente presente nel cuore dell’uomo. Questi è sempre accompagnato dal proprio egoismo, che prende posto anche nella preghiera, nel rapporto con Dio. È davvero necessario imparare la preghiera «vera», quella cioè che incontra l’amore del Padre. Se non la impariamo, continuiamo, come i pagani, a pregare formulando una serie di parole incentrate su noi stessi, espressione di sentimenti rivelatori di desideri materiali ed egoistici. Se non impariamo a pregare ci illudiamo di esserne capaci, ma non incontriamo quel Dio che ci vorrebbe illuminare con la sua parola: nemmeno lui riuscirebbe a farlo, se noi siamo occupati dalle nostre miopi vedute.

Oggi Gesù continua ad insegnarci a pregare presentandoci una parabola semplice e immediatamente comprensibile. Ci racconta di due uomini. Tutt’e due salgono al tempio, il luogo dove Dio è adorato da tutti gli ebrei. I due uomini però si distinguono in partenza: per quanto riguarda la fede sono agli antipodi l’uno dall’altro. Uno infatti appartiene alla categoria di quelli che frequentano con assiduità il tempio e osservano tutte le regole religiose. L’altro non ha familiarità col luogo sacro, tanto che a mala pena entra nel suo recinto: infatti esercita un mestiere che lo rende immondo, perché lo obbliga ad essere sempre a contatto e a servizio dei nemici del popolo. Tutt’e due stanno in piedi e tutt’e due si rivolgono a Dio con la loro voce. Il primo usa parole di ringraziamento: ringrazia Dio, ma non per quanto Dio ha fatto o detto, ma per quello che lui stesso è e fa! Praticamente loda se stesso davanti a Dio, come per compiacersi o per far capire a Dio di essere creditore nei suoi confronti. Lodando se stesso trova anche il modo per denigrare gli altri, giudicarli, mettere in luce i loro peccati: verso di essi non manifesta alcun sentimento di misericordia, pensando che nemmeno Dio la eserciti. Lui stesso poi ritiene di non averne bisogno, anzi: si vanta di osservare nei minimi particolari quanto è prescritto! Il secondo si batte il petto: riconosce di essere stato disobbediente, non ha nulla di cui vantarsi, e a Dio non chiede null’altro che misericordia. “Abbi pietà di me peccatore”. Quest’uomo è peccatore e lo riconosce, gli dispiace e ne ha contrizione sincera. Egli non pensa minimamente a confrontarsi con gli altri, nella sua preghiera non porta propri meriti, che certamente ci sarebbero.

Questi due uomini rappresentano… anche me, tutt’e due mi rispecchiano. Dal primo devo imparare come non si deve pregare, l’altro mi mostra come Dio mi vorrebbe vedere. Dall’uno capisco che posso pensare d’aver pregato bene quando ho detto parole che mi hanno soddisfatto, e dall’altro capisco che davanti a Dio sono sempre un povero peccatore. Imparo così da Gesù che sto pregando davvero quando vedo la verità che Dio vede, la mia miseria. Pregare è presentare a Dio il desiderio di essere salvato dall’orgoglio, dalla vanità, dalla superbia, dalla mormorazione e dal criticare gli altri, pregare è presentare a Dio il desiderio di essere suoi, suoi figli, obbedienti e amanti. Pregare è rivolgersi a Dio coscienti del proprio peccato e della sua grande misericordia, fiduciosi di esserne avvolti nonostante tutto. Pregare è avere la stessa misericordia di Dio per ogni persona che vedo, o che nemmeno vedo. “La preghiera del povero attraversa le nubi”, ed è perseverante, ci dice il Siracide. Essa è quindi fiduciosa, anche se Dio non accontenta subito il mio desiderio. Lui è mio Padre, ed io mi affido a lui e in lui confido, come mi ha fatto vedere San Paolo. Confido in lui nella mia povertà di povero peccatore.



