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La Preghiera sacerdotale

Preghiera sacerdotale di Gesù

Gv 17

 

01 Introduzione

Il Papa Benedetto XVI° ha dedicato un anno alla riflessione sul ministero sacerdotale nella Chiesa e alla preghiera per i sacerdoti. È stato doveroso e bello inserirsi in questo cammino ecclesiale: lo continuiamo soffermandoci a comprendere e pregare le parole che Gesù ha rivolto al Padre, secondo la testimonianza che l’evangelista Giovanni ci ha trasmesso nel suo vangelo. Quella preghiera è chiamata “preghiera sacerdotale di Gesù”: in essa infatti il Signore offre se stesso come sacrificio al Padre. In essa Gesù agisce e si manifesta come “sacerdote”, inteso nel senso che egli compie l’atto tipico del sacerdote, cioè offrire a Dio ciò che Dio gradisce per perdonare i peccati degli uomini. Questa preghiera, che occupa tutto il capitolo 17 del Vangelo, è riportata dall’evangelista; egli certamente non l’ha registrata come faremmo oggi con i mezzi di cui disponiamo, ma avendo conoscenza profonda e spirituale del suo Maestro, l’ha scritta tenendo conto del suo Spirito e rifacendosi ai suoi insegnamenti.

Per noi è doveroso soffermarci ad ascoltare il nostro Signore e Maestro proprio quando prega il Padre suo. Questo non solo è doveroso, ma soprattutto bello e consolante. Ascoltare la preghiera che Gesù rivolge al Padre al culmine della sua missione, a poche ore dal suo sacrificio, è il modo più forte e sicuro per conoscere il suo cuore, per entrare nel mistero di quel rapporto vivo e vivificante che è l’amore divino che corre e opera tra Padre e Figlio. Potremo imparare così qual è il modo di rapportarci a Dio e quali devono essere i contenuti dei nostri desideri più profondi, quelli che Dio stesso gradisce vedere nel nostro cuore. Vedremo che cosa preme a Gesù per noi e per il mondo, quel mondo che Dio ha tanto amato da mandare il Figlio suo a vivere in mezzo agli uomini peccatori.

Non so se la lettura di questa preghiera diventerà una catechesi oppure un’introduzione ad amare Gesù con tutto il nostro cuore e tutto il nostro essere. In ogni caso sarà un aiuto a crescere nella fede e ad approfondire la nostra comunione con tutta la Chiesa.

Dal vangelo secondo Giovanni 17

1 Così parlò Gesù. Poi, alzati gli occhi al cielo, disse: «Padre, è venuta l'oraglorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te. 2 Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. 3 Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. 4 Io ti ho glorificato sulla la terra, compiendo l'opera che mi hai dato da fare. 5 E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse.

6 Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me ed essi hanno osservato la tua parola. 7 Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, 8 perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro; essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato. 9 Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato, perché sono tuoi. 10 Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11 Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi.

12 Quand'ero con loro, io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi; nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura. 13 Ma ora io vengo a te e dico queste cose mentre sono ancora nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia. 14 Io ho dato a loro la tua parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.

15 Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. 16 Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17 Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18 Come tu mi hai mandato nel mondo, anch'io li ho mandati nel mondo; 19 per loro io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità.

20 Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me perché tutti siano una sola cosa; 21 . Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato

22 E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. 23 Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me.

24 Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo. 25 Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato. 26 E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro ».

***

02

La preghiera di Gesù è introdotta così: « Poi, alzati gli occhi al cielo ». Siamo ancora nel cenacolo o siamo già nell’orto degli ulivi? L’evangelista ora non lo dice, ma per noi non è neppure molto importante. Sappiamo che Gesù non aveva bisogno di un luogo speciale per rivolgersi al Padre, perché è lui stesso il tempio, come dice lo stesso evangelista nell’altro suo libro, l’Apocalisse: “Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l'Onnipotente, e l'Agnello sono il suo tempio” (21,22). Egli alza gli occhi al cielo: un gesto semplice, che nasce da un’immediatezza quasi infantile. Pur essendo Dio invisibile e pur trovandosi ovunque, noi tutti lo collochiamo - nel nostro inconscio - in alto, là dove non può essere raggiunto da null’altro che dal nostro desiderio. Nemmeno il nostro sguardo può raggiungere Dio, ma noi alziamo gli occhi spontaneamente nella direzione da cui viene la luce, nella direzione su cui non ci sono ostacoli che possano distrarre l’attenzione, la direzione che ci allontana dalle cose che solitamente occupano il nostro cuore e i nostri istinti. Gesù compie questo gesto anche prima della moltiplicazione dei pani davanti a cinquemila uomini e prima di chiamare Lazzaro dalla tomba! Gli occhi di Gesù sono aperti verso l’alto: che cosa vede? Come noi, anche lui non vede nulla, eppure i suoi occhi aperti sono importanti: riconosce che Dio, il Padre, è un altro, e va cercato e incontrato. Anche se lui non lo vede, egli può almeno essere visto e ricevere l’amore che lo sguardo di Dio può comunicare. Gli occhi di Gesù aperti verso l’alto sono importanti per chi gli sta vicino, nel nostro caso per i discepoli. Questi ricevono dallo sguardo di Gesù un orientamento preciso, un aiuto a porre la propria fiducia solo in Dio, come essi stessi sono abituati a pregare: “Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l'aiuto?” (Salmo 121,1) e “Ecco, come gli occhi dei servi alla mano dei loro padroni; come gli occhi della schiava, alla mano della sua padrona, così i nostri occhi sono rivolti al Signore nostro Dio” (Salmo 123,2). Gli occhi aperti verso l’alto rendono Gesù testimone dell’invisibile, testimone della presenza di Dio, della sua pienezza, e testimone che null’altro è importante. Imiteremo anche noi Gesù: gli occhi aperti verso l’alto ci aiutano ad uscire dai nostri pensieri incentrati su noi stessi, sulle nostre cose e sui nostri piccoli interessi materiali, per avvicinarci alla fonte dell’amore e della vita eterna!                                  torna su

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“ Disse: «Padre, è venuta l'ora »”. Gesù, con gli occhi alzati apre la bocca e inizia ad alta voce la sua preghiera. Egli non ha timore nè pudore di essere udito, anzi, vuole che i suoi lo odano, così che anch’essi possano unirsi al suo stesso desiderio e alla comunione che egli vive in questo momento con il Padre. Chissà che condividendo la preghiera non cambi il loro cuore, non maturi in esso un amore più profondo e più vero, non si rassodi in loro una fedeltà più stabile! “Padre”: Gesù chiama Dio con questa parola familiare, come aveva già insegnato ai discepoli. Pregando, Gesù sa di non essere di fronte solo all’onnipotenza di Dio, ma soprattutto al suo amore, quell’amore che dà la vita e la fa crescere verso la pienezza. Gesù inizia quindi la preghiera col mettersi a tu per tu come un figlio davanti al proprio genitore, da cui si sa amato e atteso. Il momento in cui egli sta pregando è particolarmente intenso. Egli ha appena istruito i suoi apostoli riguardo all’azione dello Spirito Santo nella loro vita, ha dato loro il comandamento nuovo dell’amore reciproco, ha lavato loro i piedi e ha consegnato alle loro mani, nei segni del pane e del vino, il memoriale dell’offerta del suo corpo e del suo sangue. Gli apostoli sono solo Undici, perché Giuda si è allontanato nella notte e nella tenebra della sua avidità. Questo momento è carico di attesa, quella che Gesù aveva già anticipato dicendo: “C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!” (Lc 12,50). “È venuta l’ora”: il Padre conosce quest’ora, attesa da sempre. È l’ora che anche la Madre attendeva, e che pensava fosse giunta quando il Figlio è arrivato alle nozze di Cana con i suoi primi discepoli. Allora egli le aveva dovuto dire: “Non è ancora giunta la mia ora” (Gv 2,4). È l’ora che segna il traguardo della sua vita, di tutta la sua fatica, di tutto il suo insegnamento ai discepoli: la salvezza degli uomini! Gesù sa di essere al mondo per uno scopo preciso, voluto dal Padre, scopo che ora si sta realizzando. Noi impariamo, da questa sua espressione, che anche alla nostra vita Dio ha assegnato un traguardo, uno scopo, e non potremo essere contenti finché non lo avremo raggiunto. Saremo attenti a scoprirlo lasciandoci illuminare dalla sua sapienza, dalla sua parola e dalle necessità della sua Chiesa.

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“Glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te”. L’ora attesa, e che adesso è giunta, è l’ora della gloria. Usiamo spesso questa parola nel linguaggio liturgico e nella nostra preghiera. Sappiamo cosa significa? Negli scritti del Nuovo Testamento viene espressa con questo termine la manifestazione di Dio. Gloria di Dio è tutto quanto manifesta la presenza di Dio nel mondo. Gloria di Gesù è quanto manifesta la sua divinità, la sua unione con il Padre! Ora Gesù chiede al Padre di dar gloria a lui, al Figlio. Desiderio di Gesù è che la propria vita e la propria persona possano essere manifestazione dell’essere di Dio, cioè del suo amore. Noi leggiamo nella domanda di Gesù la richiesta di vivere la perfezione dell’amore divino, in modo che noi lo possiamo vedere e conoscere, e quindi affidarci del tutto al Padre! Se il Figlio riceve gloria dal Padre, ne consegue che il Figlio fa conoscere la bellezza e grandezza della misericordia di Dio. Il Padre che glorifica il Figlio concede al Figlio di diventare manifestazione del Padre. Chiedendo di essere glorificato perciò Gesù non chiede nulla di egoistico: essere glorificato significa venir reso strumento della manifestazione di Dio: Dio potrà essere visto dagli uomini tramite lui. E, dato che l’essere di Dio è pienezza d’amore, Gesù chiede di esser messo in condizione da manifestare la profondità dell’amore, che diventa maggiormente visibile dagli uomini quando esso maggiormente costa: ecco perché la gloria di Gesù è la sua croce. Accogliendo la croce Gesù si mette nel posto che rende evidente un amore infinito, un amore che è soltanto amore, un amore in cui non c’è nulla di egoistico. Non solo i dolori fisici di Gesù sulla croce, ma soprattutto l’umiliazione di essere fatto oggetto di una infinita ingratitudine, sono la condizione che mette in evidenza la profondità del suo amore. Gesù chiede al Padre di esser messo nella condizione di manifestare quell’amore che gli uomini non hanno ancora mai visto, l’amore divino, che arriva a donare se stesso sapendo di non poter attendere nessuna ricompensa. Gesù quindi chiede la croce. Mancano poche ore al momento in cui egli sarà catturato dai giudei, - egli l’ha intuito già quando Giuda si è allontanato dalla Cena, - e perciò con queste prime parole della sua preghiera si offre al Padre per il cammino previsto.                                  torna su

