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Io sono il Dio di...

Io sono il Dio di…

 

«Io sono il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» (Mt 22,32)

 

Figure bibliche per incontrare il nostro Dio

 

Dio, il nostro Dio, ha voluto esser definito e conosciuto con i nomi degli uomini. Lo chiamiamo perciò il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Lo possiamo conoscere attraverso l'esperienza di fede che i tre patriarchi hanno avuto con Lui. Non c'è un Dio astratto che noi possiamo incontrare col pensiero, col nostro ragionare: lo possiamo incontrare solo nella vita, e nella vita concreta dei suoi santi. Ai tre nomi ricordati dobbiamo aggiungerne molti altri, ma soprattutto il Nome di Gesù: Dio è il Padre del nostro Signore Gesù Cristo.

Guardiamo alcune figure di uomini a cui il nostro Dio è stato particolarmente presente o di cui si è servito per farsi conoscere. Essi non sono più grandi di Gesù, ma – essendone figura e facendo parte della sua storia - possono aiutarci a comprendere qualche aspetto del rapporto con Dio che in Lui diamo troppo per scontato.

don Vigilio Covi

 

1. ADAMO: l'uomo amico di Dio

2. ABELE: l'uomo fratello dell'uomo

Seconda parte

3. NOÈ: l'uomo integro

4. ABRAMO: l'uomo chiamato

5. ISACCO: l'uomo donato

6. GIACOBBE: l'uomo provato

Terza parte

7. GIUDA: l'uomo redento

8. GIUSEPPE: l'uomo predestinato

9. MOS'E: l'uomo mandato

 

1. ADAMO: l'uomo amico di Dio

Non ho scelto il personaggio adatto per vedere l'amicizia che l'uomo può sviluppare con Dio. Adamo infatti è l'uomo che non è stato capace di rispondere all'amicizia di Dio: così l'uomo non è capace e tradisce l'amicizia, ma Dio rimane fedele. Ed è in questo appunto che può rivelarsi in maniera inequivocabile invece che l'amicizia da parte di Dio è vera.

Ho scelto Adamo anche per un altro motivo: egli non è un personaggio storico, egli è ogni essere umano. Sono io Adamo, sei tu. Adamo è semplicemente l'uomo.

L'uomo esiste come interlocutore di Dio. li Creatore ha scelto e creato l'uomo perché fosse suo collaboratore, suo rappresentante nella creazione. Sarà l'uomo capace di rallegrare o rattristare il cuore di Dio. Dio lo ama, lo copre di fiducia, gli dà responsabilità, lo istruisce sui pericoli, lo fa decidere in maniera autonoma, dà valore a quanto egli fa, gli offre possibilità di vita in comunione. Possiamo affermare che Dio tratta l'uomo da amico, tanta è la fiducia e la stima di cui lo riempie. Vorrei ripeterlo centinaia di volte: Dio è amico dell'uomo! Vorrei ripeterlo perché la necessità è immensa. L'uomo infatti ha dimenticato questa realtà, proprio come è detto di Adamo. L'uomo non è capace di scegliere Dio come amico, pur avendo ricevuto prova della sua amicizia.

Nel cuore di Adamo nasce gelosia, immotivata. Egli interpreta un atto di amore come una difesa. Dio ha detto: «Non devi mangiare dell'albero della conoscenza del bene e del male» e Adamo si lascia dominare da pensieri negativi: ecco, Dio ha qualcosa da difendere; Adamo in tal modo non vede più l'amore, non vede più Dio come amico. Non lo stima più, non lo ascolta più, fugge la possibilità di incontrarlo. La colpa di tutto questo? Non è colpa di Dio! Anzi Dio continua ad essere amico di Adamo, dell'uomo diffidente, geloso, ribelle, rosso di vergogna. Dio lo cerca, non per sgridarlo, non per rinfacciargli il sospetto e la disobbedienza, ma per mostrargli ancora il proprio amore, la fedeltà della propria amicizia. «Dove sei?». E' la domanda dell'amico che vuole ancora vedere l'amico, incontrare il suo sguardo, vederne le necessità, toglierlo dalla solitudine e dall'amarezza. «Dove sei?» è la domanda dell'amore.

Dio non chiede: «cos'hai fatto?» «Perché?», ma soltanto «dove sei ora?». Dio vuole incontrare l'uomo che ha lasciato entrare giudizio e accusa e negatività nel cuore. Solo Lui ha la possibilità di rimediare, di togliere il male e di riempire il vuoto con la capacità di rispondere con amore all'amore. L'uomo si nasconde, manifestando così la nostra infedeltà. E Dio non ritira i compiti, non ritira la fiducia data: solo rivela che i compiti dell'uomo saranno per lui l'occasione di fatica e di lacrime: invidia e gelosia e negatività creano pesantezze e infelicità nell'uomo: esse rivelano un orientamento di vita da cui è stato escluso l'amore, il dono di sé, per accogliere la pretesa e la vanagloria.

E' stato escluso l'ascolto ubbidiente come segno d'amore per accogliere l'indipendenza come fosse progresso.

Adamo non si dimostra amico di Dio. E' Dio che si dimostra amico dell'uomo!

Dio inizia subito un cammino lungo e difficile per farsi accogliere come amico dall'uomo che lo vede come nemico.

Il cammino lento di Dio viene arricchito di doni, di salvezze, di «castighi», perché l'uomo s'accorga che può fidarsi di Lui pienamente, ciecamente.

Talvolta Dio riesce a formarsi qualche cuore aperto, disponibile all'amicizia disinteressata. Abramo è uno di questi amici che non si nasconde, ma «esce» per incontrare Dio e ascoltare la sua voce.

Mosè pure è un amico, formato all'amicizia di Dio da sofferenze, delusioni e richieste inaspettate cui tentava con forza di sottrarsi. Ma una volta acquisita e accolta l'amicizia di Dio all'uomo, Mosè la vive con coraggio, fino a giungere a richiamare a Dio stesso l'impegno della fedeltà!

Samuele, Elia, Eliseo e molti altri vissero coscienti che Dio non è nemico dell'uomo: questa è la tentazione ricorrente da Adamo ad oggi. Solo la presenza di persone votate a Dio può sfatare questa visuale menzognera e negativa. Ma ogni uomo, anche il più perfetto, ha conosciuto e conosce momenti di dubbio e di infedeltà: Elia stesso e persino Mosè ebbero momenti di sconforto e sfiducia. Noi non ce ne meravigliamo certamente, ma sentiamo il bisogno di un vero amico di Dio, nel quale la benevolenza divina sia accolta totalmente e perciò l'amicizia umana verso Dio sia vissuta pienamente: un nuovo Adamo. Quest'uomo è Gesù.

In Lui, nella sua storia, contempliamo non solo l'amicizia di Dio per lui personalmente, ma anche l'amicizia di Dio per tutti, per me, per te. Dio ha così apprezzato l'amicizia di Gesù da arrivare a chiedergli persino di morire per realizzare l'amore per tutti gli altri uomini. Dio ha «sentito» che l'amicizia dell'uomo Gesù per Lui era così grande da essere un tutt'uno con la propria amicizia a tutto il mondo.

Dio ha tanto amato il mondo, gli è stato tanto amico, da consegnare il suo Figlio. E il Figlio è stato tanto amico del Padre da offrirsi alla sua Volontà e da mostrare con gesti, parole, mansuetudine e perdono, l'amicizia di Dio agli uomini.

Gesù è colui in cui l'amicizia di Dio verso l'uomo coincide con quella dell'uomo verso Dio. Egli è l'unico Adamo. A Lui devo guardare per vedere chi sono io, o meglio, chi sarò io quando sarò diventato uomo in pienezza.

A Lui guardo per vedere dove può giungere la mia statura, per vedere la méta del mio crescere e svilupparmi, uscendo dall'età infantile nella quale mi trovo immerso, l'età di chi non sa parlare, di chi non sa dire la parola comprensibile, quella dell'amore. Gesù mi mostra la vera giovinezza e me la fa raggiungere quando avrò imparato a dire con Lui: «ecco, io vengo». Questa è la parola del Figlio amico di Dio. Eccomi, per vivere la tua Parola.

Fuori dall'infanzia trovo la vera e matura figliolanza. Come Maria, come molti uomini peccatori discendenti di Adamo, così anch'io. Da quella statura che presumevo aver raggiunto nella indipendenza di Dio, ma era solo illusione poggiata sul piedistallo dell'orgoglio, sono salito ad essere bambino che dice: eccomi, sono il tuo servo, Signore. E mi sono ritrovato suo amico, trattato da amico, capace di amicizia con il mio Dio, Dio dell'universo.