Tutti i Santi

1ª lettura Ap 7,2-4.9-14 * dal Salmo 23 * 2ª lettura 1Gv 3,1-3 * Vangelo Mt 5,1-12


“Tutti i Santi” è festa di famiglia per i battezzati! In questo giorno apriamo gli occhi su di una realtà sempre attuale, ma che non ricordiamo con facilità. Attorno a Gesù ci ritroviamo noi, che usiamo ancora gambe e ruote per riunirci, assieme a tutti coloro che stanno sempre attorno a lui nei cieli. Essi sono una moltitudine, una folla immensa, tutti in piedi “davanti al trono e davanti all’agnello, avvolti in vesti candide”, tutti impegnati a cantare di gioia per la salvezza ottenuta grazie alla passione di colui che hanno scelto e seguito come Signore. Noi non li vediamo e non udiamo il loro canto, e per questo crediamo di essere soli e di essere pochi a far risuonare la grande gioia che abbiamo dentro e che non riusciamo ad esprimere, e che spesso è smorzata dal peccato e dalla sofferenza, dal dubbio e dalle tentazioni. Oggi poniamo attenzione alla loro presenza, presenza davanti e attorno a Dio, e per questo anche attorno a noi. L’unico “santo”, veramente degno di questo titolo, è Gesù, che ha ascoltato e realizzato la volontà del Padre fino alla fine. Chi sta attorno a lui viene illuminato dalla sua luce e condizionato dal suo amore, e quindi a sua volta ritrasmette e luce di sapienza e amore di misericordia, tanto da meritare lo stesso titolo: santo! Santi sono quindi quelli che si sono lasciati cambiare e trasformare dalla frequentazione di Gesù, e in qualche misura, nonostante i limiti causati dal peccato, santi siamo noi che continuiamo a chiedere e ricevere e godere il suo perdono e la sua pace. Santi!

Siamo santi che sappiamo e diciamo l’amore di Dio. La notizia dell’amore di Dio ci ha raggiunti e abbagliati e noi la ritrasmettiamo, godendo così comunione con chi condivide la stessa fede e iniziando la festa vera, che è già iniziata nell’eternità. L’amore di Dio è così vero e concreto, che possiamo dirci suoi figli, dal momento che lo accogliamo nella sua concretezza: accogliamo infatti il Figlio divenuto carne, così noi siamo davvero figli, portatori della realtà dello stesso amore di Padre.

Gesù stesso ha visto la nostra trasformazione, quella che l’averlo accolto ha operato nella nostra vita.

Egli ha visto che chi lo ha accolto ha iniziato ad amare la povertà, cioè ha cominciato a non desiderare più quelle divinità che paralizzano il cuore dell’uomo, denaro e ricchezza. Gesù ha visto e ha detto che la gioia dipende dall’aver scelto, come Dio del cuore, lui, e non il brillare dell’oro.

Gesù ha visto che la croce portata con amore non è un male, ma fonte di consolazione e strada di comunione con tutti: beati sono gli afflitti, che seguono colui che porta la croce non come spettatore, ma come partecipe della sua sorte.

Gesù vede che diventano grandi quelli che si fanno piccoli e godono di passare inosservati, pur mettendosi sempre a disposizione di tutti. Sono i mansueti che godono di Dio in qualunque tratto di terra si trovino!

Gesù vede coloro che a tutti i costi vogliono essere al posto giusto, nel cuore di Dio! Questa “giustizia” essi cercano con grande amore, e il loro cuore traboccherà di pace e di letizia.

Gesù vede quelli che somigliano al Padre nell’essere misericordiosi: per essi nessuno è tanto peccatore da non meritare un briciolo di amore, un’attenzione delicata e continua, un sorriso più divino che umano. Gesù li vede già sistemati nel cuore di Dio!

Gesù poi gode di coloro che possono contemplare le bellezze eterne, e insieme agli angeli vedono il volto di Dio, tanto è puro il loro cuore: la luminosità dell’amore del Padre vi si può riflettere pienamente perché non ci sono macchie che ne offuscano lo splendore.

Gesù vede coloro che condividono ogni ricchezza divina con i fratelli, operando una pace sicura. Li può già chiamare con il suo nome, figli di Dio!

Gesù vede anche la croce sulle spalle di tutti quelli che lo seguono, perché saranno odiati e perseguitati: non vede solo la croce, ma anche la grande gioia che li anima e che attira molti altri al suo Regno.