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“Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato”. Dopo aver chiesto la gloria, - ed egli sa che questa è la croce, - Gesù continua a contemplare il Padre e gode di quanto ha già ricevuto da lui. Che cosa gli ha dato il Padre? “Tu gli hai dato potere su ogni essere umano”: di che potere si tratta? È certamente il potere di Dio, che è un potere che non conosce violenza o costrizione. Il potere di Dio è la capacità infinita che egli ha di amare e di riempire di amore ogni realtà. Gesù quindi ha ricevuto la capacità di riversare su ogni essere umano l’amore. Su ogni essere umano: noi sappiamo che ogni essere umano è fragile, incapace, succube a tanti vizi, sottomesso persino ad diavolo, il nemico di Dio. A questi uomini Gesù riesce a donare l’amore. La storia è percorsa da infinite storie di questo tipo: grandi peccatori che cambiano vita, persone capaci solo di odiare diventano capaci di amare, uomini egoisti e avari diventano generosi. Già nella vita di Gesù sono raccontati episodi di questo tipo: vedi per esempio la vicenda di Zaccheo a Gerico (Lc 19,1ss) e poi quella di San Paolo (Atti 9). Il potere, che Gesù riceve su ogni essere umano, egli lo adopera infatti per donare la vita eterna a quanti il Padre gli affida. Ecco come egli stesso interpreta la capacità ricevuta dal Padre: donare la vita eterna! Udendo questa espressione noi pensiamo automaticamente ad una vita che non ha fine, una vita che dura sempre. Vita eterna però significa di più: è la vita di Dio che ha sì la caratteristica dell’eternità, ma anche di potenzialità d’amore infinite, e di conseguenza di pienezza di significato e pienezza di gioia. Coloro che si avvicinano a Gesù sanno cosa ciò significhi. Chi ha messo Gesù al centro del proprio cuore sta già sperimentando la vita eterna, anche se accompagnata dalla croce, che su questa terra non è possibile eliminare del tutto. Spesso è proprio la presenza della croce che ci rende coscienti che in noi brilla una vita che supera quella di questo mondo, una vita che appartiene ad un mondo superiore, che rende preziosi anche i momenti di sofferenza e di fatica.                                  torna su

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Iniziando la preghiera, Gesù ha riconosciuto anzitutto quanto il Padre ha fatto per lui, quale significato ha dato alla sua vita, quale missione gli ha consegnato: dare la vita eterna a quelle persone che Dio stesso gli ha affidato. Vediamo che Gesù, prima di chiedere qualcosa, riconosce di essere già oggetto di amore da parte del Padre, e lo loda. Egli ha ricevuto la possibilità di dare la vita eterna agli uomini: dono e missione, dono di una capacità divina e missione di trasmettere la vita eterna a coloro che gli sono stati dati. Chi è stato dato a Gesù? E per quale motivo? Egli ha usato altre volte questa espressione: pare che con essa voglia indicare i suoi discepoli. È ad essi che egli deve “dare” la “vita eterna”. Abbiamo già detto qualcosa riguardo alla vita eterna, ma Gesù stesso specifica ora il contenuto di tale parola: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo”. Vita piena e perfetta, vita divina, vita capace di un amore perfetto e di una gioia perfetta è “conoscere” il Padre e conoscere il suo Messia. È necessario comprendere bene cosa si intenda dicendo conoscere. Noi conosciamo tante cose e pensiamo di conoscere tante persone. Conoscere una cosa è facile: basta sapere di cos’è fatta, quali sono le sue proprietà, il peso, il colore, la durezza o morbidezza, la durata, le dimensioni, come si comporta se la si lascia cadere o - se è commestibile - se la si mangia o beve. Per conoscere una cosa impegniamo la nostra osservazione, la memoria e l’intelligenza. Per conoscere una persona invece questo non basta. Per conoscere una persona bisogna sapere quali situazioni quella persona ha vissuto, per quali sofferenze è passata, quali esperienze sta vivendo. Se non abbiamo passato le stesse situazioni e fatto le medesime esperienze non possiamo dire di conoscere una persona, o possiamo dirlo solo in modo molto limitato. Noi conosciamo il commesso del negozio dove andiamo a fare la spesa: sua moglie pure lo conosce, ma in modo molto diverso. Noi conosciamo il bambino che ci saluta la mattina, ma la sua maestra lo conosce molto di più, e sua mamma può dire che sia io che la sua maestra non lo conosciamo affatto. Conoscere Gesù significa aver portato con lui la croce, aver amato e perdonato con lui e come lui, aver pregato come ha pregato lui, aver amato il Padre con l’intensità con cui lui gli ha obbedito. E che cosa pensare del conoscere Dio, l’unico vero Dio?                                  torna su

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“Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo”. Conoscere “l’unico vero Dio” non è possibile. Noi siamo uomini, e come tali siamo già alterati dalle nostre ribellioni e suggestioni, ben lontani dal vivere l’esperienza di Dio. Egli stesso deve donarcene la grazia. Questo, infatti, è il compito che il Padre ha dato a Gesù: egli deve dare la vita eterna, e ce la dona facendoci conoscere appunto “l’unico vero Dio” e se stesso come Figlio di Dio. Dio, chiamato Padre da Gesù è “l’unico vero Dio”. Oggi, per chissà quale concezione di ecumenismo o di voglia di piacere a tutti, cediamo facilmente il passo a chi dice che c’è un solo Dio, e quindi concludiamo che tutte le religioni sono buone e tutte di ugual valore. A parte l’ignoranza che tale affermazione nasconde e manifesta, ignoranza delle religioni appunto e della sofferenza di chi le vive, è proprio il contrario di quanto afferma Gesù. Egli ha vissuto l’amore fino alla morte per farci conoscere non un Dio qualunque, che gli uomini già conoscevano attraverso le loro varie religioni, ma “l’unico vero Dio”. Questo Dio nessuno lo aveva mai visto, nessuno lo immaginava nè lo conosceva. Era necessaria la vita e la morte di Gesù per farcelo conoscere e incontrare, per farci gustare il suo amore, per darci il coraggio di avvicinarlo con confidenza. E’ vero che esiste un solo Dio, ma quest’unico Dio è il Padre di Gesù Cristo! L’unico Dio che esiste è quello che ci ama, che ci può perdonare, che ci ha mandato il Figlio per salvarci, quel Dio che ci parla e ci istruisce. L’unico Dio è quello che si attende da noi ascolto e ubbidienza. Egli ci ama, e ci chiede di incontrarlo sulla strada dell’amore. Per amarci ha mandato Gesù Cristo: attraverso di lui lo possiamo conoscere, attraverso di lui lo possiamo ascoltare, da lui impariamo ad obbedirgli. Da Gesù impariamo pure che obbedire a Dio non è per noi segno di schiavitù e nemmeno di umiliante sottomissione, bensì dono, grazia, occasione di esprimere più che mai le nostre possibilità. Chi ubbidisce a Dio, infatti, prova le gioie più grandi. In questa preghiera Gesù stesso definisce se stesso “colui che hai mandato”: egli si sente inviato dal Padre e obbediente a lui. Si presenta con questa qualifica: quella che egli stesso ritiene la più bella e la più importante. Essa infatti manifesta la sua unione con il Padre e nello stesso tempo rivela che la sua autorità è divina.                                  torna su

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Abbiamo visto che Gesù definisce vita eterna il conoscere l’unico vero Dio e colui che egli ha inviato. Donare vita eterna è perciò ancora il compito della Chiesa, e in essa la missione degli apostoli: noi la riteniamo quindi anche la missione dei sacerdoti, che degli apostoli sono i primi collaboratori. In che modo può un uomo far conoscere Dio? Il primo modo è certamente il racconto delle sue grandi opere, anzitutto quelle narrate dalle sacre Scritture: la creazione e il continuo intervento di Dio a favore degli uomini, la storia della salvezza da Abramo a Gesù, e soprattutto la vita e la morte e risurrezione del Signore. Per conoscere Dio dobbiamo sapere che cosa egli ha fatto e che cosa continua a operare per noi. Questa conoscenza però rischia di rimanere un sapere, una serie di conoscenze a livello intellettuale, che non cambiano la vita. Chi sa molte cose su Dio e di Dio, non può ancora dire di conoscerlo. Lo conosce chi lo incontra e condivide con lui i suoi modi di agire. Compito dell’apostolo e del sacerdote è aiutare l’uomo ad incontrare Dio, a fare esperienza della sua presenza, del suo amore. Per questo egli ha alcuni strumenti, che non sono suoi, ma consegnati da Gesù stesso: i santi sacramenti, segni che donano la vita divina, il suo amore, la sua forza. Quando il sacerdote benedice nel nome del Signore, Dio stesso conforta, rafforza, salva. Così la parola del sacerdote, espressione della sua fede, fa incontrare l’uomo con la presenza di Dio, il Dio dell’amore e della misericordia. Con la propria vita vissuta in unione con Dio il prete lo dà a conoscere. Non è solo il sacerdote che ha questo compito e che lo svolge: questo è il lavoro di tutta la Chiesa, di tutti i fedeli, di chiunque abbia già incontrato il Dio dell’amore e della pace.                                  torna su

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Conoscere “te, l’unico vero Dio” e “colui che hai mandato, Gesù Cristo”, questa è la pienezza della vita. La conoscenza del Padre e del Figlio non è mai compiuta, proprio perché essa è un rapporto di persone viventi. Io sono vivo, e come tale continuo a cambiare, perché continuo ad avere nuove esperienze, nuovi stimoli, nuove reazioni. Ogni giorno il mio rapporto con Dio, e quindi la mia conoscenza di lui, si arricchisce grazie alla vicinanza a Gesù: è lui che mi fa conoscere il Padre. Egli stesso lo ha detto: “Chi ha visto me ha visto il Padre”. Questo dev’essere il nostro continuo desiderio e la nostra continua occupazione, qualunque cosa facciamo: conoscere, cioè incontrare Dio. A questo deve servire ogni nostro sguardo e ogni parola. Abbiamo l’aiuto delle sacre Scritture e l’esempio dei santi. Guardandoci attorno vediamo creature di Dio, “opera delle sue mani”: esse ci parlano del Creatore; i salmi ce lo ricordano: “Opere tutte del Signore benedite il Signore”. Il libro della Sapienza dice infatti: “Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l'autore”. L’aiuto più grande però ci viene dall’ascolto e dalla contemplazione di Gesù. Ogni passo del vangelo e ogni parola pronunciata dal Signore ci mettono in rapporto con lui e ci arricchiscono del suo Spirito Santo. Per questo conoscere Dio e il Figlio suo è vita eterna, perché è un immergerci nella sua vita, un abbandonarci al suo abbraccio. Gesù è mandato dal Padre, e come tale ha l’autorità e il potere di Dio, cioè il suo amore e la tenerezza materna del suo sguardo di Padre. Amare Gesù e stare con lui equivale ad amare e stare con Dio. Gesù ha una viva coscienza del suo essere mandato. Questa espressione, colui che è mandato dal Padre, è la definizione di sè che egli maggiormente preferisce: viene infatti ripetuta circa quaranta volte nel vangelo secondo Giovanni. In tal modo egli si presenta a noi come colui che è obbediente, colui che non ha altro interesse che quello di Dio. Il fatto che questa qualifica si ripeta spesso nel vangelo, ci deve rendere attenti: anche noi abbiamo ricevuto un mandato, anche per noi non c’è qualifica che superi questa. Siamo mandati da Gesù. Sentiamo la responsabilità di essere mandati oppure ci consideriamo protagonisti in tutto quello che facciamo e viviamo? Siamo nel mondo con un compito affidatoci dal Signore, il compito di distribuire il suo amore, di portare il suo Spirito per rinnovare la faccia della terra. Non abbiamo interessi da difendere o da far avanzare: i nostri interessi non fanno crescere l’umanità né la pace in essa. Noi siamo mandati, e viviamo perciò attenti ai desideri di colui che ci ha mandato!                                  torna su