Posso uscire ad accompagnare il mio Dio che «passeggia nel giardino», senza vergogna. Il mio peccato non ha fatto arrossire il mio Dio, anzi, lo ha mosso a tenerezza e compassione.

Perciò nemmeno io devo lasciarmi dominare dal peccato per allontanarmi da Lui con vergogna, anzi; doppiamente mi sento amato dopo il mio peccato. Egli ha amato un ribelle: la sua amicizia per me è provata, ha superato la prova più brutta, quella del tradimento. Io lo vedo questo amore di Dio per me, lo contemplo sul Calvario.

Là Gesù si offre al Padre, là il Padre offre al mio sguardo la sua sofferenza. Là il mio cuore è toccato e riesce a stento a mormorare: - è vero, o Dio, che tu non sei nemico dell'uomo; Tu sei il mio amico per sempre.

Metti in me un cuore capace di rispondere, perché anche la mia vita diventi annuncio e testimonianza che Tu sei amante degli uomini, perché nessuno più abbia paura di te, perché tutti ti cerchino per obbedire alla tua voce.

Gesù, Tu chiami amici coloro che stanno con Te e ti trattano da maestro e Signore. Li chiami amici! Perché? Tu e il Padre siete uno. Tu dai loro i segreti del Padre. Essi, mettendosi nella tua obbedienza sono entrati nel cuore dell'amicizia di Dio agli uomini e riempiono il vuoto della risposta dell'uomo a Dio.

Gesù, amicizia di Dio all’uomo, Tu esprimi pure la mia volontà di essere amico di Dio, e la porti a compimento.

 

2. ABELE: l'uomo fratello dell'uomo

Adamo ed Eva, come tutti i genitori, ricevono come una sorpresa i loro figli. Una sorpresa sorprendente, perché si accorgono di non essere gli artefici della loro vita, ma di averla solo ricevuta, custodita, e presentata al mondo, data alla luce.

Si accorgono di essere collaboratori «inconsapevoli» di Dio, datore della vita. La sapienza e la forza e la capacità di plasmare è tutta sua. Essi possono dire soltanto: «ho acquistato un uomo dal Signore». E questi è «Caino». Vedendoselo sulle braccia sperimentano che Dio non li ha puniti per il loro peccato, li adopera invece come strumenti nel suo creare.

L'esperienza di questo bimbo sulle proprie braccia, così indifeso e bisognoso di attenzioni di giorno e di notte, fa' sì che al prossimo figlio diano il nome «Abele», cioè «soffio»!

Sì, un soffio è l'uomo. E' così instabile e fragile, così piccolo che, benché venga da Dio e sia dono e immagine di Dio, non può contare su se stesso. L'uomo ha «consistenza» solo tanto quanto è poggiato su Dio, tanto quanto gode della stabilità di Dio.

L'uomo è sempre e solo soffio: esiste fin tanto che una bocca lo sostiene. La bocca che sostiene la vita dell'uomo - soffio -, Abele, è solo e sempre la bocca di Dio. L'uomo esiste in quanto è in riferimento a Dio. Se volesse esistere «in proprio» non sarebbe più uomo, sarebbe solo uno «stolto». Abele, l'uomo debole, instabile, insicuro, ha la stessa origine di Caino. Viene da Dio attraverso gli uomini.

Di Caino vanno fieri i genitori: il primo figlio ha suscitato in loro la meraviglia, ha dato loro fiducia e coscienza d'essere importanti per Dio e per l'uomo. L'altro, Abele, è il fratello.

Caino non è più solo: ora è fratello.

Colui che sa di poter contare su Dio, sulla sua forza e sapienza, ha un fratello che è soffio, che è indifeso e povero.

I due fratelli vengono descritti nella Bibbia come se vivessero oggi: uno è lavoratore del suolo, può costruirsi case e circondarsi di mura di difesa, coltivare piante, sentirsi qualcuno. L'altro è pastore, nomade: ciò lo rende indifeso, povero, privo di rapporti sociali stabili, con tutte le conseguenze.

Nonostante le diversità enormi, questi è fratello dell'altro!

Il nome di fratello sta sempre accanto al nome di Abele, mai a Caino.

Questi può sentirsi di più, ma l'altro è suo fratello.

Questi può essere più intelligente, ma l'altro è suo fratello. Questi può sentirsi sicuro di sé, ma l'altro è suo fratello. Sembra che il racconto di questi due figli di Adamo sia stato narrato e scritto per chi è forte, per chi si sente protagonista nella società, per chi crede di essere almeno un po' padrone del mondo. L'altro, il misero, è suo fratello!

Caino sa d'essere il primo. Così lo hanno accolto i suoi genitori, come il primo. Non accetta il secondo posto. Gli uomini non glielo danno, né mai si sognerebbero di proporglielo. Dio è libero dalle attese dell'uomo. Dio può dargli il secondo posto.

Proprio quando tutt'è due offrono qualcosa della propria vita, proprio allora si manifesta che l'attenzione di Dio è per il più debole, per il più ignorante e indifeso, per il secondo.

Perché? Già il domandarmi il perché è mettermi davanti a Dio in maniera diversa che da figlio. Ciò che Dio fa io devo fare, ciò che Dio fa io devo apprezzare, ammirare, lodare e benedire. E per quanto mi può essere possibile, collaborare.

Dio sceglie: io ammiro la scelta e imparo a scegliere. Imparo a scegliere il debole, che ha Dio come unico appoggio. Caino potrebbe essere contento ed entusiasta che il sacrificio di suo fratello sia stato accolto e gradito da Dio. Avrebbe potuto unirsi al fratello, alla sua offerta e al suo grazie. Avrebbe potuto imparare dal fratello. Anzi, vedendo lo sguardo di Dio posato con compiacenza sul fratello, avrebbe dovuto anche lui compiacersi del proprio fratello, imparando da Dio.

Abele avrebbe potuto essere una benedizione anche per lui.

Caino invece, come già Adamo verso Dio, si lascia incatenare dall'invidia verso il fratello. Adamo aveva eliminato Dio nascondendosi, Caino elimina il fratello uccidendolo. Non'Io vede come amico che gli può insegnare la via di Dio, lo ritiene invece un nemico. Un nemico che non fa nulla di male. Un nemico che è solo fratello.

«Andiamo in campagna». Caino conduce il fratello sulla propria terra, dove si sente padrone, e lo uccide. Il fratello non c'è più, non ci sarà più il sacrificio gradito a Dio.

Ma proprio questo sacrificio nuovo, il fratello che muore per mano dell'uomo fratello, il fratello che muore a causa del gradimento di Dio, diviene figura del vero ed unico sacrificio che rende l'uomo fratello vero dell'uomo.

L'uomo che si lascia uccidere dal fratello, piuttosto che smettere d'esser fratello, è il vero fratello.

Sto già parlando di Gesù, nuovo Abele. Gesù, venuto dal soffio di Dio, fratello per tutti i figli d'uomo, accetta coscientemente d'esser ucciso dai fratelli, perché il suo sacrificio, la sua preghiera, la sua vita era gradita al Padre. La sua morte è sacrificio che nutre la fraternità degli uomini. Chi mangia la sua carne e beve il suo sangue diventa un uomo nuovo, dono divino per il mondo, fratello per gli altri uomini. Il comportamento di Caino verso il fratello annienta il progetto di Dio, che l'uomo cioè sia fratello dell'uomo. D'ora in poi l'uomo sarà lupo per l'uomo, nemico, concorrente sempre in agguato. «Tutti hanno traviato, sono tutti corrotti. Nessuno fa il bene, neppure uno» canta il salmo 53.

Attendiamo il nuovo Abele; Dio dà il proprio Figlio come fratello per gli uomini. Egli si porrà accanto all'uomo come portatore del Soffio divino. Gli uomini che - ripercorrendo le tappe di Caino lo uccideranno, riceveranno in sé quel Soffio, e allora finalmente saranno fratelli. ,

I peccatori che, interrogati da Dio: “Dov'è tuo fratello?”, potranno rispondere: «L'ho ucciso io, perdonami», riceveranno il Soffio della fraternità, lo Spirito che l'unico Fratello portava in sé. E così nasce la famiglia di fratelli. Cresce una famiglia di numerosi, innumerevoli fratelli di tutte le razze e di tutte le lingue.

Non è la carne ed il sangue che contano, che saldano e salvano la fraternità degli uomini tra loro, ma soltanto lo Spirito dell'unico Fratello dato agli uomini dal Soffio che viene dall'alto. lo sono tuo fratello quando accolgo lo Spirito di Gesù. Prima di quel momento ti sento un estraneo, o un concorrente, o un cliente. E il mio sorriso verso di te, se fossi stato capace di abbozzarlo sarebbe stato quello del commerciante che cerca di attirarti in bottega per venderti qualcosa... sarebbe stato solo ricerca di un tuo sorriso per me.