Gesù vede e continua a dire: “Rallegratevi”, voi beati, beati, beati! Vedo anch’io beati quelli che mi circondano e tengono lo sguardo fisso su di lui: con loro sono beato anch’io e posso cantare già fin d’ora: alleluia!



31ª Domenica Anno C

1ª lettura Sap 11,22 - 12,2 * dal Salmo 144 * 2ª lettura 2Ts 1,11 - 2,2 * Vangelo Lc 19,1-10


Tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore”. Il libro della Sapienza ci aiuta con queste parole a comprendere come mai Dio non castiga di brutto i grandi peccatori, e anche perché anche a noi - che tendiamo a ritenerci innocenti - veniamo colpiti da qualche sofferenza. Aveva detto pure che di tutti Dio ha compassione fino al punto da “chiudere gli occhi sui peccati” perché il suo amore è tanto grande. Egli ama tutti, perché tutti sono sue creature, frutto della sua volontà d’amore. A lui deve sembrare impossibile che qualcuno cada nel peccato, nella disobbedienza: come si fa a disobbedire ad un Padre che ama così tanto? Egli non prova disgusto per nessuno, per questo spera in un recupero di tutti e a tutti ne offre la possibilità.

Queste parole introducono ad ascoltare l’episodio evangelico dell’incontro del Signore con Zaccheo. Questi dev’essere stato talmente inviso ai suoi concittadini, che hanno criticato e giudicato molto male Gesù perché è entrato in casa sua. Il Signore non bada alle opinioni degli abitanti di Gerico, ma bada ai desideri del Padre. Il Padre vuole certamente che tutti abbiano la possibilità di salvarsi, cioè di incontrare il Salvatore. Per questo Gesù non si vergogna di dire a quello strozzino nascosto tra le fronde di un grande albero: “Oggi devo fermarmi a casa tua”. E gli ordina, o lo invita, a scendere in fretta dalla pianta tra le cui fronde egli stesso aveva voluto nascondere la sua volontà di vederlo. Per il mondo Zaccheo è un uomo arrivato, ma per chi ha dei sani principi è un uomo sbagliato: si è arricchito alle spalle dei poveri, ha rubato, ha defraudato, ha fatto fortuna alleandosi ai nemici del popolo. È uno di quelli che i benpensanti ritengono sia perduto per sempre. Non pensa così Gesù. Egli sa che il cuore dell’uomo desidera alla fin fine essere puro e santo, anche se per vari motivi non ne è capace, o per qualche fraintendimento segreto non lo vuole. È un crudele destino che il nome Zaccheo abbia il significato di «puro»? Proprio lui porta questo nome con un significato così bello! Dove può essere la purezza di un uomo? Da dove gli viene? Oggi lo scopriamo. Quando un peccatore, impuro, incontra Gesù e si lascia amare da lui, ecco, allora quell’uomo diventa puro. La vera purezza non è mai in noi, è in Gesù. Questi non diventa immondo entrando in casa di Zaccheo, come pensano coloro che gli si stringono attorno, bensì porta purezza in quell’ambiente segnato dal peccato. Quell’uomo se ne accorge subito, perché entrano in lui quei pensieri e sentimenti che fino ad allora gli erano rimasti estranei: attenzione e amore ai poveri, gioia incontenibile, volontà di ristabilire la giustizia stracciata dalla sua avidità.

Nella casa di Zaccheo vediamo la concretezza delle parole del libro della Sapienza: Dio sa attendere il pentimento, egli che non ha disgusto di nessuna delle sue creature. Egli è indulgente e risolleva e riabilita coloro che accettano la sua correzione, gode della fede che nasce nel loro cuore.

A questo punto dovrebbe sorgere in noi il desiderio che Gesù entri anche in casa nostra, ma non tra i muri delle nostre abitazioni, bensì nel profondo del cuore, tra quei desideri e quelle volontà in mezzo alle quali il nostro spirito ha posto la sua residenza continua. La preghiera dell’apostolo San Paolo per i suoi cristiani tende proprio a questo. Egli chiede a Dio che li “renda degni della sua chiamata” per glorificare Gesù Cristo. Gesù sta per venire, si avvicina il suo giorno. I cristiani lo credevano fermamente, ma ancora in modo sbagliato. La sua venuta non va immaginata diversa da quella già sperimentata. Gesù non viene per farsi accogliere diversamente da come è stato accolto a Gerusalemme. Tu lo accogli se fai come Zaccheo, se gli permetti di cambiare i tuoi desideri, se sposti le tue volontà per fargli posto, in modo che lui si trovi a suo agio nella tua vita e non se ne debba vergognare.