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“Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l'opera che mi hai dato da fare”. Gesù è rivolto al Padre in preghiera e, dopo aver ricordato quanto il Padre ha fatto, ricorda anche il proprio operato. Egli è sulla terra da trentatre anni, e cos’ha fatto? Gesù non vuole ricordare nessun evento in particolare, ma dice qual era il movente di ogni suo comportamento, di ogni sua parola, di ogni suo respiro. “Ti ho glorificato sulla terra”: questo il desiderio continuo e la volontà di Gesù in ogni sua azione. Egli si è mosso sempre in modo da dare spazio al Padre, da offrire a lui un grazie continuo e la propria vita, e agli uomini la luce del Padre, il frutto del suo amore, i segni della sua tenerezza e della sua forza. Gesù qui sulla terra non ha cercato di attirare l’attenzione su di sè o di farsi valere, nè ha desiderato mettersi in mostra. Faceva il possibile perché tutti potessero sì credere in lui, ma solo per accogliere la rivelazione del Padre che egli offriva con la propria vita. Lo scopo che Gesù dava al proprio vivere è il più vero e il più bello. Esso è l’unico movente che, quando lo facciamo nostro, fa della nostra vita un vero dono libero e liberante. La vita del sacerdote nella Chiesa ha pure questo scopo, e in tal modo esso è d’esempio per tutti i battezzati. Il sacerdote, che ripropone con la parola e i sacramenti la vita del Signore, vive per far conoscere Gesù: lo fa conoscere vivendo egli stesso il modo di vivere del Maestro, attento a non dare spazio a sentimenti e atteggiamenti che non potessero essere di lui. Gli è di aiuto anche il dono del celibato, che lo libera da preoccupazioni che potrebbero farlo rimanere impegnato con interessi materiali e in qualche modo egocentrici. Lungo i secoli è maturata nella Chiesa questa tradizione, perché l’unico movente della vita dei suoi sacerdoti sia la gloria di Dio. “Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l'opera che mi hai dato da fare”: Gesù è stato obbediente al Padre per glorificarlo. Già a dodici anni egli aveva questa attenzione, continuata poi sempre: ce se ne accorge in particolare quando le folle cercavano di trattenerlo, ma per imporgli di fare miracoli. Allora egli si ritirava per ascoltare il Padre e rafforzarsi nell’ubbidienza a lui. In questo esercizio ha ricevuto quella speranza che lo ha poi sostenuto nell’orto degli ulivi e sulla croce per continuare a compiere la volontà del Padre.                                  torna su

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“E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse”. Gesù ripete la richiesta con cui aveva iniziato la preghiera: chiede al Padre di essere glorificato, e la precisa ricordando la gloria di cui godeva prima della creazione del mondo. Questa affermazione è sorprendente: Gesù sa di essere Figlio nell’eternità, eterno come il Padre, partecipe della vita divina e, quindi, dell’amore divino da sempre. Per noi queste parole suonano come un mistero grande e non del tutto afferrabile. Che cosa può essere la “gloria che avevo presso di te”? Sembra che Gesù ne parli con nostalgia. Prima di assumere un corpo e un’anima umana il Figlio di Dio viveva una relazione tutta speciale con il Padre, una relazione che a noi non può essere nota, perché non ne possiamo avere esperienza. Avendo assunto la natura umana, anche il Figlio di Dio ha conosciuto nel tempo le limitazioni e fragilità che essa ha ereditato dalle generazioni precedenti, compresa la debolezza conseguente al peccato: è la debolezza per cui noi facciamo fatica a far coincidere l’obbedienza con l’amore e il servizio con il vero significato della vita di figli di quel Dio che sa solo amare. Anche Gesù ha sofferto per obbedire, anzi, ha dovuto - come dice la lettera agli Ebrei - “imparare l’obbedienza dalle cose che patì”. Gesù è cosciente della propria identità: egli è Dio. Lo aveva affermato anche in altre occasioni, discutendo con i Giudei: “Prima che Abramo fosse, Io Sono”. In quell’occasione avevano messo mano alle pietre per lapidarlo: avevano compreso, tanto da giudicare tale affermazione come bestemmia. Quale la conseguenza di questa consapevolezza? Sapendo di essere Dio, di venire da lui e di essere in procinto di tornare a lui, Gesù si china a lavare i piedi ai discepoli. Gesù sa di essere Dio, ma quel Dio che sa solo amare, e che ama servendo, che non ritiene umiliazione il donare un amore completo.

“Prima che il mondo fosse” Gesù viveva la pienezza dell’amore senza doverlo far diventare gesti piccoli e comprensibili agli uomini. La gloria di Gesù era il suo essere proteso verso il Padre in un continuo desiderio di compiere il suo volere, anzi, di esserne il compimento: questo desiderio gli fece dire quell’ “Ecco, io vengo per fare o Dio la tua volontà”.                                  torna su

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“Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo”. Gesù continua a parlare al Padre con la confidenza del Figlio e con la libertà dell’amico. Ora egli ricorda il proprio operato realizzato durante tutta la vita: lo ricorda non per vantarsene, anche se pare voglia quasi compiacersene: lo fa forse solo perché odano i suoi discepoli. Troviamo strano che egli neppure accenni ai molti e grandi miracoli compiuti, nè all’aver radunato per l’ascolto della Parola enormi folle cui ha donato speranza e forza per convertirsi, nemmeno nell’aver vinto il maligno stabilitosi in molti uomini. Dal dare importanza ai miracoli compiuti aveva messo in guardia i discepoli, dicendo persino che tali fatti potrebbero produrre o nascondere ipocrisia e ambizione: in tal caso coloro che li compiono sarebbero “operatori di iniquità” (Mt 7,22). Pare che egli non voglia quindi dare importanza nemmeno a quelli avvenuti grazie alla sua Parola. La sua attenzione e lo scopo che egli attribuiva ai prodigi compiuti era la conoscenza dell’amore del Padre, un amore rivolto a ciascuno, un amore misericordioso, un amore fedele e del tutto gratuito. “Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini”: ora egli può dire così. Possiamo comprendere così quale fosse la reale intenzione di Gesù in ogni momento della sua vita: potremmo riascoltare perciò tutti i fatti da lui compiuti e tutte le parole da lui pronunciate tenendo conto di questa intenzione ora rivelata. Che cosa può significare “Ho fatto conoscere il tuo nome”? Il nome è la realtà profonda, l’essere stesso di una persona. Gesù ha messo gli uomini, peccatori e deboli, quelli “che mi hai dato dal mondo”, cioè i discepoli, a contatto con l’amore eterno del Padre, amore potente, infinito, fedele fino all’assurdità, amore che perdona e guarisce. Lo ha fatto “conoscere”, cioè non solo ha fatto sapere che esiste, ma anche lo ha fatto sperimentare, godere, condividere! Ora i discepoli “conoscono” il nome di Dio: quando pensano a lui non hanno più pensieri vaghi, nebulosi, indefiniti, ma si possono riferire a tutto ciò che Gesù ha detto e fatto, cosicché l’immagine di Dio nella loro mente e nel loro cuore sia nitida e chiara: Dio è Padre, un Padre che può essere incontrato e persino imitato da noi peccatori; è un Padre che ci comunica sicurezza e serenità con la sua bontà, un Padre che può essere imitato nell’amare ogni essere umano.                                  torna su

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“Erano tuoi e li hai dati a me ed essi hanno osservato la tua parola”. Gesù ha fatto conoscere il “nome” del Padre ai discepoli. Ora parla di loro: “Erano tuoi e li hai dati a me”. Ecco come li vede il Signore. Sa che essi non sono una sua conquista, ma che gli sono stati affidati dal Padre, cui appartengono. Gesù si sente responsabile di loro di fronte al Padre. È contento però di aggiungere una bella notizia: essi sono obbedienti, hanno saputo ascoltare e hanno preso sul serio gli insegnamenti che egli dava loro. Tutto quello che Gesù diceva aveva origine nel cuore del Padre: “Come mi ha insegnato il Padre, così io parlo” (Gv 8,28), aveva già detto. Per questo ora dice “hanno osservato la tua parola”, volendo significare che gli hanno ubbidito. Pur avendo dovuto rimproverare più volte i discepoli e soprattutto gli apostoli, Gesù tuttavia sembra contento di loro. Varie volte, come raccontano gli evangelisti, ha espresso gioia per la loro vita. Di essi aveva detto che sono la luce del mondo e il sale della terra, altre volte ha mostrato di dar loro fiducia, come quando li ha mandati a due a due in missione da soli col potere sui demoni e sulle malattie.

Hanno osservato la tua parola: possono essere di esempio per tutti coloro cui saranno inviati. La Parola “osservare” significa anzitutto custodire, ma anche mettere in pratica. I discepoli hanno custodito nel cuore e nella mente gli insegnamenti di Gesù, li hanno ritenuti tanto preziosi da renderli criterio per le piccole e grandi scelte. Custodire la Parola significa badare più a quella che non ai propri ragionamenti e alle proprie convinzioni e abitudini. Chi custodisce la Parola, la mette poi in pratica; in tal modo la Parola diventa “carne”, cioè vita dell’uomo, visibile da tutti attraverso azioni e comportamenti. Gesù stesso è la Parola incarnata, la sua vita è l’amore che il Padre «dice» all’umanità intera. I discepoli che osservano la Parola sono prolungamento della vita di Gesù, della sua incarnazione. Questo rivela quanto è preziosa la loro vita agli occhi di Dio!                                  torna su

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“Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro; essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato”. Gesù ha parlato dei propri discepoli e ora li loda davanti al Padre. Essi hanno ascoltato con attenzione i suoi insegnamenti, lo hanno interrogato quando non capivano, sono stati da lui rimproverati quando ragionavano senza fede, secondo il modo di pensare egoistico del mondo. I discepoli sapevano che la parola che usciva dalla bocca di Gesù era Parola di Dio, tanto che sapevano che continuava ad essere Parola di Dio anche quando era pronunciata da loro. San Paolo stesso infatti dice ai Tessalonicesi: “Avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l'avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete” (1Tess 2,13). Quando Gesù parlava era cosciente di trasmettere quanto aveva ricevuto da Dio, dal Padre: i discepoli lo hanno compreso. Gesù infatti faceva sempre riferimento ai profeti, a Mosè, ai salmi, sia quando formulava le sue parabole, sia quando dava altri insegnamenti più espliciti. I discepoli, abituati ad ascoltare ogni sabato le Scritture nella sinagoga, se ne accorgevano. Formulando questa preghiera, Gesù conferì autorità alla parola dei suoi apostoli, perché è una parola che proviene da lui e quindi da Dio. Per questo dice loro: “Chi ascolta voi ascolta me, e chi ascolta me ascolta colui che mi ha mandato”. Parola di Dio è la parola scritta del Vangelo e degli altri scritti contenuti nel Nuovo Testamento, e Parola di Dio è quanto i successori degli apostoli, i vescovi, ci trasmettono. Non è sempre facile per i vescovi aprire la bocca per donare Parola di Dio, nè è sempre facile per i fedeli riconoscere l’autorità di Dio nella parola dei loro pastori. Sono uomini peccatori sia i vescovi che i fedeli, e perciò è sempre necessaria l’azione dello Spirito Santo per gli uni e per gli altri. I Vescovi e i loro presbiteri saranno sempre attenti a confrontare la propria parola con le Scritture e con gli insegnamenti perenni della Chiesa; i fedeli saranno pronti ad ascoltare, a meno che non risulti evidente che la parola di un sacerdote o di un vescovo non è conforme all’insegnamento di tutta la Chiesa. La preghiera è doverosa per gli uni e per gli altri, per ottenere da Dio spirito di sapienza, di fedeltà e di comunione.                                  torna su