E tu sei fratello per me, ed io ti sento tale, quando accogli lo Spirito di Gesù. Altrimenti ti sento un peso, uno che mi soffoca, come un interessato o un indifferente. Veri fratelli sono coloro che accettano Gesù come fratello, che diventano Abele con lui, soffio sostenuto dalla bocca di Dio.

Sono peccatore, e anche tu rimani tale. Ma Lui, colui che è morto ucciso per me e per te, «non si vergogna di chiamarci fratelli» (Eb 2,11). E perciò nemmeno lo mi vergogno di te. Né tu di me! In Gesù siamo realmente figli di Dio e fratelli.

Qualcuno ancora non ha risposto alla domanda: «Dov'è tuo fratello Gesù?». Egli è morto una sola volta, anche per lui. Essi sono già amati dal Padre, poiché Egli ha già dato il Figlio per loro e lo ha accolto per loro nella gloria. Posso considerarmi quindi già anch'io loro fratello.

Sarò io un Abele per loro? Sarò io degno di unire il mio sangue a quello già versato da colui che mi ha dato il suo Spirito di fratello? Non lo so. So che dovrei, vorrei, voglio esser pronto se mi fosse chiesto. Perciò prega, fratello, perché mi sia data abbondanza di Spirito fraterno.

Luogo di fraternità vera è stata costituita la Chiesa, assemblea dei fratelli di Gesù. Qui essi godono la fraternità di coloro che si offrono, come il Figlio, ogni giorno ad amare gratuitamente, come il Padre. Qui anch'io posso offrirmi in una fedeltà quotidiana a prendermi cura, con intensità diverse, di fratelli che si lasciano servire da me.

Associazioni, famiglie spirituali, comunità nascono ovunque per manifestare questa realtà fraterna che è la Chiesa: essa in vari modi riunisce coloro che hanno ricevuto il Soffio di Gesù e sono e restano Abele l'uno per l'altro.

Allo stesso tempo questa fraternità che è la chiesa si apre ad amare e a trattare da fratelli tutti gli uomini che in qualche modo attendono vita e sostegno dal Padre, anche se inconsapevolmente. Non a caso sono sempre stati e ancora saranno i fratelli di Gesù per primi a trattare da fratelli i malati, gli emarginati, gli schiavi, i carcerati, i poveri, i drogati, gli abbandonati, i cronici, i piccoli.

Tra i fratelli di Gesù si moltiplicano i San Camillo, i don Bosco, i Cottolengo, i San Vincenzo, ecc., ecc.

Chiamo fratelli i fratelli di Gesù, i cristiani, ma tratto da fratelli tutti gli altri, perché Gesù è Abele per loro.

La speranza e la fatica di questa apertura porta Gesù fratello a contatto con la loro sofferenza. Le sue piaghe - le sue ferite mortali diventano medicina.

«Dalle tue piaghe siamo guariti». Guariscici Signore Gesù, anzitutto dall'orgoglio. Così, accogliendo il tuo amore di fratello ucciso per noi, Gesù, diverremo capaci di vera fraternità.

 

3. NOÈ: l'uomo integro

«Mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito». Così Gesù definisce i tempi di Noè. Tempi di materialismo. L'uomo percepisce solo gli impulsi del suo corpo e solo a quelli dà risposta e a quelli dà solo la risposta della soddisfazione. L'uomo non si pone interrogativi, non si occupa di cogliere il significato della propria vita, non risponde agli impulsi dello spirito. E' l'uomo accecato, caduto in balia del «principe di questo mondo». In questa situazione «ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male» (Gn 6,5).

Nel bel mezzo di questa situazione tenebrosa «Noè era giusto e integro tra i suoi contemporanei e camminava con Dio» (v. 9)' «Ma la terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza» (v. 11).

Nel fango spunta un fiore.

Noè è colui che non cade nell'ingranaggio del mondo: egli non pensa all'ambizione, alla considerazione, al successo, alla comodità: questi atteggiamenti lo farebbero entrare in quel mondo, senza più esserne distinto.

Egli invece s'accorge della presenza di Dio. Nella vita, nel mondo, al di là di ogni realtà c'è uno con cui camminare, un amico. Gli occhi di Noè sono attenti, scrutano nel buio e scorgono la luce che sostiene la vita. Egli è giusto, integro, cammina con Dio. Egli non si lascia scalfire dal rumore del mondo che lo circonda, né dai falsi problemi che gli uomini sollevano per riuscire nella loro corruzione e violenza. Egli tiene Dio davanti a sé. Ci si potrebbe esprimere così: lo vede! I puri di cuore vedono Dio, ne percepiscono la Presenza, ne odono i richiami dolci e forti.

Attorno a Noè il materialismo ha prodotto ateismo e da questo hanno preso forza «la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita» (1 Gv 2,16). Queste poi portano inevitabilmente alle inimicizie, gelosie, invidie, orge, violenze. Non occorre descrivere il mondo che circonda Noè. Lo conosciamo.

Forse siamo una ruota del suo esteso ingranaggio che maciulla tutto, e nulla risparmia intatto. Noè vive in ascolto di una voce. Il rumore non lo attira. Il suo è un ascolto difficile, che lo rende solo. Sembra un alienato, potrebbero chiamarlo eremita. Sì, perché attorno a lui sente il deserto, il vuoto. Nessuno ascolta con lui. Nessuno lo aiuta ad udire la Voce. Non ha appoggio da nessuno tra gli uomini che lo circondano e sollecitano.

Egli deve inoltre essere un appoggio anche per i propri figli. Continua a stare in ascolto. E quanto ascolta, benché strano, benché lo renda ancora più estraneo, lo fa: «eseguì tutto».

La sua caratteristica è l'obbedienza. Il suo ascolto non è mosso né da curiosità, né da vanagloria, ma solo dalla fiducia in Colui che lo vede e gli parla. E la sua obbedienza non è sostenuta dal suo ragionamento né dalla sua esperienza, ma solo dalla fiducia in Colui che lo ama. Eseguì tutto. Il mondo per lui esiste, non ha peso, non influisce sulle sue decisioni e sul suo lavoro. Per lui esiste Dio, e il mondo è il luogo dell'obbedienza a Dio, un luogo che può trasformare la gioia dell'obbedienza in fatica, croce, martirio.

Noè non impreca, non si lamenta, non condanna il mondo: ed è quel mondo l'occasione per la sua grande fatica. Tuttavia non lo maledice. L'obbedienza e l'ascolto lo tengono rivolto a Dio, da cui egli riceve solo benevolenza e viscere di misericordia. Egli vive diversamente da tutti e intraprende un lavoro diverso da tutti, giudicato inutile. Egli diventa così ammonizione, richiamo. Qualcuno percepisce la sua vita come accusa, giudizio e condanna degli altri.

Ma il suo giudizio viene così recepito senza che dal suo cuore esca risentimento e accusa.

Noè rimane silenzioso, mite, umile, credente e amante. Egli non giudica nessuno con la sua mente, così il suo cuore può essere aperto all'amore per tutti. Eppure è «banditore di giustizia» (2Pt 2,5).

La sua vita è un grido, un appello, un allarme.

Egli è l'uomo integro, che rimane fedele a Dio pur circondato da mille sollecitazioni alla disobbedienza.

Il profeta Ezechiele (cf Ez 14,14) mette accanto a Noè altri due nomi che hanno vissuto la sua integrità. Daniele, vissuto tra re e governanti persecutori, non si è lasciato scalfire da proposte allettanti né da castighi angosciosi. Giobbe, caduto nella miseria più nera, adulato e portato a ragionare dalla moglie e dagli amici, ha ravvisato nelle parole dell'affetto e dell'amicizia dei nemici per la propria fede.

Benché indebolito fisicamente da sofferenze e malattie rimane forte nel dimostrare la sua integrità. Due nomi che, aggiunti a quello di Noè, ci mostrano i vari aspetti e le varie circostanze in cui può crescere e resistere l'integrità del credente.

Quando sono integro?

Credo di poter riassumere così le varie risposte date dai tre nomi considerati da Ezechiele:

- sono integro quando mantengo puro il mio rapporto con Dio. Ciò avviene soprattutto quando non permetto che Dio possa esser giudicato dalla mia ragione, e quando non metto nulla nel cuore al posto di Dio.

Il primo sarebbe peccato di superbia, il secondo di idolatria.