Che bello! Non ci dobbiamo vergognare nemmeno dei nostri peccati più vistosi e più vergognosi. Quando entra Gesù nella nostra vita saremo noi per primi a dire con meraviglia: “È entrato in casa di un peccatore!”. Con meraviglia scopriremo che egli ha portato in casa nostra l’amore, quell’amore che cambia tutti i rapporti con gli altri, a cominciare dai poveri, e non importerà più nulla quello che potranno pensare i ricchi. Se vorranno, prenderanno l’esempio. Gesù infatti è l’unico Salvatore, l’unico che ci può buttare nelle braccia del Padre!



32ª Domenica Anno C

Giornata di Ringraziamento

1ª lettura 2Mac 7,1-2.9-14 * dal Salmo 16 * 2ª lettura 2Ts 2,16 - 3,5 * Vangelo Lc 20,27-38


La fede infatti non è di tutti”. Ci fa riflettere questa frase dell’apostolo, e ci rende consapevoli che è sempre necessario usare il dono del discernimento. Non tutti infatti parlano tenendo conto dell’amore di Dio e della sua presenza e della sua volontà. Non tutti ci aiutano nel nostro cammino di cristiani, non sempre coloro che ci consigliano ci sostengono ad essere e a comportarci da figli del Padre e da discepoli di Gesù. Anche tra i cristiani ci sono alcuni che fanno proposte o danno consigli o prendono decisioni frettolose, senza aver prima ascoltato il Signore e senza cercare di essere uniti nella Chiesa. San Paolo per questo ci mette in guardia e ci invita alla preghiera. Il Signore ascolta chi con umiltà chiede di essere un buon portatore della sua Parola con fedeltà e discernimento.

Gesù stesso ci dà l’esempio: è molto attento a coloro che parlano con lui. Infatti, al di là delle apparenze, anche personaggi illustri possono aprir bocca per mettere in difficoltà i credenti riguardo alla loro fede e per screditarli. I sadducei, appartenenti al partito cui presiedevano i sommi sacerdoti del tempio, gli si presentano con una questione inventata apposta per mettere in ridicolo un aspetto della fede del popolo e anche di Gesù: la risurrezione e la vita eterna. E raccontano il caso di una donna che ha sposato sette uomini uno dopo l’altro, deceduti tutti senza lasciar figli. Quella donna, nella risurrezione, avrà sette mariti? Se qui sulla terra la bigamia è proibita, tanto più in cielo! Gesù capisce che alla base della domanda c’è un grave fraintendimento, anzi due. I suoi interlocutori lasciano intendere che pensano che tutto finisca qui, che non ci sia vita eterna. E, caso mai ci fosse, sarebbe uguale alla vita che viviamo qui sulla terra. Gesù quindi, lasciando da parte la domanda, risponde alle sue premesse e ne chiarisce i due aspetti basilari.

La vita continua dopo la morte, si o no? Risponde l’autorità della Parola di Dio: Dio stesso si è fatto conoscere al suo servo Mosè come il “Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Quando gli furono rivolte queste parole, i tre patriarchi erano morti da secoli: non vivono più? È mai possibile che Dio, il vivente, si faccia conoscere col nome di persone ormai non più esistenti? La fede dei patriarchi è stata un’illusione? Allora nemmeno Dio esisterebbe, nemmeno lui potrebbe più parlare nè ascoltare la nostra preghiera. Diventerebbe inutile il tempio e sarebbero inutili tutti i sacrifici che in esso vengono immolati! Ma se Dio ha usato quei nomi per farsi conoscere e riconoscere significa che quelle persone sono tuttora presenti a lui, e quindi vivono per lui. Se per lui vivono, forse che per noi possono essere inesistenti?