15

“Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato, perché sono tuoi”. Gesù inizia una seconda parte della sua preghiera. Ora prega per i discepoli. Che cosa significa pregare per qualcuno? Quando io prego per qualcuno, continuo ad essere proteso verso Dio, portando il nome e la situazione di un’altra persona davanti al Padre, perché egli riversi su di lui tutto il suo amore. Pregando per una persona mi impegno davanti a Dio per quella persona, mi unisco a lei. Quando Gesù prega per i suoi, si impegna davanti al Padre per loro, è un tutt’uno con loro, e il Padre lo deve ascoltare ed esaudire! Egli prega per i suoi discepoli, ma non per il mondo. A prima vista troviamo strana questa affermazione: come mai Gesù, che è venuto a dare la vita per il mondo, non prega per il mondo? Gesù ha offerto la propria vita perché il mondo sia salvato, ma con questo mondo da salvare non può farsi un tutt’uno. Il mondo è fuori strada, nella disobbedienza al Padre, e perciò Gesù, che sa che il mondo è amato da Dio, vuol donare se stesso perché esso rientri nell’obbedienza, unica via di salvezza. Non può pregare perché il mondo continui ad essere mondo, ma offre a Dio la propria vita perché esso cambi e si converta. Così noi, imparando da Gesù, ci uniamo davanti a Dio con tutti quelli che credono; per coloro che non credono possiamo offrire a Dio la nostra vita affinché giungano alla fede: senza di essa tutta la loro vita, anche se godessero di buona salute e avessero tutte le soddisfazioni possibili, sarebbe perduta. In questa stessa preghiera Gesù ci dirà che per questo serve l’unità che viviamo tra di noi. Non preghiamo perciò nemmeno noi per il mondo, ma per esso ci impegniamo a vivere rinnegando noi stessi, in modo da essere uniti gli uni gli altri nella carità. Siamo molto consolati dal fatto che Gesù ha pregato per noi. Noi infatti siamo stati “dati” a lui dal Padre fin dal nostro battesimo. Noi siamo del Padre e da lui consegnati a Gesù. E Gesù si impegna davanti a Dio per noi: ci presenta a lui, perché la nostra vita sia conformata alla sua vita, vita di figlio. Che cos’avrà chiesto Gesù al Padre per noi? Lo vedremo leggendo le prossime espressioni della sua preghiera. Non ci aspettiamo che abbia chiesto per noi salute e benessere, e nemmeno che tutti i nostri desideri mondani siano realizzati. Io godo che Gesù abbia chiesto per me di essere promosso alla vita eterna!                                  torna su

16

“Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie, e io sono glorificato in loro”. Sembra che con queste parole Gesù voglia manifestare la sua gioia per la comunione che gode con il Padre. La comunione del Padre con il Figlio è un mistero per noi insondabile, un mistero di amore. Per poterlo comunicare a noi Gesù usa parole a noi comprensibili: ciò che appartiene a me appartiene a te, e ciò che è tuo è mio. Noi godiamo comunione tra noi quando non diciamo di nulla «questo è mio»: è segno che non siamo animati da quello spirito di egoismo che generalmente regna nei nostri cuori e ci tiene distanti l’uno dall’altro. L’unità di Gesù con il Padre è una realtà cui anche noi partecipiamo. Egli fa questa affermazione, infatti, per spiegare quanto aveva detto, che cioè i discepoli sono del Padre, e dal Padre consegnati a lui. Essi sono quindi del Padre, pur essendo suoi: noi stessi infatti non sentiamo differenza nel dirci discepoli di Gesù e figli di Dio. Tra Gesù e il Padre non sussiste gelosia: il Padre gode che noi ascoltiamo Gesù, e Gesù gode che adoriamo il Padre.

Gesù aveva chiesto al Padre di essere glorificato: adesso, pensando ai discepoli, confessa di essere già glorificato “in loro”. La vita dei discepoli è gloria per lui. Essi sono il «luogo» dove si manifesta la pienezza dell’amore di Gesù e la bellezza della sua divinità. In che modo può avvenire questa manifestazione? Gesù stesso ce lo dirà continuando la preghiera. Ciò che maggiormente lo glorifica è l’unità dei discepoli tra loro, il fatto cioè che essi vivano il suo comandamento nuovo. Quando tu ami e ti lasci amare a causa di lui, quando perdoni con lui, quando porti la tua croce per amor suo, allora tu ricevi il suo Spirito e vivi la sua vita. Tu diventi in tal modo gloria sua, diventi luogo ove si manifesta qualche cosa dell’essere del Figlio di Dio. È consolante per noi sapere di essere gloria di Gesù: non credo possa esserci gioia più grande di questa, una gioia che ci fa sopportare prove e sofferenze con coraggio e ci rende forti nelle occasioni che ci vengono date per rendergli testimonianza.                                  torna su

17

“Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi”. Gesù parla come fosse già oltre questo mondo. Oppure, quando l’evangelista scrive questa preghiera, mette in bocca a Gesù le parole che egli dice da risorto al Padre: “Io non sono più nel mondo”. Possiamo anche semplicemente pensare che Gesù nel cenacolo, ormai certo dell’imminenza della propria morte, parli ai suoi come da fuori di questo mondo, dal quale sa d’essere rifiutato. La morte che lo porta fuori del mondo non è per lui un evento negativo, da fuggire. Più volte aveva detto ai discepoli che proprio per questo egli è venuto nel mondo, per offrire la vita, quindi per uscire dal mondo con un atto d’amore. Ormai egli ha deciso la propria obbedienza ai disegni di Dio e il mondo non ha più alcun influsso sulla sua vita: può dire in verità: “Io non sono più nel mondo”. I discepoli invece sono ancora nel mondo, e quindi in pericolo. È per essi che egli sta pregando, proprio perché sono in una situazione difficile. Riusciranno ad essere fedeli? Avranno la forza di superare lo scandalo della sua morte in croce? Saranno capaci di continuare a vivere e donare la sua Parola? Saranno in grado di testimoniare che egli è il Figlio di Dio? Gesù dice “e io vengo a te”, quasi ad affermare che egli stesso è preghiera per loro. La sua vita, offerta al Padre, dovrà essere da lui accolta come intercessione per i discepoli, a garanzia che continueranno ad essere portatori del suo Spirito nel mondo. Egli non rivolge al Padre solo parole per i discepoli, ma gli presenta la propria vita stessa, e gli chiede: “custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato”. Che significato può avere questa domanda: Custodisci nel tuo nome? Potremmo comprendere queste parole come il desiderio di Gesù che i suoi discepoli siano sempre accolti come figli da Dio, sempre partecipi della bellezza e grandezza del suo amore e della sua vita piena e perfetta, vita di misericordia, di perdono, di tenerezza.                                  torna su

18

“Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi”. Quando i discepoli di Gesù sono custoditi dentro il nome del Padre, allora essi sono una cosa sola, come Gesù lo è col Padre stesso. Ecco perché Gesù prega: egli desidera che i suoi siano “una cosa sola come noi”. Più avanti dirà anche il motivo di questo suo desiderio. Intanto vediamo che per essere una cosa sola noi dobbiamo essere custoditi nel nome del Padre: quando il nostro amore del Padre è vero e continuo, ci amiamo davvero e siamo uniti. Non saremo capaci di darci da noi stessi l’unità, di costruircela, nè con gli sforzi e nemmeno con le nostre virtù, tanto meno con discorsi o colloqui. Gesù stesso l’ha chiesta al Padre come suo dono, e ha indicato ai discepoli come strada per giungervi il rimanere nel nome del Padre. Non ci sono gioie più grandi del vivere nell’unità con coloro che amano Gesù! Restare nel cuore del Padre ci difende da tutte le tentazioni di divisione che sono in agguato ad ogni passo. Spesso basta una parola, un gesto, un qualcosa di diverso dai nostri gusti per farci diventare accusatori dei fratelli, per ignorarli, per dividerci da loro, per pensare che essi ci escludono. Ricordare che abbiamo un Padre, che mio Padre è Padre anche del fratello che io giudico e disprezzo, è stimolo a guardarlo da un altro punto di vista, ad apprezzare la sua fede più delle sue capacità, a vedere l’amore con cui lo sta amando il Padre mio. Come può Dio amare me se io non ho pazienza con i suoi figli? Come può Dio essere al mio fianco se io non sto a fianco dei figli suoi per sostenerli e accompagnarli? Gesù, nella sua preghiera, suggerisce al Padre pure come dev’essere la nostra unità: “come noi”. Gesù e il Padre si amano esprimendo il loro amore con la piena fiducia reciproca, e la fiducia con l’obbedienza reciproca alimentata da un ascolto continuo. Gesù si fida del Padre tanto da rifiutare di pensare al proprio sostentamento perché “il Padre sa ciò di cui abbiamo bisogno” e “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Il Padre si fida di Gesù tanto da dire a noi “Ascoltate lui”, e da consegnare a lui “ogni potere in cielo e in terra”. Il Padre obbedisce a Gesù, tanto da realizzare quanto Gesù dice: fa persino uscire Lazzaro dalla tomba in cui giace da quattro giorni. E Gesù ubbidisce al Padre tanto da accettare di entrare nella morte per realizzare la sua volontà, che prevede la morte del Giusto per la salvezza dei peccatori.                                  torna su

19

“Quand'ero con loro, io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi; nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura”. Gesù parla ancora come fosse già risorto e già nella gloria che ha chiesto al Padre. Ora egli riassume con poche parole tutto il suo operato dei tre anni trascorsi con i discepoli. Che cos’ha fatto Gesù? Qual era il suo obiettivo di ogni momento? Aveva già detto: “Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo”, e ora dice: “Io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi”. Ha fatto conoscere il nome del Padre ai discepoli, ma è ancora più forte dire “io conservavo nel tuo nome”: conservare nel nome è un’espressione cui non siamo abituati. Con essa Gesù intendeva esprimere tutto il suo amore per i discepoli: egli li voleva attirare a sè soltanto per affidarli al Padre, anzi, perché fossero trasformati dall’amore del Padre. L’impegno di Gesù per loro è far sì che essi siano costantemente figli di Dio, cioè aperti a lui, obbedienti a lui, protesi verso di lui come egli stesso era consapevolmente e volutamente figlio. Essere “nel nome del Padre” è il contrario dell’atteggiamento di Adamo, che si era posto di fronte a Dio come rivale. Gesù, che è venuto come Figlio e ha incarnato l’amore del Figlio, incomincia finalmente il modo vero di rapportarsi con Dio Padre. Egli lo incomincia e noi lo continuiamo. Viviamo con Dio come figli, senza mettere davanti a lui una nostra volontà per la nostra vita, desiderando invece che essa serva a realizzare i santi ed eterni disegni dell’amore di Dio. Prima di prestare attenzione alle nostre aspirazioni e di formulare progetti, dovremmo metterci in ascolto del nostro Padre che è nei cieli. Questo atteggiamento, non facile, lo troviamo realizzato nella vita dei santi. E anch’essi lo hanno dovuto imparare con molta fatica: purtroppo siamo nati e cresciuti nell’eredità di Adamo e perciò quasi automaticamente portati a ignorare la bellezza della volontà di Dio; per le nostre scelte ci riferiamo soltanto alle aspirazioni del nostro cuore. Queste portano con sè l’impronta della cupidigia e delle passioni egoistiche. È grande perciò l’opera di Gesù che ci conserva “nel nome del Padre”!                                  torna su