In fondo però esiste solo questo. Il giudicare Dio nasce dal fatto che ho messo nel cuore qualcosa al primo posto, davanti a Lui.

Il ragionamento è sostenuto da un interesse, e se il mio ragionamento giunge a giudicare Dio, l'interesse - nascosto - è già divenuto idolo potente e devastante.

«L'invenzione degli idoli fu l'inizio della prostituzione, la loro scoperta portò la corruzione nella vita» (Sap 14,12). «L'adorazione di idoli senza nome è principio, causa e fine di ogni male» (v. 27). «Concepiscono un'idea falsa di Dio rivolgendosi agli idoli, disprezzando la santità» (v. 30).

Idolo è tutto ciò che viene messo al posto di Dio: non quindi solo statue, amuleti e portafortuna di vario tipo, ma anche idee, desideri, programmi, ambizioni, guadagni, credenze, ecc. Osserviamo il decalogo: inizia con l'affermazione: «lo sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all'infuori di me». Ogni comandamento che segue vuole abbattere uno degli idoli che si piantano facilmente nel bel mezzo del nostro cuore o della nostra famiglia o della società. Se l'uomo e gli uomini conservassero integro il primo comandamento, si potrebbero dimenticare gli altri. Difatti: «Tu nostro Dio, sei buono e fedele, sei paziente e tutto governi secondo misericordia. Anche se pecchiamo, siamo tuoi, conoscendo la tua potenza; ma non peccheremo più, sapendo che ti apparteniamo. Conoscerti, infatti, è giustizia perfetta» (Sap 15, 1-3).

«Questa è la vita eterna: che conoscano Te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3).

Anche se pecchiamo... Sì, la nostra integrità deve essere sempre ricostruita dalla potenza fedele di Dio. Noè, salvato dal diluvio, non è liberato dal male. Egli ubriaco e suo figlio iniquo derisore del padre riaprono le porte dell'uomo alla concupiscenza. Ci sarà un uomo integro -capace di costruire un'arca che non salva solo da un diluvio d'acqua, ma dal diluvio dell'idolatria?

L'uomo di indiscussa integrità, senza idoli di sorta, è colui che ha proclamato le beatitudini dei senza idoli, di coloro che hanno solo Dio Padre come amico, confidente, difensore. Gesù è il vero uomo giusto ed integro, il vero Noè. Gesù vive in un mondo corrotto da superbia, denaro, potere e ambizione. Nella lotta sostenuta nella solitudine del deserto ha impedito che quegli idoli si ergessero dei piedistalli nel suo cuore. Ha affrontato la lotta con la spada dello Spirito, che è la Parola di Dio. Ha vissuto l'insegnamento del Salmo (1 19): «Come potrà un giovane mantenere pura la sua vita? Custodendo le tue parole!».

Gesù con la sua vita libera da idoli è condanna per coloro che vogliono esser capi, per coloro che vogliono arricchire e dominare. Egli è condanna e giudizio, pur senza che nel suo cuore entri accusa e cattiveria, anzi! Il suo cuore è aperto ad ascoltare ed ad amare Pilato e i soldati del suo supplizio.

Gesù è ascolto costante del Padre, e obbedienza pura: non obbedisce a se stesso, Egli fa la volontà del Padre.

Vedo in Gesù anche il nuovo e vero Noè in quanto costruttore dell'arca. L'arca di Gesù, luogo di salvezza dagli idoli e dalle loro conseguenze, luogo dove si riceve persino il perdono delle trasgressioni, è la Chiesa. Un'arca in cui si viene accolti e custoditi e arca da cui tutti poi escono per diffondere sulla terra vita nuova, benedizione, pace. Arca in cui i «familiari» di Gesù vivono comunione e di essa fecondano poi tutta la terra!

Posso vivere anch'io come tuo familiare, Gesù, custodito nella tua arca, nutrito da Te e fedele all'intimità con Te! E non appena la tua colomba apparirà portando nel becco non più l'ulivo, ma la parola della vita, allora anch'io con gioia uscirò a benedire e a diffondere l'integrità di figlio di Dio in tutto il mondo!

 

4. ABRAMO: l'uomo chiamato

Il primo personaggio storico del racconto biblico pare sia Abramo. Il capostipite del popolo di Dio fa la sua apparizione nella storia degli uomini quando viene chiamato da Dio, anzi, quando gli risponde. Da quel momento egli non è più un qualsiasi essere umano, ma un volto preciso, con un nome-messaggio, con una missione che lo rende prezioso per Dio nel mondo. Dal momento della risposta il nome di Abramo rimarrà legato per sempre al nome di Dio che lo ha chiamato. E sarà un nome destinato a rivelare l'identità di Dio e a custodirla dalle facili immagini intellettuali che l'uomo è sempre tentato o provocato a costruirsi.

Abramo, il chiamato che risponde!

La chiamata di Abramo è alquanto strana. Il suo Dio gli ingiunge: «vattene». Una parola che mette paura. Non è però un «vattene via da me», ma «vattene via dal tuo paese, dalla tua patria, dalla casa di tuo padre verso il paese che io t'indicherò» (Gn 12,1).

Nella delimitazione e precisazione degli spazi da lasciare c'è un crescendo di intimità e di affetti che rendono dolorosa l'obbedienza. Vattene: sei al posto sbagliato; là dove sei, in quelle sicurezze e comodità che godi c'è la tua rovina. Vattene.

Ciò che hai non è più tuo. Il nuovo può venire solo dopo che hai lasciato il conosciuto, l'amato, il posseduto.

Vattene dal paese: dai luoghi conosciuti, dal clima abituale, dalle abitudini incarnate, dagli dèi protettori.

Vattene dalla patria: dai legami sociali, dai rapporti di fiducia reciproca instaurata coi deboli e coi potenti, dalla protezione delle leggi, dalle ambizioni della stima degli uomini che ti apprezzano.

Vattene dalla casa di tuo padre: lascia i legami affettivi più cari, coloro che si sentono obbligati a proteggerti, coloro che s'attendono da te aiuto, lascia le tradizioni e le feste che rallegrano la tua vita e le danno significato.

Verso il paese che io ti indicherò. Abramo deve nascere di nuovo: deve farsi bambino, lasciarsi portare, guidare. Non può prendere informazioni da nessuno, deve stare nella posizione di chi attende ogni giorno, nella posizione di chi non può mai essere protagonista nemmeno della propria vita. Egli deve solo credere, e attendere, e ascoltare. Non sa se il nuovo paese è migliore o peggiore di quello conosciuto e lasciato. Non sa cosa vi troverà. Non ha elementi di giudizio per poter dire di riconoscerlo. Non saprà forse mai di esservi arrivato.

Abramo percepisce che la sua vita deve diventare ascolto.

Egli è e rimarrà uno che viene chiamato. Attende la voce.

Dovrà per questo essere inquieto? nervoso? irritato e irritante? Anzi. Il suo appoggio ora è così sicuro che vi trova pace piena. Abramo non sa dov'è nel suo cammino, non sa se è giunto o no a destinazione, non sa nulla. Ma egli sa di essere nell'onda della voce che lo chiama. Perciò riposa. Nella fede trova pace e sicurezza, riposo e consolazione. Chi conta per lui è colui che lo chiama: lo può definire Dio. E noi lo chiamiamo «Dio di Abramo», cioè Dio che chiama l'uomo e, se l'uomo risponde, lo accompagna, lo fa riposare sicuro nell'insicurezza. Abramo è in viaggio.

Il suo viaggio diventa il viaggio di colui che sì distacca dal mondo per aderire a Dio.

Il suo viaggio è una scuola per tutti gli uomini, scuola pratica e graduale per imparare il distacco dalla terra per aderire alla voce di Dio. Imparare a vivere imparando a morire.

Riceve delle promesse attraenti, che non vedrà mai realizzate: anche queste diverranno un nuovo terreno da cui allontanarsi per tenere occhi e cuore solo in colui che chiama. «Farò di te un grande popolo, e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione ... ». La sua vita che continua a morire, a lasciare tutto, diverrà dono per tutti.

Dopo che Abramo avrà ubbidito, e si sarà dimostrato perseverante e avrà dato prove sicure di fede, ecco un'altra chiamata. Dovrà compiere un atto che rimanga come un segno per tutta la vita. Sarà un segno solenne e ufficiale. «Sia circonciso tra di voi ogni maschio». Quella circoncisione sarà un segno della sua chiamata. La presenza di Dio nella sua vita avrà conseguenze così incarnate. Quel segno sarà una conferma della chiamata e una consacrazione della risposta.