Il secondo fraintendimento riguarda la forma di esistenza: nel cosiddetto “al di là” si continua la vita che conosciamo? La domanda dei sadducei lascia intendere che questo pensano. Gesù li corregge: nel mondo futuro e nella risurrezione la nostra vita sarà diversa da quella che stiamo vivendo. Qui abbiamo bisogno di affetti, di approvazioni, di relazioni con gli altri, e dobbiamo pensare a mettere al mondo figli perché la vita continui. Qui perciò ci si sposa e si forma famiglia. Nella risurrezione godremo un altro tipo di vita, dove non ci saranno più i bisogni di questa, anzi, godremo la pienezza dell’amore divino. Potremo dire che saremo come gli angeli, i quali non hanno paura della morte. Allora non avremo più tentazioni, non cadremo più nel peccato e quindi nessun tipo di turbamento ci distoglierà dal vivere la pienezza della gioia e nessuna paura ci impedirà di compiere la volontà buona del Padre.

La risurrezione dai morti è la speranza dei credenti, allo stesso tempo gioia attesa e sostegno nell’ora presente. Essa è vista come traguardo dopo le tribolazioni di questa vita e come sostegno nelle tentazioni della persecuzione. Questo è testimoniato dall’episodio dei sette fratelli, torturati con la loro madre al tempo del re Antioco IV e narrato nel secondo libro dei Maccabei. Essi danno esempio di fortezza e di decisione nell’osservare i comandamenti di Dio: e sì che non avevano ancora notizia della risurrezione del Signore né avevano ricevuto da lui lo Spirito Santo. Noi abbiamo questa grazia, e perciò continuiamo con perseveranza nel credere e nello sperare. Non ci lasceremo scoraggiare dalle difficoltà che di certo incontriamo quando siamo decisi a vivere in comunione con la Chiesa di Dio e nell’amicizia del Signore Gesù. Diremo con fiducia e serenità le parole del salmo proclamato: “Tieni saldi i miei passi sulle tue vie e i miei piedi non vacilleranno”. … “Io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine”.



33ª Domenica Anno C

1ª lettura Ml 3,19-20 * dal Salmo 97 * 2ª lettura 2Ts 3,7-12 * Vangelo Lc 21,5-19


Una cosa che gli idoli non fanno mai, è rimproverare i loro devoti! Perché? Gli idoli non amano nessuno, sono inesistenti, o meglio, sono la personificazione dell’egoismo. Dio invece, siccome ama gli uomini come figli, è capace di rimproverare. Lo fa anche frequentemente, se occorre.

Oggi abbiamo sentito l’avvertimento del profeta Malachia, alcuni di Gesù, e uno anche di San Paolo. Questi non capisce come mai qualche cristiano possa vivere ozioso, senza lavorare, e in maniera disordinata “senza fare nulla e sempre in agitazione”. A questi egli ordina di guadagnarsi il pane col proprio lavoro, e non si limita a usare le parole, dà egli stesso l’esempio. Nonostante si sentisse in diritto di essere aiutato da coloro che ricevevano la sua predicazione, egli non ha smesso di impegnarsi con fatica come tessitore di tende, in modo da essere d’esempio a tutti nel mantenersi col proprio lavoro.

Anche Malachia si fa tramite di un rimprovero di Dio: la superbia e ogni disobbedienza sono nostra rovina: Dio non le potrà accogliere. La venuta di Gesù deve trovarci umili e obbedienti, cioè pronti ad accoglierlo. Solo chi vive nel timor di Dio è pronto per il suo regno.