20

“Nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura”. Gesù ha custodito i suoi discepoli “nel nome” del Padre, e in tal modo essi sono salvi. Gesù qui però accenna al grande interrogativo del male che manda in rovina gli uomini e che è riuscito a sedurre anche uno dei discepoli. Gesù non si sente in colpa per il fatto che Giuda ha abbandonato lui e la Chiesa. Egli lo ha amato, come tutti gli altri discepoli, e anche a lui ha donato di essere testimone dei suoi miracoli e uditore della sua sapienza. Lo ha accolto come partecipe delle sue gioie e dei momenti difficili, delle sue fatiche e delle sue soddisfazioni. Che cosa è successo nel cuore di Giuda, da ritenere un gruzzolo di denaro più importante di celebrare la cena con Gesù e con gli altri apostoli e più importante che condividere la vita con lui? L’evangelista ce lo aveva detto: Satana entrò in lui! Qui ora Gesù lo definisce con l’ebraismo “figlio della perdizione”: significa che è andato perduto, che la sua vita - lontana da Gesù - è lontana dalla vera vita, che egli ha perduto la speranza della vita eterna e del banchetto del regno dei cieli. Le Scritture parlano pure di questo fatto. Esse raccontano l’odio dei fratelli di Giuseppe, figlio di Giacobbe, e come egli è stato venduto per un po’ di denaro: in vari modi questo e altri fatti hanno preannunciato la morte e la esaltazione del Signore. I Salmi poi parlano del traditore di Gesù dicendo: “Anche l'amico in cui confidavo, anche lui, che mangiava il mio pane, alza contro di me il suo calcagno”. Queste parole si avverano nella vicenda del discepolo e apostolo Giuda Iscariota. Gesù e l’evangelista non si meravigliano di ciò che la Scrittura annuncia e non si scandalizzano che essa si avveri. Essi non si fanno i problemi che ci facciamo noi. Dio non vuole il male, anche se sa che deve accadere. Il gesto con cui Giuda preferisce il denaro a Gesù viene chiaramente condannato: egli stesso, quando si accorge che Gesù viene consegnato a Pilato, si pente di quanto ha fatto. Si pente, ma non si umilia a chiedere perdono: questo è un peccato ancora peggiore, e per questo egli viene chiamato “figlio della perdizione”.                                  torna su

21

“Ma ora io vengo a te e dico queste cose mentre sono ancora nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia”. Gesù continua a pregare manifestando i suoi desideri al Padre. Egli è consapevole di essere giunto al momento della sua Ora, cioè della propria morte: questa la vede come passaggio da questa vita, nel mondo a lui ostile, all’incontro con il Padre. Egli prega per i suoi discepoli, e vuole che vivano la sua stessa vita per lasciarli nel mondo a continuare la sua missione. Esprime il suo desiderio con una frase inusuale: “abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia”. Qual è la gioia di Gesù e come può essere piena in noi, che siamo peccatori e fragili? È anzitutto bello per noi sapere che Gesù ci vuole somiglianti a sè e che chiede questo al Padre: quello che lui chiede, il Padre certamente lo esaudisce. In noi perciò, grazie alla sua preghiera, nasce e si sviluppa la gioia di Gesù! Una volta i vangeli ci parlano della sua gioia, nell’occasione in cui i discepoli tornano dalla missione, e lui dice: “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli”. Il Padre è la gioia di Gesù, ed è sua gioia il suo modo di fare, in particolare il fatto che egli comunichi i propri segreti “ai piccoli”! Altre volte possiamo intuire che Gesù è contento, da quanto dice ai discepoli o alle folle, in particolare quando li proclama beati o quando può dire che essi sono “il sale della terra” e “la luce del mondo”. La gioia di Gesù scaturisce quindi dal suo rapporto con il Padre, dalla contemplazione del suo amore e dall’osservazione del frutto che il suo amore produce sulla terra: “La mia gioia è nel Signore” dice il salmo 104. Il suo desiderio per i discepoli è che “abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia”, e per questo egli parla loro e manifesta loro la sua preghiera. Essi, stando con Gesù, attenti a lui, ricevono, per contagio, quella gioia che egli riceve dall’alto. Noi cerchiamo gioia in tante cose che lasciano subito il posto ad altre, e siamo tristi. Per questo Gesù vuole per noi la pienezza della sua gioia: non la cercheremo altrove, perché la gioia che viene da lui è, non solo sufficiente, ma sovrabbondante!                                  torna su

22

“Io ho dato a loro la tua parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo”. Per suscitare in noi la gioia vera e perfetta Gesù ci ha comunicato la Parola del Padre. “Ho dato a loro la tua parola”, dice con soddisfazione. La Parola di Dio è sempre fonte di vita e di gioia: “Se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa”, dice il salmo 28. E il salmo 119: “La tua legge è tutta la mia gioia”. Il Padre aveva parlato tramite Mosè e tramite i profeti lungo i secoli, ma quella sua parola era solo preparazione per la Parola definitiva, per quella Parola che comunica la pienezza dell’amore e della vita. La Parola dunque è Gesù stesso: egli è tutto ciò che Dio vuole comunicare di sè agli uomini, bisognosi di perdono e di salvezza, di comunione reciproca e di pace. Gesù ci ha dato la Parola di Dio non solo insegnandoci con sapienza la volontà del Padre, ma soprattutto stando egli stesso vicino a noi in tutte le circostanze, in particolare in quelle dolorose che ci portano alla morte. Egli è la Parola che ci fa vivere e la Parola che ci fa sentire preziosi per Dio stesso. I discepoli hanno accettato non solo i suoi insegnamenti, ma soprattutto di stare con lui. Per questo “il mondo li ha odiati”. Egli aveva varie volte annunciato ai discepoli le difficoltà che avrebbero trovato nel mondo, non solo quelle che nascono dentro di noi, ma anche quelle derivanti dalle incomprensioni dei propri parenti. Aveva detto che avrebbero potuto essere persino uccisi, sia dai familiari che da coloro che adorano Dio, convinti di compiere un atto comandato da lui. Perché quest’odio e questa violenza contro i discepoli di Gesù? Essa si è perpetuata nella storia e continua anche ora. “Essi non sono del mondo”: questo è il motivo dell’odio che si scatena contro di loro, lo stesso motivo del rifiuto di Gesù. Chi non è del mondo non obbedisce al diavolo che usa l’unico suo metodo, la violenza e la morte, per dominare. I discepoli di Gesù rimangono fedeli, come lui è stato fedele al Padre, fin dentro la morte. La sua presenza di Vivente dentro la morte ha tolto a questa il potere di spaventare: per questo i discepoli affrontano con gioia anche la morte a causa di lui.                                  torna su

23

“Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno”. Dopo aver detto che anche i discepoli saranno odiati perché non appartengono al mondo, e quindi non sono proprietà del maligno, Gesù continua la sua preghiera per loro. Che cosa desidera che il Padre faccia per loro? “Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno”. Gesù è venuto per salvare il mondo, quindi nel mondo deve rimanere il segno e il dono della sua presenza: questo è possibile grazie alla presenza in esso dei discepoli. Non chiede perciò al Padre di toglierli dal mondo: in quel caso nel mondo mancherebbero i dieci giusti, grazie ai quali esso può essere salvato. Ricordiamo certamente quel passo del libro della Genesi che racconta la preghiera di Abramo: se nelle città di Sodoma e Gomorra si fossero trovati dieci giusti, quelle città, nonostante la loro perversione, sarebbero state risparmiate dal fuoco. Coloro che amano Gesù e lo seguono sono i veri “giusti”, quelli che compiono l’opera di Dio, cioè credere in colui che egli ha mandato. Un pugno di cristiani è la salvezza di ogni città, di ogni ambiente. Gesù non li vuol togliere, perché egli vuole la salvezza di quelle città e di ogni ambiente. Saranno odiati, derisi, emarginati, perseguitati, forse anche uccisi i suoi discepoli: quello è il loro posto, in tal modo si realizza il significato più profondo della loro vita. A noi cristiani non deve dispiacere di essere presi di mira dai vari raggruppamenti del mondo. Come l’amore di Gesù portato nelle profondità della morte ha salvato l’umanità, così ancora l’amore dei cristiani vissuto là dove essi sono derisi e perseguitati partecipa al mistero della salvezza. Non ci dobbiamo preoccupare di difenderci o di difendere la Chiesa e i membri della Chiesa dalle calunnie o dalle ondate di inimicizia che le si scagliano contro. Rischieremmo di usare la spada, e di sentirci ripetere da Gesù: “Rimetti la spada nel fodero”. Gesù chiede al Padre che ci difenda dal maligno. Questi è il nemico che ci può danneggiare veramente.                                  torna su

24

“Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno”. I discepoli di Gesù non devono sfuggire l’inimicizia del mondo, perché essa dà loro l’occasione di essere testimoni. L’odio che si riversa su di essi dà loro la possibilità di manifestare l’amore forte e deciso e concreto per il Signore. E questa è la loro opera di evangelizzazione più fruttuosa, secondo l’antico detto: “Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani”! Gesù infatti non si preoccupa di procurare ai discepoli una vita facile, senza difficoltà. Egli chiede al Padre soltanto di custodirli dal maligno. È la stessa preghiera con cui si conclude quella che egli ha insegnato loro, che dice: Padre, liberaci dal male. In italiano diciamo così, ma il testo greco potrebbe essere tradotto con “strappaci dal maligno”. Il pericolo grande per noi è di essere in balia del maligno, di colui che ci fa allontanare da Dio, che ci fa vedere il Padre come un rivale o nemico, uno che non è più in grado di amarci o non ne ha la volontà. Se il maligno avesse qualche potere su di noi, diventeremmo capaci di odiare, di invidiare, di allontanare gli altri, le persone che il Padre ama e vuole salvare. Quando vediamo qualche cristiano che soffre perché perseguitato non è così brutto come vederne uno che odia, che si difende con violenza di parole o di azioni. Gesù chiede al Padre proprio la difesa della nostra vita interiore. In noi dev’esserci sempre amore per lui e misericordia, pazienza, comprensione e compassione per ogni uomo, anche per chi ci facesse volutamente soffrire. Amando chi non ci ama viviamo la vera vita, quella che viene dall’alto, libera dagli influssi e dal dominio di Satana. Gesù ci vuole così, altrimenti non saremmo diversi dai pagani, e renderemmo inutile la fatica della passione di Cristo e la sua esaltazione. Il Padre può custodirci dal maligno, e lo fa in molti modi. Anzitutto egli ascolta la nostra preghiera che si unisce a questa di Gesù. Egli vede il nostro desiderio di essere sempre suoi veri figli e lo esaudisce. Rendiamo grazie al Padre che ascolta ciò che Gesù gli chiede e ci dà aiuti su aiuti perché siamo custoditi: ci mette accanto fratelli che ci danno una parola o un esempio per stimolarci, dirige gli avvenimenti in modo che ci siano evitati pericoli spirituali, e per questo usa anche contrattempi apparentemente sfavorevoli, suscita dentro il nostro cuore e la nostra mente ispirazioni sante che possiamo seguire.                                  torna su