Ora Dio può cominciare a realizzare la promessa: nasce Isacco. Abramo è felice. Di che cosa? di colui che lo chiama o del premio? Un'ulteriore chiamata è destinata a rafforzare in lui la capacità di lasciarsi chiamare, di staccarsi da tutto per essere uno con colui che lo ha scelto. «Abramo, Abramo! prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami ... ». E' la chiamata alla prova. Abramo deve dar prova di aver seguito il suo Signore, e non i doni che gli sono stati promessi. Egli ha seguito il suo Dio e non il suo amor proprio. E' rimasto fedele al suo Dio e non ha ceduto a cercare la propria gloria con i doni di Dio.

Abramo mostrerà che veramente egli ama Dio, non Isacco. Isacco gli preme tanto quanto preme a Dio.

Il chiamato, il protochiamato, supera la prova: egli sta continuando a rispondere, non si è dimenticato di essere un perenne chiamato, non torna a volgere lo sguardo a sé, alle proprie sicurezze, alla propria terra e ambizione e gloria tra gli uomini.

E Dio riconferma il premio: ti benedirò! e la gloria universale: «saranno benedette tutte le nazioni della terra, perché hai obbedito alla mia voce» (22,18).

Dio è ancora quello di Abramo, il Dio che chiama l'uomo. La voce di Dio ora risuona dalla bocca di Gesù.

Gesù continua a chiamare. Gli uomini possono essere tutti degli Abramo, dei chiamati. Chiamati a lasciare, lasciare... A quante cose sono attaccati gli uomini! La prima parola che Dio deve dire, sempre, è «vattene», «lascia». Ci sono ricchezze, legami sociali, legami affettivi, usanze e tradizioni, tutto un mondo conosciuto che illude di dar sicurezza e vita. Per trovare la libertà e la leggerezza e l'armonia di Dio l'uomo deve lasciare, abbandonare reti, barca e padre! Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni lasciano il lago, l'ambiente che sostiene col suo pericolo la loro vita. Essi lasciano ogni situazione normale, danno uno strappo talora straziante. E vanno verso una terra... che è Gesù stesso, una persona sempre in cammino, che continua a lasciare ciò che raggiunge. Essi raggiungono Lui, Gesù; lo continuano a seguire, inseguire e raggiungere: è lui la loro nuova terra, nuova sicurezza, nuova vita, nuova società, nuova famiglia, nuova gioia, nuova cultura.

Anch'essi dovranno manifestare con un gesto pubblico e ufficiale, e incisivo nella vita, la loro adesione, la risposta alla chiamata. E il gesto così importante sarà il loro mangiare e bere la Pasqua nuova. Quel pasto nuovo li costringe a considerarsi fratelli, popolo nuovo. Quel pasto in cui bevono allo stesso calice del Signore risuona come una nuova chiamata: non potranno né dovranno considerarlo un estraneo; è chiamata a vivere tutt'uno con Lui. Nel contempo quel mangiare e bere conferma la risposta, finché verrà la prova, poche ore dopo.

Mi vuoi seguire, ma chi stai seguendo?

Gesù o te stesso? Segui Gesù che va incontro alla morte, che offre la vita? I discepoli della prima ora non hanno superato la prova. Almeno non subito come Abramo. La prova di Abramo, il terzo passo della chiamata, che noi chiamiamo Calvario, ritorna ancora sempre per ogni chiamato. Segui Colui che ti chiama o segui le tue idee di ciò che è buono? Segui Gesù nell'obbedienza giornaliera al tuo compito, o segui i tuoi sogni, le tue ambizioni, te stesso? Segui Gesù che ogni giorno ti può chiedere di lasciare qualcosa, di affrontare una morte di ciò che ti è caro, o cerchi una tua sistemazione? Ami Gesù o ami te stesso? E' da notare che in questa prova è Gesù stesso, colui che ti chiama, ad offrirti alla morte. Egli facilita così la risposta alla tua chiamata.

La conferma definitiva della chiamata avviene dopo che è superata questa prova: superata attraversando il peccato. Pietro cade nella prova, cede. Non è pronto, non è capace di affrontare derisione e pericolo. Pecca. Il pianto sul peccato e il nuovo amore che ne scaturisce suppliscono. E Gesù godrà che il discepolo confermi la risposta quando gli chiederà: «mi ami tu?» «Tu sai tutto, Signore. Tu sai che ti amo»! Al che Gesù disse: «Seguimi»! Pietro riceve forza da questa ultima chiamata per svolgere il servizio nella missione di benedizione che riceve.

Pietro, e gli altri, e anch'io e tu, e chissà quanti, siamo l'Abramo che ode la Voce venire dall'Alto, voce che chiama. Noi rispondiamo. La nostra vita è ascoltare e rispondere, rispondere e ascoltare ancora. Non m'importa vedere il centuplo promesso, m'importa che colui che mi chiama possa realizzare i suoi disegni. Le mie risposte saranno solo un aiuto per posare qualche tessera sul mosaico appena iniziato, qualche punto sul ricamo appena abbozzato. Mia gioia è dire: eccomi, vengo!

Sì, Gesù, Tu mi chiami. Come Abramo desidero esserti obbediente e docile, voglio confermare e incidere nella mia carne l'appartenenza a Te, salire il monte del sacrificio di ciò che Tu stesso mi hai donato. Tu, vero Abramo, rendimi simile a Te nell'ascolto e nella risposta. «Il Dio di ogni grazia, che vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, Egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi» (1 Pt 5,10).

 

5. ISACCO: l'uomo donato

Il nome di questo figlio prediletto è un nome inconsueto: «che Dio rida»! oppure «gioia di Dio». A dire il vero egli è la gioia di Abramo, è la gioia di Sara, che con la sua nascita si sente rinascere. Finalmente è donna, finalmente è madre! Ella aveva riso all'annuncio di quel figlio da parte di Dio. Ora Dio può essere contento davvero perché quella nascita dà ragione a Dio, ne manifesta la benevolenza, l'onnipotenza e la fedeltà. Gioia di Dio! La gioia di Dio è pure gioia dell'uomo che ha lungamente atteso, desiderato, voluto. Ormai Abramo non sapeva più come fare ad attendere un figlio. Questo fu il Momento dell'intervento di Dio, quando l'uomo si arrese. Così il figlio poté essere visto soltanto come un dono. Abramo ricevette in dono «gioia di Dio»!

Il dono ricevuto deve rimanere dono, mai diventare possesso. Perciò «prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, và... offrilo in olocausto». Quel figlio è ricevuto da Dio non per possederlo, ma per donarlo. Isacco è uscito come dono dalle mani di Dio, deve rimanere dono, uscire come dono anche dalle mani di Abramo. Isacco deve rimanere «gioia di Dio», dono perenne che rallegra il Dio dell'amore che si dona.

Abramo dimostra la volontà di donare Isacco: «so che temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio»... Questa è la situazione interiore di Abramo che può riavere Isacco. Mentre egli lo scioglie dalla catasta di legna posata sulle pietre dell'altare si accorge di una nuova dimensione del dono rinnovato. Nel figlio ora Abramo vede la concretezza della serietà e della fedeltà del suo Dio; in Lui vede pure un segno della paternità di Dio. Il vero padre di Isacco è Dio. E' Dio che deve poter gioire di quel figlio. In Isacco Abramo trova così un aiuto a restare in contemplazione di Dio, pronto ad accogliere come sorpresa felice tutti i suoi interventi. La presenza di Isacco è memoria a non farsi sogni e progetti, perché solo Dio deve godere della vita di un uomo, e di un figlio d'uomo: l'uomo deve godere solo di Dio. Il dono di Dio, Isacco, è memoria per Abramo a vigilare sulla tendenza ad attaccarsi alla terra e a progetti terreni.

Per Abramo il figlio Isacco è sempre un dono immeritato e inaspettato: inaspettato anche la seconda volta, quando il braccio gli vien fermato nell'attimo in cui sta per sacrificare il figlio; immeritato, perché l'uomo non può vantare diritti di fronte a Dio.

E' ancora un dono strano, perché trasforma in dono anche la vita di chi lo riceve. Isacco esige un continuo amore, una costante attenzione e fatica, del tutto gratuita, del tutto distaccata da se stesso. Isacco è dono di Dio all'uomo, ad Abramo, ed è dono dell'uomo a Dio: è dono.

Cresciuto, Isacco stesso, sperimenterà che la propria vita è tutto dono. A quarant'anni, mentre piange la morte della madre, riceve in dono Rebecca come sposa. Egli non ha fatto nulla per averla ... !

A sessant'anni, dopo aver pregato, Rebecca sterile riceve i gemelli: anch'essi quindi dono di Dio.