Gesù non rimprovera, ma con veemenza e verità aiuta i discepoli ad un discernimento spirituale. Essi sono attratti dalla bellezza delle opere d’arte. L’architettura del tempio e i suoi ornamenti attirano l’attenzione, distogliendola spesso dal fissare il proprio cuore in quello di Dio. Ed allora ecco uscire dalla bocca del Signore quella profezia che si è avverata per migliaia di edifici sacri lungo la storia e in molti luoghi dove il cristianesimo è stato fiorente, ma non pienamente dedito alla santità: “Di quello che vedete non resterà pietra su pietra che non sarà distrutta”! Il tempio infatti quarant’anni dopo è stato raso al suolo. Ma anche quante basiliche cristiane sono scomparse e hanno lasciato solo il ricordo di sè con qualche pietra o qualche rudere! Anche questa nostra bella chiesa, è bella sì, la teniamo bene, ma per amore del Signore Gesù, in vista di una preghiera attenta e capace di renderci obbedienti a lui. Se qualche manutenzione ci facesse litigare, o se per qualche riparazione dovessimo arrivare a insuperbirci o disprezzarci gli uni gli altri, sarebbe meglio che crollasse qualche muro. Lo stesso ragionamento dovrebbe valere per tutto ciò per cui ci impegniamo: il canto, la preghiera, gli orari, gli impegni della comunità. Se non ci servono per ricevere e per donare lo Spirito Santo, sarebbero inutili, a Dio non piacerebbero e noi resteremmo nella condanna meritata dai peccatori.

Gesù prevede e predice ai suoi le persecuzioni cui essi stessi andranno incontro a causa sua. Arriveranno tempi duri per i cristiani, bisogna essere pronti. La prontezza prevede che non abbiamo paura, che siamo liberi da tutto, non solo dalla bellezza degli edifici e delle opere d’arte in essi ammirate, ma persino dalla propria vita, cioè dal proprio lavoro, dalla propria casa, dai propri progetti. Senza paura, assolutamente, perché la nostra fede non prevede la paura: questa è frutto di incredulità, conseguenza del dimenticare che Dio è Padre e che Gesù è il buon pastore che ci conduce anche nella valle oscura.

La nostra vita sarà serena e umile, perché avremo fiducia nello Spirito di Dio, che è capace di metterci in bocca le parole necessarie, persino quelle che adopereremo in tribunale. Molti cristiani in varie nazioni hanno vissuto quest’esperienza come l’ha detta Gesù, proprio alla lettera. Basti ricordare quanto è successo nel secolo scorso in seguito all’imporsi di varie ideologie in Spagna, in Messico, in Russia e paesi limitrofi, ma anche in Italia e in Albania, o quanto sta succedendo in Cina e in vari altri paesi del nostro mondo. Ora poi, dal momento che si sta diffondendo una nuova ideologia, che si impone nelle nazioni occidentali, ci troveremo al centro dell’odio e della calunnia. “Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto” ci rassicura il Signore. Soltanto ci esorta ad essere perseveranti, a resistere cioè nella fede nonostante i tempi siano bui. “Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime”: con queste parole Gesù termina il suo ammonimento. A lui preme ciò che dovrebbe premere a noi, la salvezza dell’anima! Nostro tesoro da salvare non sono le nostre proprietà e nemmeno la nostra vita, ma soltanto l’anima. Per avere questo desiderio forte e stabile è necessario un radicamento continuo nel Signore, una preghiera assidua, lo sguardo rivolto sempre alle cose di lassù. Deve essere limpido e immediato il nostro discernimento, per non cedere agli idoli che ci attirano e seducono da dentro e da fuori. Se teniamo presente che essi ci ingannano e ci deludono, non avremo remore a restare sempre aggrappati a colui che ci attende dopo aver dato la propria vita per noi!



34ª Domenica - Anno C

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo

1ª lettura 2Sam 5,1-3 * dal Salmo 121 * 2ª lettura Col 1,12-20 * Vangelo Lc 23,35-43


L’ultima domenica del ciclo liturgico ci fa riassumere la lode di tutto l’anno al nostro Signore Gesù Cristo. Lo facciamo attribuendo a lui uno dei titoli più ambiti che conosciamo. Ma non ci accontentiamo di dargli un titolo, vogliamo che a questo corrisponda il tenore della nostra vita. Diciamo che Gesù è re, ma non lo diciamo solamente con le parole, piuttosto con le azioni. Facciamo quanto egli dice, gli chiediamo quali sono i suoi desideri, stiamo attenti ai cenni con cui ci manifesta la sua volontà, collaboriamo a continuare i suoi gesti di amore. Ascoltiamo con sorpresa gli insulti che il ladrone gli rivolge dalla croce accanto, ma ci uniamo alla richiesta del suo compagno. Godiamo che Gesù sia re: non gli chiediamo di allungare la nostra vita qui, in mezzo alle tentazioni e ingiustizie e sofferenze causate dal peccato, bensì gli chiediamo di accoglierci in quella pienezza di vita che ancora non conosciamo, ma che sappiamo presente là dove egli è atteso. Tutti quelli che lo deridono, usano il titolo di re per schernirlo, con disprezzo. Se fosse un titolo attribuitogli dagli uomini sarebbe davvero disprezzabile, un appellativo infatti non amato, perché troppo spesso i re non si fanno amare da coloro che faticano e soffrono per servirli. A Gesù però il titolo viene dato da Dio: per questo è un termine che esprime pienezza di bontà, di fedeltà, di sensibilità, di carità.