25

“Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo”. Gesù rivolge al Padre queste parole, sapendo di essere udito dai discepoli. Sono essi che hanno bisogno di udirle e di esserne consapevoli. Il mondo non può possedere nè lui nè chi si è offerto a lui. Il mondo non deve influire sulla volontà, sull’amore, sulle scelte di coloro che amano Gesù, il Figlio di Dio. Essi non sono del mondo, anzi, sono usciti da esso quando hanno iniziato ad aderire a lui. Il termine “mondo” indica tutto quell’ambiente, fatto di uomini e di cose, che è estraneo a Gesù e all’amore del Padre. Gesù stesso non è del mondo: lo riaffermerà egli stesso davanti a Pilato, parlando del regno che gli è stato dato da Dio. Quel regno non è di quaggiù e quindi nemmeno la sua regalità è da intendersi come quella dei re della terra. Egli non fa loro concorrenza. Egli è uscito dal mondo quando è entrato nell’acqua del Giordano per caricarsi del peso dei peccati degli uomini. È uscito dal mondo quando è entrato nel deserto, dove ha vinto tutte le seduzioni più grandi che il mondo esercita sui figli di Dio. È uscito dal mondo anche quando, a dodici anni, si è intrattenuto nel Tempio di Gerusalemme per ascoltare e approfondire la Parola di Dio. Gesù quindi non appartiene e non vuole appartenere al mondo, ma nemmeno lasciarsi influenzare da esso: egli non vuole assumere i modi di fare e di pensare che guidano tutti gli uomini. Nei suoi pensieri e desideri e nelle sue parole c’è sempre una novità, quella sconosciuta da tutti, la novità dei pensieri e desideri di Dio, quella novità che ci fa sentire di essere in un altro mondo, quello della fede e dell’amore. Gesù vuole che i suoi siano con lui, in quest’altro mondo, ed essi, accogliendolo e amandolo, vi sono già entrati. Per questo egli può già dire: “Essi non sono del mondo”, e lo può dire con soddisfazione e con gioia. È la stessa gioia che possiamo immaginare sul suo volto quando aveva detto “Voi siete il sale della terra,… voi siete la luce del mondo”. Egli riconosce e dichiara che essi sono non solo importanti, ma indispensabili alla vita degli uomini tutti, anche alla vita dei non credenti.                                  torna su

26

“Consacrali nella verità. La tua parola è verità”. Gesù continua a chiedere al Padre cose grandi per i suoi discepoli. Che cosa significa: “Consacrali nella verità”? Consacrare qualcosa significa riservare a Dio quella cosa, far sì che essa diventi proprietà di Dio, cosa di cui lui possa servirsi. Consacrare una persona significa ugualmente far sì che quella persona diventi un riferimento continuo alla divinità. Consacrare “nella verità” è un’aggiunta di Gesù: egli vedeva che c’erano persone consacrate a Dio, e per questo erano o si sentivano autorizzate ad usare dominio e violenza verso gli altri. Era il caso di alcuni farisei o di alcuni sacerdoti del Tempio di Gerusalemme. Gesù non vuole che i suoi discepoli siano consacrati a Dio in maniera esteriore o superficiale, e nemmeno che la loro consacrazione diventi occasione di ambizione o di ammirazione da parte degli altri. Essi devono essere rivelazione del Dio dell’amore, di quel Dio che è Padre per tutti. Consacrati a lui, essi devono manifestare la sua luce e la sua misericordia. In essi dovrà essere presente non il Dio che gli uomini immaginano, potente e despota, ma il Dio che li ama, che si china su di loro per osservarli e tenerli per mano. Così è stato Gesù stesso, così dovranno essere tutti quelli che sono consacrati a lui. La verità infatti è il manifestarsi del Dio nascosto per tutti, è la possibilità di vedere il suo amore presente ovunque, anche in quei fatti in cui noi uomini non riusciamo a vederlo se non con l’aiuto del suo Spirito. Gesù è la verità, proprio perché egli vive l’amore perfetto, l’amore divino: chi vede lui infatti vede il Padre. I discepoli, se consacrati nella verità, saranno essi stessi rivelazione dell’amore del Padre. Gesù aggiunge: “La tua parola è verità”. La Parola del Padre è tutto ciò che l’amore del Padre comunica agli uomini, tutto ciò che manifesta la sua misericordia e la sua volontà di salvarli e di santificarli. Parola del Padre è lui stesso, Gesù, che ci dona tutto l’amore che il Padre vuole comunicarci e riversare in noi per trasformarci in suo tempio, luogo della sua presenza. La preghiera di Gesù vuole ottenere dal Padre perciò una piena comunione dei discepoli con sè!                                  torna su

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“Come tu mi hai mandato nel mondo, anch'io li ho mandati nel mondo”. I discepoli sono uniti a Gesù non solo perché consacrati, cioè donati a lui, ma anche perché condividono la sua missione nel mondo. Così egli li vede e così li descrive nel suo pregare. “Come tu mi hai mandato nel mondo, anch'io li ho mandati nel mondo”: Gesù sta pensando a quanto avverrà il giorno della sua Risurrezione e il giorno della sua Ascensione al cielo. Egli dirà loro: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” e “Andate in tutto il mondo…”. Adesso egli parla al Padre come se questo fosse già avvenuto. Egli sa di essere nel mondo non di propria iniziativa, ma perché inviato dall’amore di Dio. Dio ama lui e Dio ama il mondo, e questo doppio amore si incontra e si compie nell’inviare il Figlio. Il Figlio in tal modo viene glorificato, può cioè esprimere e manifestare la pienezza dell’amore divino verso gli uomini: egli non può ricevere un amore più grande di questo. E il mondo pure non può essere amato di più da Dio che ricevendo il Figlio. La presenza del Figlio di Dio nel mondo rende il mondo stesso luogo desiderabile, luogo “santo”. Gesù imita il Padre e manda le persone maggiormente amate da lui, ad essere presenti nel mondo con l’ amore e la sapienza di cui li ha investiti. I discepoli avranno occasione di vivere un amore pieno, divino. Il mondo con la sua inimicizia e la sua povertà darà loro occasione di esercitare un amore grande e forte, un amore che non si lascia distrarre nè fermare da nulla, perché ha le sue radici nell’amore stesso del Padre. Quando vedo persone disprezzate per la loro fede, o persino perseguitate e uccise, non posso che pensare a questa Parola di Gesù e altre simili. In queste occasioni egli non dice di lamentarsi, anzi: “Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli ”. Quando Gesù dice al Padre che ha mandato i discepoli nel mondo è come chiedesse implicitamente per loro protezione e forza e, naturalmente, grande frutto alla loro missione.                                  torna su

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“Per loro io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità”. Questa è la frase più significativa della preghiera di Gesù. Ora sappiamo che il suo pregare non è fatto di parole, bensì di dono. La preghiera di Gesù consiste nell’offerta della propria vita. Tra poco, nell’Orto degli Ulivi, infatti, durante la sua agonia, egli dirà: “Padre, non la mia volontà, ma la tua sia fatta”. Gesù “consacra” se stesso, cioè si offre, si dona ad essere immolato come i sacrifici che venivano offerti sull’altare di pietra del tempio di Gerusalemme. Egli si fa sacrificio. E il sacrificio viene immolato. Egli si offre a diventare vittima “per loro”. I sacrifici, nel Tempio, venivano offerti o per tutto il popolo o per qualcuno in particolare. Gesù formula l’intenzione dell’offerta di se stesso per i discepoli. E per essi non chiede soltanto il perdono dei peccati o l’espiazione di colpe, come si intendeva con l’offerta dei sacrifici di animali, ma che anch’essi siano consacrati, e lo siano nella verità. Essi devono perciò accompagnarlo sempre. Anch’essi saranno offerti al Padre. Anch’essi dovranno diventare amore, dono dell’amore di Dio al mondo, per rivelare ad esso la sua paternità. Anche il loro amore sarà immolazione, come quello del loro Signore. Noi impariamo qui a pregare, impariamo che la nostra vera preghiera, quella gradita al Padre, non sono le belle parole, i bei canti, le devozioni devote! È preghiera l’offerta di sè. Per questo chi prega davvero diventa disponibile, distaccato da se stesso, privo di interessi personali, libero da desideri per la propria gloria o per la propria comodità. Poco prima Gesù aveva chiesto al Padre di consacrare i suoi nella verità, ora offre se stesso per questo. Egli sa che la preghiera non riceve forza, come ho detto, dall’offrire belle parole, ma dal dono di sè. A lui preme tanto la consacrazione dei discepoli che per questo offre la propria vita. Essi saranno “consacrati nella verità”, cioè offerti a Dio in modo da diventarne rivelatori, da mettere in luce il suo grande amore.                                  torna su

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“Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa”. La preghiera di Gesù è la preghiera più importante, la più vera, la più accolta dal Padre. È la preghiera del Figlio amato, la preghiera dell’umile, la preghiera priva di sfumature egoistiche. Egli ora ci assicura che non vuole limitare l’efficacia del suo pregare ai discepoli allora presenti, ma vuole che raggiunga tutti quelli che anche in futuro si affideranno a lui “per la loro parola”. Coloro che credono per aver udito la Parola degli apostoli, questi sono amati da Gesù. La parola degli apostoli è perciò molto importante, o meglio, gli apostoli sono molto importanti, perché dal loro annuncio dipende la fede e quindi la salvezza di molti. Noi godiamo di questa affermazione che il Signore pronuncia davanti al Padre. Egli ci assicura che eravamo anche noi presenti al suo cuore. Gesù dunque ha pregato per me, ha pregato per la nostra comunità. A questo punto ci dobbiamo chiedere che cosa faceva Gesù, cioè in cosa consistesse il suo pregare, e poi che cosa desiderava per noi. Quando Gesù dice “prego” intende il suo offrirsi a realizzare la volontà del Padre, il suo sottomettere eventuali propri desideri ai progetti di Dio, essere disponibile a lui, anche a costo di morire, come succederà poche ore dopo. Per noi dunque Gesù si rende disponibile a morire in croce. E per noi cosa desidera? Se dice che prega per noi non significa che chiede al Padre ciò che piace a noi, che realizza i nostri sogni e accarezza il nostro egoismo per accontentare i desideri che la vita in questo mondo fa sorgere in noi. Egli prega perché si realizzi anche in noi, come in lui, la volontà di Dio. Dio deve poter risplendere anche nella nostra vita, nella vita di ciascuno e nella nostra vita sociale. Ecco il desiderio che Gesù mette davanti al Padre, desiderio che certamente è condiviso dal Padre stesso: “tutti siano una sola cosa”. Aveva già espresso questo desiderio, e lo farà ancora, perché è troppo importante. L’essere “una sola cosa” è così importante per Gesù, che non pensa nemmeno di chiedere che i suoi discepoli abbiano una vita lunga o una esistenza felice. È solo l’essere “una sola cosa” gloria di Dio! Nell’essere una sola cosa si manifesta la vita di Dio, il suo amore fatto di fiducia e di obbedienza. Padre e Figlio sono una sola cosa, vivono un amore manifestato e reso visibile e percepibile dallo Spirito Santo. Quando, nel nome di Gesù, i discepoli saranno “una sola cosa” faranno gustare al mondo la bellezza e la sapienza di Dio, saranno sua manifestazione e sua profezia, saranno benedizione per tutti gli ambienti in cui si troveranno a vivere!                                  torna su