Della sua vita vien menzionato un altro episodio: i suoi servi trovano l'acqua a Bersabea mentre egli è assente, a Gerar.

Non sono grandi le vicende della sua vita, ma in esse egli rimane uno che si lascia fare, si lascia donare! C'è un altro protagonista che muove la trama dei giorni. Nonostante lui, un altro - Dio - agisce nella sua storia.

Ciò risalta ancor più evidente nell'episodio culminante della sua famiglia. Egli, ormai cieco, vuole benedire il figlio Esaù. I suoi occhi non vedono e la sua mente non comprende le intenzioni di Dio. La sua cecità diventa così un dono che gli permette di non contrastare la Volontà di Dio. La cecità lo inganna, impedendogli di sbagliare! e benedice Giacobbe.

L'uomo è sempre un dono per gli altri uomini: e questo non tanto per le proprie qualità o virtù, per le doti o capacità. Normalmente sono queste ad essere ritenute dono per gli altri, ma è una visione superficiale. L'uomo è un dono perché Dio stesso agisce e opera attraverso la sua presenza! Dio può agire tramite l'uomo incapace, tramite l'uomo stolto, tramite l'uomo che dorme, tramite l'uomo peccatore, tramite l'uomo ammalato!

L'uomo è perciò sempre dono di Dio: sempre dono da lasciare a Dio, che ne è il Signore! Dono di cui non impossessarsi: lo si renderebbe strumento dell'accontentamento delle proprie passioni e dei propri programmi. In tal caso egli diverrebbe schiavo materialmente o psicologicamente plagiato.

Di conseguenza non dev'essere possibile lamentarsi di alcuno, di alcun uomo, perché Dio può agire persino tramite le sue deficienze e tramite i suoi errori.

Ciò che è vero per tutti è vero per me: io sono un dono di Dio per gli uomini, per tutti: anche mentre dormo sono gioia di Dio! Di questo ne sono fiero! ma ciò è tutto volontà di Dio, merito suo: e perciò divento umile. lo sono dono non per ciò che riesco a fare per gli altri, ma per ciò che Dio riesce - nonostante il mio agire - a trasmettere a chi mi sta attorno.

Il vero Isacco però, il vero «sorriso di Dio», Figlio unico ricevuto dall'uomo come puro dono è Gesù! Di Lui il Padre dice: «in Lui mi sono compiaciuto»: gioia di Dio! Egli è figlio di Dio e figlio dell'uomo, ma l'uomo non ha fatto nulla per meritarlo, anzi! né ha potuto far nulla per procurarlo. L'uomo ha soltanto - tramite Maria dato un po' di fede alla Parola di Dio incomprensibile e un po' di assenso inconsapevole.

Questo figlio che è «grazia trovata presso Dio» rimane sempre dono. Non lo si può costringere, né possedere. Lo si può accogliere quando viene e passa. Costante vigilanza è necessaria per discernere il suo venire.

I suoi discepoli avevano la tentazione di impadronircene, di farlo servire ai loro scopi di gloria umana e di comodità: «E' bello star qui: facciamo tre tende, una per te ... ». «Dì che sediamo uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». «Non t'importa che periamo?» «Resta con noi: si fa buio». Essi lo sentono come un dono di cui farsi padroni. «Un tale scacciava demoni nel tuo Nome: non era dei nostri, perciò glielo abbiamo impedito».

Solo il giorno di Pasqua essi lo sperimentano come un dono che deve rimanere dono. Anzi, quando riceveranno il suo Spirito, il suo Soffio, anch'essi diventeranno dono di Dio alla sua maniera per il mondo. Diverranno figli di Dio, sorriso di Dio, agnelli in mezzo ai lupi, sale e luce, lievito nascosto. Lo diverranno al modo di Gesù.

Egli è cosciente d'esser dono di Dio e vuole inserirsi volutamente nel disegno misterioso del Padre che lo dona: «Offro la mia vita, la offro da me stesso, nessuno me la toglie» (Gv 10, 17s). «Padre nelle tue mani consegno il mio spirito».

Le esperienze di Abramo e di Isacco coincidono con le nostre, con le mie. lo posso notare che le persone mature, più armoniose e rappacificate sono quelle che sanno ricevere tutto come dono del Padre; esse sanno accogliere tutti, piccoli e grandi, giovani e anziani, coi loro limiti ed errori, come dono!

Queste persone non solo sono mature e pacificate, ma trasmettono pace, armonia e maturità. Inoltre esse vedono Dio ovunque all'opera, perché ovunque scorgono i suoi doni. Sono sereni, perché scorgono il Padre e lo riconoscono come amico degli uomini, datore di ogni dono perfetto!

Talvolta mi ci provo anch'io a ritenere te, così come sei, un dono. Allora sento che il mio cuore s'allarga, cresce, ama. E per essere anch'io un dono per te, cosa dovrò fare? Nelle intenzioni di Dio lo sono già, alleluia! ma se ci volessi mettere tutto, anche la mia partecipazione cosciente al donare di Dio cosa potrei fare? Credo, cioè sono sicuro che non potrei e non dovrei fare altro che... unirmi a Gesù.

Mi unisco a Gesù che offre se stesso al Padre, e allora il mio essere dono per te diventa completo, perfetto. Unito a Gesù sono un dono che porta frutto.

Sono certo che se volessi fare io qualcosa d'altro, se mi sforzassi, se mi inventassi metodi per essere un dono per te, riuscirei solo a rendermi fastidioso. Forse riuscirei a suscitare qualche attimo di simpatia, mi renderei per un po' centro di attenzione, ma non sarei un dono pronto ad esser donato.

Quando tengo Gesù in me, o io mi tengo in Lui, allora sono certo che - nonostante le mie debolezze e il mio peccato - darei a Dio la possibilità di arricchirti veramente, anche solo con la mia presenza.

Io un Isacco per te, tu un Isacco per me.

Ogni uomo - immagine del Dio dell'amore - mi è messo a fianco perché io possa vedere il mio Dio, amico dell'uomo, perché io possa lasciar vedere il volto di Dio, amico dell'uomo. La persona che mi sta vicino può essere pesante, può essere da sopportare, ed io per lei. Può esser addirittura occasione di tentazione, di scandalo, oppure può essere aiuto materiale, o psicologico, o spirituale: ed io per lui altrettanto.

Non mi legherò a lui, perché è un dono. Cercherò sempre di scorgere le Mani che me lo offrono, il Cuore che me lo presenta. Egli può offrirlo ad altri. Ed io non accetterò di esser legato ad alcuno, perché Dio, di cui sono dono, può donarmi ancora altrove. Il dono che ricevo è solo segno dell'amore di Dio che mi consola, mi aiuta e mi corregge. Devo rimanere libero di guardare il Volto di Dio e devo lasciar liberi gli altri di fare altrettanto. Ogni uomo un Isacco, un aiuto a restare in contemplazione di Dio! La mia bocca si aprirà per dire sempre e soltanto: grazie!

Grazie o Dio che mi fai dono!

Grazie che vuoi solo donarmi il tuo amore attraverso molte persone, tutte quelle che incontro anche solo per un istante.

Ogni uomo è un segno che Tu ci sei, e sei amore.

Grazie, mio Dio, per ogni volto d'uomo, tua gioia!

Grazie per Gesù, sorriso di Dio e mio sorriso, mia gioia!

 

6. GIACOBBE: l'uomo provato

Quale uomo è vera immagine di Dio, quindi vero uomo? chi vive un rapporto vero con Dio, un rapporto libero dall'interesse per i propri sogni o piaceri o comodi. Dopo «l'affare Adamo», che ha costretto gli uomini come in esilio nel paese dell'egoismo, dell'orgoglio, della gelosia e della prepotenza, e infine dell'autonomia da Dio, come si fa a conoscere il Volto di Dio? su quale faccia d'uomo ne posso scoprire i lineamenti? Di chi possiamo fidarci? Di chi ha superato la prova.

Bisogna cercare quest'uomo esattamente con lo stesso metodo con cui si cerca l'amico: «se intendi farti un amico, mettilo alla prova. Non fidarti subito di lui» (Sir 12,8s; Pr 17,17; 1Sam 20). Non troviamo perciò nulla di strano nell'agire di Dio con Abramo, Isacco e Giacobbe.

«Ringraziamo il Signore nostro Dio che ci mette alla prova come ha già fatto con i nostri padri. Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare ad Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe in Mesopotamia di Siria quando pascolava le greggi di Labano suo zio materno. Certo, come ha passato al crogiuolo costoro, non altrimenti che per saggiare il loro cuore, così ora non vuole far vendetta di noi, ma è a fin di correzione che il Signore castiga coloro che gli stanno vicino» (Gdt 8,25-27).