La prima lettura ci narra la dichiarazione di ubbidienza delle tribù d’Israele a Davide e la sua unzione a re. Le tribù gli promettono obbedienza perché a lui è stata rivolta una parola da Dio, tramite il profeta Samuele: “Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele”. Promettono ubbidienza a Davide per ubbidire a Dio. Davide a sua volta deve ricordare che il popolo non è e non sarà sua proprietà, ma sempre e solo di Dio: il suo compito regale quindi non sarà quello di dominare, ma di portare la responsabilità del pastore, che deve ogni sera riconsegnare le pecore ai loro padroni. Perché ci viene proposta questa lettura? È facile rispondere: la regalità di Davide è profezia della regalità di colui che sarà chiamato suo figlio, re del suo regno. Gesù infatti è il pastore del popolo di Dio. Egli consegna gli uomini al Padre, regna su di loro con giustizia, anzi, con amore perfetto per ognuno di loro. E per questo offre se stesso, la propria fatica, la propria vita.

Il vangelo ci fa ammirare l’amore di Gesù per quella “pecora” che è quel ladrone che non si vergogna di chiamarlo per nome sulla croce. Anche per lui Gesù muore, e a lui può quindi promettere la gloria di Dio. Tutti gli altri lo bestemmiano e lo deridono dicendogli ironicamente: “Salva te stesso”. Ma egli sa di non essere venuto per salvare se stesso, bensì per salvare proprio noi, i peccatori. Salvarci non significa evitarci di morire, bensì tramite la morte portarci nelle braccia del Padre, per farci vedere e gustare il suo amore, e per aiutarci ad accoglierlo e realizzarlo. Perciò con sicurezza così risponde: “Oggi con me sarai nel paradiso”.

San Paolo, scrivendo ai Colossesi, coscienti di quant’è avvenuto con la propria conversione, ricorda loro che prima erano sotto il “potere delle tenebre”, ma che Dio li ha liberati e fatti entrare “nel regno del Figlio del suo amore” perché godano del perdono dei peccati. E continua a parlarci di questo Figlio, “immagine del Dio invisibile” cui tutte le creature sono debitrici della loro esistenza. Ed egli è anche “il capo del corpo, della Chiesa”. È lui “il principio” che ha “il primato su tutte le cose”. Non possiamo pensare nulla senza di lui, nulla di bello e nulla di buono. Se ritenessimo di progettare o pensare qualcosa senza di lui, dimostreremmo soltanto stoltezza. Dicendo oggi che Gesù è re, e il re dell’Universo, affermiamo il fondamento vero della nostra vita, del nostro esistere e del nostro amare. Egli dev’essere all’inizio di ogni nostra azione, dentro ogni nostro desiderio, e alla fine di ogni nostro pensiero. Da lui ci lasciamo ispirare, da lui guidare, per arrivare a dar gloria a lui e giungere a godere la sua presenza, che è beatitudine perfetta. Chi non vive in questo modo è vuoto, e cammina a tentoni come nelle tenebre, non sa il perché del suo faticare e del suo godere: una vita senza sugo!

Grazie Gesù, che ci sei, grazie che ti posso chiamare “mio re” e che sei il re di tutti: alla fine tutti risponderanno a te. Abbi misericordia di me, continua a chiamarmi ad obbedire a te, per essere benedetto e divenire io stesso benedizione per tutti gli altri.


Eventualmente per la solennità di S. Giovanni Battista vedi Anno B 02, Testimone fedele

- per la solennità dei Santi Pietro e Paolo vedi anno A 02, Saranno riunite…