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“Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato”. Gesù continua a esprimere al Padre il suo desiderio, ne ha uno solo per i discepoli presenti e per quelli futuri. Questo desiderio lo formula in maniera completa. Ciò non sarebbe necessario per il Padre, che conosce allo stesso modo del Figlio le necessità degli uomini, ma Gesù sa che è utile e necessario per i discepoli stessi. Essi devono sapere quali pensieri e desideri coltivare per essere uniti a lui, per essere graditi al Padre, così sapranno discernere pure le grandi tentazioni che verranno ad opprimerli e farli cadere o farli tornare ad essere del mondo. I discepoli devono conoscere ciò che preme al loro Signore per essere veri discepoli ed essere uniti a lui nel profondo del cuore. Essi poi dovranno non solo attendere che Dio realizzi la sua volontà, ma adoperare tutte le forze e tutte le possibilità perché quella volontà diventi realtà quotidiana. Egli quindi esplicita quanto ha già detto. Vuole che i discepoli siano una cosa sola, ma come? “Come tu, Padre, sei in me e io in te”, ecco l’immagine perfetta cui riferirsi, da tener presente. È esigente Gesù. È coraggioso. Se queste parole non fossero uscite dalla sua bocca, nessun uomo si sarebbe mai sognato non solo di pronunciarle, ma nemmeno di pensarle e di presentarle a Dio. La parola introduttiva, quel “come”, non intende esprimere solo un modello, ma anche una causa. Esso si potrebbe tradurre con “allo stesso modo”, ma anche “dal momento che”. Il Padre e Gesù sono l’uno nell’altro, senza confondersi, senza perdere la propria individualità e le proprie caratteristiche. Il Padre che è nei cieli è in Gesù qui sulla terra, e in lui realizza il suo amore verso gli uomini: Gesù si adegua a quell’amore, in tutto, fino alla fine, cioè fino a morire per esso. Gesù qui sulla terra è nel cuore del Padre, nei cieli, nel Padre che gode di lui, della sua obbedienza tanto da dargli tutta la sua fiducia e quindi tutto il suo “potere” d’amore. Dio, si potrebbe quasi dire, si sottomette al Figlio, cui consegna cose visibili e cose invisibili, terra e cielo, cioè persino la propria abitazione e il proprio regno.                                  torna su

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“Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato”. Dicevo che il termine “come” può anche essere reso con “dal momento che”. L’unità di Gesù con il Padre è il motivo per cui i discepoli devono essere una cosa sola. Se Padre e Figlio sono una cosa sola, non c’è nulla di meglio per gli uomini qui sulla terra che realizzare questa stessa forma di vita. Gesù ha pregato il Padre per l’unità dei suoi discepoli: gli uomini infatti non possono darsela da se stessi. In essi è troppo presente il peccato che divide e impedisce ogni vera comunione. Bisognerà prima di tutto che essi siano purificati, liberati da ogni idolatria, non solo da quella del denaro, ma anche da quelle del lavoro e della libertà, e da tutte le altre. Dato che Padre e Figlio sono l’uno nell’altro, senza invidia e senza gelosia, facendo a gara nell’ascoltarsi e nel darsi fiducia e obbedienza l’un l’altro, così saranno i discepoli di Gesù. Essi vivranno il modo di vivere di Dio, e così faranno risplendere la sua luce nel mondo. Come conseguenza il mondo crederà, crederà che Gesù è la verità, che Gesù è la via e la vita, crederanno che egli non è un uomo della terra, ma che viene dal Padre, da Dio, come dono per noi. Crederanno e saranno anch’essi uniti agli altri credenti, e così la Chiesa crescerà. Se nella Chiesa ora diminuisce il numero dei credenti, ciò è causato dalle profonde divisioni che hanno spezzato e rovinato la bellezza della Chiesa stessa, e anche dalla tiepidezza della fede di molti cristiani. Il primo modo per essere missionari del vangelo è l’accogliere e il cercare l’unità con gli altri credenti. La preghiera che Gesù ha rivolto e continua a rivolgere al Padre è quanto mai necessaria e attuale. Ad essa anche noi dobbiamo e vogliamo unire la nostra voce, chiedendo con insistenza che siamo una cosa sola, una cosa sola dentro l’unità già viva del Padre con il Figlio. Gesù dice infatti: “Siano anch'essi in noi una cosa sola”. È importante quell’ “in noi”, perché non cerchiamo forme di unità fasulle e inutili, e quindi illusorie e dannose. Senza unità con il Padre e con Gesù non può esserci unità vera e duratura con gli uomini. La prima cosa da cercare e da proporre è una profonda vita interiore, coltivata assiduamente con Gesù e con il Padre. Essa è dono dello Spirito Santo, ma è frutto pure di una fatica quotidiana del credente.                                  torna su

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“E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola”. Gesù continua a parlare al Padre dei suoi discepoli. Essi stanno ascoltando: che cosa capiscono? E noi, che cosa riusciamo a capire delle parole o, meglio, dei desideri di Gesù? Egli ha già parlato di gloria, di essere glorificato dal Padre. Adesso ci rivela che egli ha passato ai suoi discepoli la gloria ricevuta. Abbiamo già visto che la gloria è da intendere come la capacità o possibilità di essere rivelazione del volto e dell’amore del Padre. Gesù lo ha rivelato nella maniera più forte quando ha accolto di morire per i peccatori, e ciò avverrà poche ore dopo, quando si realizzerà quella volontà nell’orto degli ulivi e sul Calvario. Gesù non ha dono più grande da lasciare ai suoi discepoli: anch’essi diventeranno gloria di Dio, manifesteranno il suo amore perfetto, la sua misericordia, la sua bontà. Anche i discepoli perciò dovranno essere capaci di offrirsi, di rinnegare se stessi, di rinunciare alla propria volontà, di morire. È in tal modo che faranno risplendere nella propria vita l’amore del Padre, la misericordia di Dio, la sua fedeltà. E per questa strada essi stessi saranno “una cosa sola” a imitazione di Dio stesso, cioè del Padre e del Figlio. Come questi sono un solo amore, così i discepoli che rinunciano a se stessi per far risplendere la bellezza e la bontà di Dio diventano “una cosa sola”! Quando si fanno questi discorsi ai cristiani c’è sempre qualcuno che sostiene che queste considerazioni sono troppo alte per loro, e che bisogna limitarsi a proporle alle persone consacrate a Dio. Io allora mi chiedo se bisogna condannare i cristiani a nutrirsi sempre e solo di latte, se non sono mai capaci di digerire cibo solido (1Cor 3,2; Eb 5,12). Si impedisce loro di crescere, e si blocca il regno di Dio e si ferma l’edificazione della Chiesa come luogo ove si manifesta la bellezza e la grandezza di Dio attraverso la pienezza del suo amore! La pienezza dell’amore non si compie se non con l’imitazione di quello vissuto da Gesù e con la realizzazione tra noi della comunione da lui vissuta con il Padre. Chi conosce il Signore non può fermarsi a metà strada: lo deve continuare a seguire, progredendo nella sua vita interiore e nella somiglianza al Padre che è nei cieli!                                  torna su

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“Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me”. Gesù insiste ad esprimere al Padre il grande desiderio di vedere i suoi discepoli uniti. Egli vuole che tra di loro ci sia solo amore, amore fiducioso, amore ubbidiente, amore libero da ogni forma di egoismo. Per questo chiede al Padre di poter dimorare in loro allo stesso modo che in lui vive il Padre stesso. Non c’è nessuna gelosia in Gesù, perché l’amore vero non conosce gelosia. Chi ama desidera che tutti sappiano amare. Se lui, Gesù, vive nell’intimo di ciascun discepolo non ci sarà più alcun ostacolo alla loro unità reciproca: tutti i discepoli saranno un cuor solo e un’anima sola. Gesù osa chiedere al Padre per loro l’unità perfetta: ciascuno di loro non è e non sarà mai perfetto, sono infatti tutti fragili e peccatori. Ognuno dei suoi discepoli ha qualche difetto e ancora molta tiepidezza nell’amore e nella fede: tra poco infatti scapperanno tutti e non saranno ai piedi della croce a partecipare al suo dolore. Nonostante essi siano così fragili, tuttavia la loro unità può essere un dono perfetto del Padre: essi potranno vivere obbedienti gli uni gli altri e potranno aver fiducia l’uno dell’altro. La loro unità sarà uno spiraglio su quella vita che non è conosciuta a questo mondo dagli uomini, ma solo in cielo, dal Padre e dal Figlio. Il mondo, che non vuol sentir parlare di Dio, e di un Dio amore, sarà in grado così di vedere ciò che non vuol conoscere, e rimarrà confuso. La vita che ognuno potrà vedere avrà un impatto sul cuore di chi non crede. Chi vede Gesù, amato dai suoi discepoli fino al punto da obbedirsi l’un l’altro, dovrà riconoscere che Gesù non è un uomo soltanto, ma il vero Dio che viene da Dio, da un Dio capace di amare persino i peccatori. Chi vede i discepoli uniti vede in essi lo stesso amore divino che unisce il Padre a Gesù. Grazie a questa unità, realizzata tutta e soltanto nella fede, i discepoli sono missionari: essi portano cioè nel mondo l’annuncio, fatto immagine ed esperienza tangibile, dell’unico vero Dio. Quel Dio che vive in se stesso relazioni d’amore, attraverso i discepoli di Gesù diffonde ed effonde la propria luce ed il calore del proprio amore in questo nostro mondo, dove regna sempre il divisore. Grazie ad essi ognuno può venire illuminato e salvato.                                  torna su

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“Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo.” Gesù ha tanlta confidenza con il Padre, che non solo chiede, bensì esige di essere da lui esaudito. È molto forte quel “voglio” rivolto a Dio. Egli che, nel Getsèmani, rinuncerà a veder passare da sè il calice amaro della passione, qui ora «vuole» essere ascoltato. I discepoli li vuole con sè: non lo dice a loro, perché essi, ancora orgogliosi e incapaci di vegliare, non hanno la capacità di rimanere con lui. Lo dice al Padre: questi, cui nulla è impossibile, può restituire i discepoli a Gesù, dopo che saranno fuggiti e l’avranno abbandonato.