Fra i tre patriarchi che hanno dato il loro nome perché il Dio dell'alleanza possa essere identificato e conosciuto, amato e adeguatamente servito, tanto da esser chiamato «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe», scegliamo il terzo per osservare le prove cui è stato sottomesso. Egli, il padre diretto dei dodici capostipiti delle tribù d'Israele, doveva essere particolarmente preparato a sostenere la lunga catena di generazioni destinate a credere in Dio superando infinite situazioni di dolore, di morte, di schiavitù, di peccato, di ribellioni, di tentazioni del benessere.

La vita di Giacobbe è stata tutta una prova, un susseguirsi di fatti e situazioni che avrebbero potuto buttarlo nella disperazione o nella rassegnazione o nell'abbandono di ogni fede e fedeltà. Potremmo raggruppare le continue prove di Giacobbe in sette punti o stazioni.

«Esaù perseguita Giacobbe... Fuggi a Carran da mio fratello Labano» (Gn 27,41-45). La gioia d'aver ricevuto la benedizione di Dio tramite le mani e la voce tremante del padre si tramuta immediatamente in sofferenza. Essere benedetto, per Giacobbe, non ha significato iniziare una vita facile, comoda, da signore! Essere benedetto ha significato apparentemente e immediatamente maledizione: fuga, abbandono di tutto, distanza dalla madre, dalla sua protezione, trovarsi nel pericolo, solo, in viaggio verso méta sconosciuta, essere ospite di parenti che nulla sanno di benedizioni. Solitudine interiore. Esperienza massacrante, disorientante.

Poi Giacobbe trova una consolazione: il volto di Rachele. E nella speranza di poterne godere pienamente la dolcezza e la fiducia lavora sette anni, lunghi anni. Finalmente... «ed ecco, era Lia» (Gn 29,23). Lo zio, il fratello della madre, colui di cui doveva fidarsi, lo ha ingannato. Giacobbe si vede tradito nel più profondo.

Non può più fidarsi di nessuno, nemmeno di colui di cui sua madre si fidava ciecamente. E questo tradimento ha conseguenze irreparabili per tutta la vita: Giacobbe dovrà amare Lia che non ama, verso cui non sente alcun trasporto, alcuna attrazione.

Egli deve dominare i propri sentimenti, farli sorgere e farli sparire, esserne padrone attento. E' una nuova solitudine cui viene consegnato. Non può più rifugiarsi nelle proprie consolazioni né nelle proprie lacrime. Deve staccarsi da se stesso! Riceve in moglie finalmente anche Rachele, l'attesa e sospirata consolazione della vita. Ed è proprio lei che lo getta nella delusione ancora più grande.

Ella ha il coraggio e la sfrontatezza di rimproverarlo perché non le dà figli (29,30). Come se questa non fosse anche la sua sofferenza. Giacobbe si rende conto che colei che egli ama non lo ricambia; ella ama se stessa, ama la propria fecondità, la propria bella figura. «Tengo io forse il posto di Dio»? Giacobbe si accorge della distanza spirituale della sua amata, che non s'abbandona a Dio come fa invece lui. Ciò che è dono di Dio, i figli, non può esser preteso dall'uomo. Rachele non bada a Dio, è atea: se la prende con l'uomo. Quale prova per Giacobbe!

Almeno a livello materiale Giacobbe è apprezzato: il suo lavoro rende. Ed ecco che anche a questo livello viene provato: lo zio lo imbroglia, lo sfrutta, gli fa subire umilianti ingiustizie economiche. E Giacobbe non può difendersi o ribellarsi: egli è indifeso e ricattato. Lo sfruttatore è zio e suocero, nonno dei suoi figli. Non gli resta che fuggire, sicuro che «Dio ha visto la mia afflizione». Tra gli uomini nessuna gratificazione.

Ma nemmeno Dio lo gratifica. Tutta una notte deve lottare con Lui, vincere il sonno e resistere alla «violenza» dell'angelo di Dio. Scopre un Dio, il proprio Dio, come un nemico? No, Dio non gli è nemico, ma lo mette alla prova, gli toglie le forze perché non cammini più vantandosi della proprie capacità. Chi si vanta, si vanti nel Signore! E' quando sono debole che sono forte! Dio gliela dà vinta, bontà sua, nemmeno Giacobbe sa perché: esce zoppo dalla lotta, ma rinnovato nella fede e nella volontà di camminare nella luce, di esser fedele alle promesse ricevute. Dio si riconosce vinto dall'uomo: lo deve nuovamente benedire, perché Giacobbe non si è arreso: qui il segreto della sua vittoria. Giacobbe ha superato la prova dell'inimicizia di Dio. Ora può incontrare il fratello.

La gioia di percorrere la terra del padre è nuovamente spezzata: Rachele muore. Giacobbe ancora nuovamente solo. L'affetto coniugale, quello più intimo non è più (35,16).

E finalmente l'ultima prova cui è sottoposto l'anziano patriarca, lottatore e vincitore. li figlio amato e prediletto è odiato dai suoi fratelli, per invidia, per gelosia (37). Doppio dolore, e perché i figli odiano e perché il figlio è in pericolo. La tunica di Giuseppe insanguinata toglie ogni consolazione e speranza all'uomo di Dio, che vive così, come sospeso tra la vita e la morte, finché anche Beniamino gli vien strappato via. «Una volta che non avrò più i miei figli, non li avrò più» (43,14).

Un grido da cui si sente la sofferenza di un uomo che vede svanire nel nulla tutte le sue speranze, le sue fatiche, l'oggetto della sua fede.

Le prove incontrate da Giacobbe hanno uno scopo diverso da quelle di Abramo. A questi è messo alla prova l'amore: ami Dio più di te stesso, più di tuo figlio? La prova continua cui è sottoposto Giacobbe è una scuola di purificazione. Egli vien provato nel senso che vien liberato da tutti gli «amori» umani, le consolazioni, le gratificazioni. Vien fatto passare per un deserto di solitudine e d'abbandono totale. La sua fede resiste e matura e dona ai suoi discendenti l'immagine di un Dio vivo che va amato per se stesso, non per i benefici che da Lui si possono sperare e ottenere. Anche la sua esperienza servirà nei secoli a conoscere e identificare il Dio vivente e a sostenere l'adorazione presso il popolo.

«Proprio per esser stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Eb 2,18).

Così è scritto di Gesù, che rivive le prove cui sono stati sottoposti i Patriarchi. Egli realizza nella propria carne le Scritture. Gesù è l'uomo che passa per il crogiuolo del dolore e così mostra la presenza di Dio non solo nelle vicende di Giacobbe, ma anche in quelle di ogni credente e di ogni uomo. Le sofferenze delle prove di Gesù danno Consolazione ad ogni uomo provato e sofferente; in quella situazione infatti, che sembra dimostrare l'abbandono da parte di Dio, c'è invece la presenza più sicura del Dio dell'Amore, del Dio che si dona e chiede di partecipare al suo essere Dono.

Le prove di Gesù non sono purificazione del Suo Amore, già puro, ma manifestazione ai nostri occhi impuri della purezza dell'amore di Dio. Egli soffre quando offre al Padre il proprio essere uomo. Il dolore della carne martoriata e la sofferenza dell'anima tradita diventano offerta dello spirito, espressione ultima dell'amore.

La via percorsa da Gesù, e prefigurata dal terzo patriarca che soffre in quanto fratello e sposo e padre, è l'unica via aperta verso Dio Padre, verso casa nostra! verso la destinazione finale, la beatitudine! Su questa via però noi non tentenniamo né per inesperienza né per debolezza! «Simone, Simone, Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano. Ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede. E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31).

Chi si incammina per la via della fede trova la croce, ma c'è la luce e la forza della preghiera di Gesù stesso e c'è sempre un fratello «ravveduto» che mi fa da guida. E difatti, in qualunque prova o sofferenza, lo sguardo a Gesù che prega dalla sua croce, e la mano al fratello che ha già sofferto, diventano sicurezza, coraggio, e persino gioia. La gioia sarà ancora più grande quando potrò anch'io allungare la mano a qualcuno e indicargli il Capo coronato di spine: allora alla mia sofferenza s'aggiunge una nuova motivazione, la consolazione dei fratelli. S. Giacomo (1,2) perciò può esortare: «considerate perfetta letizia, fratelli, quando subite ogni genere di prove» e S. Pietro (1Pt 4,5-13) «Rallegratevi, perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare». Queste sono solo un'eco delle parole di Gesù: «Il Figlio dell'uomo deve soffrire molto, essere riprovato..., esser messo a morte ... » (Lc 9,22).