“Voglio che siano con me dove sono io”: dov’è lui? Possiamo dare varie risposte a questa domanda: Gesù è nel cuore del Padre, Gesù è nella sofferenza dell’agonia, in quella del rifiuto da parte degli uomini, Gesù è sulla croce, Gesù è nella vita nuova al di là e al di sopra del tempo e della terra, Gesù è sul trono per giudicare i popoli. Egli vuole che i discepoli siano con lui: noi quindi ci disponiamo ad essere messi da Dio stesso in situazioni di sofferenza e in situazioni di vita nuova, diversa da quella prospettata dal mondo e da quella vissuta finora. In queste situazioni potremo “contemplare” la gloria di Gesù. Questa, già lo sappiamo, è la condizione nella quale egli vive la pienezza dell’amore del Padre. È nelle situazioni di sofferenza che anche noi possiamo vivere un amore grande, un vero amore disinteressato. È vivendo nella fede che possiamo donare un amore completamente gratuito, anche se riceviamo ingratitudine. È guardando il mondo con la luce della Parola di Gesù, e quindi con un discernimento e un giudizio spirituali, che riusciamo a gustare la bellezza e la novità della Esaltazione del Signore. La nostra contemplazione della gloria non è solo un vedere con gli occhi, ma lo sperimentare con la vita: vediamo dal di dentro, vivendo anche noi la stessa dimensione di amore che vive lui. Gusteremo l’eternità di Dio!                                  torna su

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“Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato”. Ora Gesù chiama il Padre “giusto”. Giusto, riferito agli uomini, è colui che compie il volere del Padre, che realizza i suoi disegni. Questo stesso titolo rivolto a Dio significa che egli stesso mantiene le sue promesse, realizza la sua Parola, è fedele al proprio amore per le sue creature. Fa parte di questa fedeltà anche il riconoscere l’obbedienza a lui come il massimo bene e la disobbedienza come un male: la giustizia di Dio quindi è il bene più grande per coloro che lo amano ed è timore e terrore per chi non gli ha obbedito o non gli vuole obbedire. Il Signore ora confida al Padre il suo dolore più grande e la sua gioia più profonda: “Il mondo non ti ha conosciuto”, mentre invece “Io ti ho conosciuto”. Non c’è gioia più grande che l’essere in comunione con il Padre, cioè essere partecipe del suo amore infinito. Gesù ha conosciuto e conosce il Padre in quanto condivide i suoi stessi desideri, vuole la salvezza di tutti gli uomini, si dispone a realizzare ogni suo cenno. D’altra parte non c’è dolore più pesante che vedere qualcuno incapace di apprezzare l’amore di Dio e di condividerlo. Con queste persone è impossibile ogni forma di comunione e di comprensione. Per esse i credenti sono estranei, e con loro i credenti non riescono ad avere punti di contatto sereni e lieti. Chi non “conosce” il Padre è “mondo”, cioè bisognoso di tutto, bisognoso della salvezza, della luce, della pace, della dimensione vera ed eterna della vita stessa. Il Padre ha amato “il mondo” da mandare il Figlio perché esso sia salvato per mezzo di lui (Gv 3,16s). Il mondo non ha conosciuto il Padre perché non ha voluto accogliere e quindi conoscere il Figlio. Fino a che non “conoscerà” il Figlio, il mondo è senza speranza, rimane nella situazione di condanna in cui è caduto Adamo con il suo peccato. Il mondo si trova in un vicolo cieco, senza futuro. Gesù però non è del tutto solo nel “mondo”, perché ci sono i discepoli che hanno cominciato a conoscerlo: hanno creduto infatti che viene da Dio. Chi comincia a credere in Gesù la sua salvezza è iniziata!                                  torna su

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“Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato”. Il mondo non è in comunione nè con Gesù nè con il Padre, ma nemmeno può esserlo con noi, che siamo discepoli di Gesù e sappiamo di essere figli del Padre. Questo lo dice pure san Giovanni nella sua prima lettera: “Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui” (3,1). Noi credenti, senza dimenticare la nostra missione di amare tutti e di donare la vita per tutti, dobbiamo essere sempre vigilanti. Amare tutti non significa sottometterci ai modi di pensare o di agire da cui siamo circondati. Amare significa sempre donare l’amore di Dio, e quindi anche il modo di vedere e di pensare di Dio, cioè del Padre e di Gesù! È proprio perché vogliamo che il nostro amore sia qualificato, cioè ispirato sempre dallo Spirito Santo, che veniamo a trovarci in conflitto con il mondo, con chi cioè non crede e non è guidato dallo Spirito Santo di Dio.

“Il mondo non ci conosce”: è inutile lamentarci perché la Chiesa è osteggiata, continuamente spiata, odiata e persino calunniata. Chi non ama Gesù, e non crede che Dio è Padre per tutti, non può comprendere i nostri modi di vedere e di pensare. È difficile condividere le regole della nostra vita di figli di Dio e di fratelli, è impossibile condividere le regole dell’amore disinteressato e dell’amore che perdona. Credere in Dio infatti comporta imitarlo, osservando i suggerimenti della sua sapienza. Non ci meravigliamo quindi delle difficoltà che incontriamo a causa della nostra fede e del nostro attaccamento al Signore. Gesù stesso ce le ha preannunciate e ci dà la forza per viverci dentro “come agnelli in mezzo a lupi”. Noi, anche per amare il mondo, amiamo Dio osservando i suoi comandi, e così la nostra conoscenza di lui si approfondisce. Infatti «Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: "Lo conosco", e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c'è la verità. Chi invece osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto. Da questo conosciamo di essere in lui» (1Gv 2,3-5).                                    torna su

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“Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato”. Continuo a custodire questa Parola: deve essere molto importante, se Gesù stesso molte volte è ritornato a questo pensiero. All’inizio della preghiera aveva detto: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo”. Conoscere il Padre e conoscere Gesù è vita e fonte di vita. Chi non conosce Gesù e, quindi, non sa che Dio ci è Padre, non vive, è senza futuro oltre la morte e, se non è superficiale, cade nella disperazione o deve far tacere il proprio cuore e i propri desideri di eternità. Chi non conosce Dio e il Figlio suo Gesù cerca solo le possibilità di salvare se stesso e dimentica quindi la bellezza e la forza del vero amore. L’apostolo Giovanni infatti scrive: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,7-8). Sono parole che ci fanno comprendere come persino l’amore che viviamo tra noi dipende dalla conoscenza di Dio. Guardandoci attorno vediamo infatti che chi non conosce Gesù e non vuole vedere il luogo della sua morte, cioè la sua croce, non riesce ad amare. Chi prende sul serio la conoscenza di Dio che ci è presentata dalla vita e dalla morte del Signore, vuole senz’altro immedesimarsi in lui e perciò offre se stesso in atti d’amore piccoli e grandi. Nessuna iniziativa di amore fedele sarebbe stata costruita o iniziata nella storia se non sostenuta dalla conoscenza del nostro Dio, Padre e Figlio. I piccoli gesti di amore, che costano molto sacrificio all’interno delle nostre famiglie, le realizzazioni che impegnano molte persone in organismi dedicati ai piccoli, ai poveri, agli ammalati, alle persone non autosufficienti, e quelle iniziative che impegnano per qualche ora o per tutta la vita, non starebbero in piedi se non perché sappiamo qual è il «pensiero» di Dio e ne conosciamo l’amore. La conoscenza del nostro Dio è fonte di amore paziente e premuroso, gratuito e rinnovante, fedele e sempre nuovo. Per questo Gesù gode che i suoi discepoli abbiano già cominciato a conoscere la sua obbedienza al Padre!                       torna su

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“E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro”. Questa preghiera Gesù l’ha già rivolta al Padre: qui ora, mentre sta per terminare, la ripete. Per lui è molto importante che i discepoli conoscano il Padre e continuino a conoscerlo. Egli si impegna davanti a lui a far conoscere il suo nome, cioè la sua vera identità, la pienezza e la perfezione del suo amore. Gesù, il Figlio, è ancora e sarà sempre impegnato a rivelarci il volto del Padre suo, che anche noi chiamiamo Padre. Un giorno aveva detto che soltanto il Figlio può farci conoscere il Padre, perché solo lui lo conosce con quella intimità di vita e di intenti necessaria ad una profonda e vera conoscenza. Ogni volta che noi ci avviciniamo a Gesù, che pensiamo a lui e lo preghiamo, egli ci introduce nel mistero dell’amore del Padre. Questo è necessario per noi, per una nostra crescita, per la nostra maturazione, per la nostra libertà interiore e per renderci capaci di relazioni sane e risananti. Il Signore ora dice anche la motivazione profonda di questo suo impegno di farci conoscere il Padre: “perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro”. Gesù continua a vedere come traguardo della sua vita e della sua missione la nostra trasformazione, quasi la nostra immersione in Dio, cioè nel suo amore. La nostra vita cristiana inizia proprio con il battesimo, l’immersione cioè nella vita trinitaria, che equivale a dire nell’amore vissuto dal Padre verso il Figlio. Con quel rito inizia un cammino che terminerà solo quando saremo avvolti e riempiti dall’amore del Padre, quell’amore, dice adesso Gesù, “con il quale mi hai amato”. Tutto il nostro impegno di vita di fede, la nostra preghiera, ogni partecipazione ai sacramenti della Chiesa, ogni nostro gesto di carità, ogni nostra mortificazione, ogni fatica a portare le nostre croci quotidiane, tutto ha lo scopo di far maturare in noi l’amore che il Padre ha per il Figlio. Questo è ciò che Gesù chiede al Padre: è la nostra divinizzazione. Se in noi c’è l’amore del Padre per Gesù, è in noi la sua vita ed è in noi il Figlio stesso. L’essere figli di Dio non può essere più vero e più intenso che in questo modo, anzi, solo in questo modo siamo veramente figli di Dio.          torna su

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Abbiamo terminato di leggere la preghiera di Gesù, preghiera detta comunemente “sacerdotale”: si sentono aiutati da queste parole di Gesù in particolare i sacerdoti. Evidentemente Gesù non pensava solo a loro, ma a tutti i battezzati, a tutti quelli che credono in lui, perché egli è il salvatore di tutto il mondo. Noi siamo anzitutto contenti che Gesù abbia pregato, e che nella sua preghiera noi eravamo presenti. Egli ha chiesto al Padre di custodirci dal Maligno, di renderci utili al suo Regno, di donarci unità con lui e tra noi affinché la nostra vita sia occasione e stimolo a credere in lui per quanti ancora non hanno fede. Infine egli ha chiesto al Padre che in noi sia presente il suo stesso amore: in questo modo la nostra vita e quella di Dio diventano un tutt’uno. Siamo contenti di questa preghiera, ma siamo anche attenti a non fare nulla contro quei desideri che in essa Gesù ha espresso. Questa preghiera ci aiuta ad essere contemplativi, a tenere d’occhio il volto e il cuore del nostro Dio. La nostra vita di credenti non dev’essere anzitutto una tensione ad evitare il peccato, ma un vivo desiderio ad unirci al nostro Dio, ad essere come lui è: egli è una sorgente di amore, di un amore che continua a donarsi anche a costo di morire. Osservandolo lo imiteremo: infatti, vedendolo diventeremo simili a lui. Il peccato starà lontano da noi, se ci trova impegnati ad avvicinarci sempre a Gesù, e con lui al Padre.

Rileggendo questa preghiera del Signore godremo anche del fatto che essa è già stata esaudita moltissime volte e in moltissimi modi. Ne saremmo coscienti se guardassimo alla storia della Chiesa alla luce di queste parole e dei desideri profondi che esse esprimono. Anche nella mia vita posso riscontrare che Gesù è stato esaudito dal Padre. Con gioia perciò mi unisco al Signore per continuare questa sua preghiera coltivando i suoi stessi desideri.

Nihil obstat: P.Modesto Sartori, ofm capp., Cens. Eccl., Trento, 18/7/2011         torna su