Un po' di paura, o forse molto spavento di fronte all'imminenza di nuove prove. Riuscirò a restare fedele? «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d'uscita e la forza per sopportarla» (1Cor 10,13).

E questa forza è ancora una volta comunicata dalla contemplazione: «Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate, perdendovi d'animo» (Eb 12,3).

Non dovrei aver paura e non dovresti temere. Il passare nella prova ci rende idonei ad essere fratelli degli uomini, figli di Dio partecipi delle sue ricchezze d'amore. Non vivrò le sofferenze perciò con rassegnazione, come costretto; anzi, come ci aiuta il Salmo chiediamo a Dio di metterci alla prova: «Scrutami, Signore, e mettimi alla prova; raffinami al fuoco il cuore e la mente» (Sal 26). «Scrutami o Dio e conosci il mio cuore / provami e conosci i miei pensieri / vedi se percorro una via di menzogna / e guidami sulla via della vita» (139,23).

Però non mi fido delle mie forze, ma del tuo aiuto, Padre: «non c'indurre in tentazione», non lasciarci cadere nella prova.

Con Giacobbe come segno, dono ed esempio, non mi voglio sottrarre alle prove che Tu mi doni per purificarmi e per provare il grado purezza del mio amore. So che la vite destinata a portare frutto deve lasciarsi potare i tralci. Così Tu, Gesù, vite vera, permetti che io, tuo tralcio, assapori la durezza delle forbici del Padre: che anche così mi dimostra di amarmi, di occuparsi seriamente di me.

 

7. GIUDA: l'uomo redento

Una donna di ottantaquattro anni conosce quelli che aspettano la «redenzione di Gerusalemme» e ad essi parla del bambino che in quell'istante è presente entro il recinto del Tempio. Chi sono quelli Che aspettano la redenzione di Gerusalemme? e perché Gerusalemme, la città santa ed elevata, deve esser redenta? Già in un paesino delle montagne era risuonata la preghiera e la lode sulle labbra di un uomo rimasto senza parola per nove mesi: «Benedetto il Signore Dio d'Israele perché ha visitato e redento il suo popolo».

Coloro che attendono la redenzione sono persone capaci di lodare Dio, persone attente a leggere nelle vicende l'opera e la presenza di Colui che crea e ama, di Colui che può e vuole intervenire nell'oggi degli uomini. E il popolo di Dio, di cui la città di Gerusalemme è l'emblema e la personificazione e il centro, ha bisogno di redenzione, di essere riscattato da una situazione di schiavitù. Non è la schiavitù dei Romani, ma quella schiavitù che ha portato a questa.

La schiavitù che porta ad essere schiavi degli uomini è il peccato, cioè l'atteggiamento, e gli atti conseguenti, che tengono lontani dal Padre, fuori dalla sua casa, fuori dalla strada che può portare a quella casa. Fuori dall'orientamento a Dio e dall'obbedienza volontaria a Lui non resta che obbedienza forzata agli istinti dell'uomo, propri ed altrui.

Il popolo di Dio ha bisogno di redenzione. Questo popolo è erede con tutti gli altri popoli dell'esilio in cui lo ha posto Adamo. Come tutti i popoli anche il popolo di Dio deve cercare, trovare e imboccare la strada che con un cammino spirituale e una guida sicura può portare a godere la visione del Volto che ci attende.

Il popolo di Dio è avviato su questa strada: ma continua a fermarsi, a voltarsi indietro, a indugiare. C'è sempre qualcuno in questo popolo, talora tra le sue guide, che si trattiene a contemplare idoli, e ritenerli la mèta per tutti. E gli idoli non sono lontani, sono dentro la carne dell'uomo stesso: anche l'uomo di Dio deve lottare contro di essi.

Gerusalemme ha bisogno di redenzione. Dev'essere strappata dagli idoli e dalla forza della loro attrazione e dalla potenza che gli idoli lungo i secoli hanno esercitato su di essa fiaccandola e svergognandola. Chi entra in Gerusalemme, nella Gerusalemme lussuosa e grande dei tempi di Anna e di Simeone, non arriva ad incontrare il volto sereno e accogliente del Padre. Piuttosto vede ad ogni angolo mammona.

Gerusalemme è schiava di una falsa immagine di Dio. E questa schiavitù ha una storia, molto lunga. In questa storia sono confluiti molti peccati, gesti idolatrici di singoli e di comunità. E questi peccati rimangono impressi nella memoria delle generazioni, che si rendono coscienti d'essere nate nel peccato, intrise di sangue, da cui non riescono mai a purificarsi. Non ne conoscono il modo.

Cercano disperatamente di cancellare la vergogna della propria storia senza riuscirvi. Continuano ad uccidere tori ed agnelli e colombe senza raggiungere lo scopo, che cioè il sangue degli animali cancelli le macchie del sangue umano.

li peccato sta persino all'origine della tribù che abita Gerusalemme, la tribù fortunata che può attendere il Messia come uno dei propri figli. E' fortunata, ma non può vantarsi: il proprio capostipite, Giuda, ha dato l'avvio alla discendenza col peccato. Una tribù sempre rossa di vergogna.

Giuda, figlio di Giacobbe, sposa una pagana, una cananea, figlia di Sua. Il loro primo erede, sposa Tamar, ma muore presto. Muore pure il secondogenito Onan, dato di diritto in sposo a Tamar.

Per motivi diversi i due fratelli restano senza discendenza. Giuda rifiuta di dare a Tamar il terzo figlio, come sarebbe stato suo dovere: teme che - per una tragica magia - debba morire come gli altri due.

Morta la moglie di Giuda, Tamar si finge prostituta e si pone sulla strada del suocero, mentre questi si reca al mercato. Il primo dei due gemelli che Tamar avrà da quest'incontro incestuoso con Giuda, sarà Perez. Proprio lui sarà erede della benedizione e figurerà tra i figli ascendenti di Davide e poi di Giuseppe, sposo di Maria.

E così all'origine della tribù fortunata c'è un grave peccato. «Nel peccato sono stato generato»; così dovrà riconoscere il re Davide. Il peccato è nella mia storia, io sono figlio del peccato. Questo peccato peserà sulla coscienza e nella carne di tutta la discendenza. La disobbedienza a Dio nuovamente incarnata nel popolo, e continuamente operante. Chi riscatterà questa vergogna? Chi potrà pagare per redimere questa situazione che si trascina nella propria esistenza?

Ogni giorno il sangue di animali bagna l'altare, ogni giorno c'è bisogno di sangue per offrire un riscatto alla propria vergognosa situazione. Ma la coscienza del popolo non si libera mai da questo peso che continua ad esser portato da ogni generazione.

Deve intervenire Dio stesso a dare una speranza: «Tu sei davvero grande, Signore nostro Dio! Nessuno è come Te e non vi è altro Dio fuori di te, proprio come abbiamo udito con i nostri orecchi. E chi è come il tuo popolo, come Israele, unica nazione sulla terra che Dio è venuto a riscattare come popolo per sé e dargli un nome? In suo favore hai operato cose grandi e tremende per il tuo paese, per il tuo popolo che ti sei riscattato dall'Egitto, dai popoli e dagli dèi» (2Sam 7,22-23).

Proprio questi dèi sono i più pericolosi nemici che continuano a macchiare di peccato le generazioni. Il profeta Isaia dirà la parola della grande definitiva speranza (62,11s): «Dite alla figlia di Sion: ecco il tuo Salvatore; ecco ha con sé la sua mercede, la sua ricompensa è davanti a lui. Li chiameranno popolo santo, redenti dal Signore». «Non un inviato né un angelo, ma egli stesso li ha salvati: con amore e compassione egli li ha riscattati» (62,9) «Ecco io creo nuovi cieli e nuova terra: non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente» (65,17).

«Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe» (Sal 130,8).

L'uomo non deve preoccuparsi. Dio stesso lo ama tanto, che lo redimerà. Simeone ed Anna hanno riconosciuto l'intervento redentore di Dio nel bimbo portato al tempio. La sua presenza permette la libertà interiore e la gioia più profonda. La sua presenza permette agli uomini di guardarsi in faccia senza diffidenze, senza rimproveri, senza soggezioni. Il Redentore del popolo è venuto! Ed Egli non redime solo il popolo in generale, egli è redentore per i peccati nuovi, quelli di ognuno. «Il Figlio dell'uomo è venuto per servire e dare la vita in riscatto per molti» (Mt 20,28).

«Dare la vita» è il prezzo che il figlio dell'uomo presenta. «lo offro la mia vita» (Gv 10,17). «Questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti in remissione dei peccati» (Mt 26,28). Il nuovo sangue che fa finalmente dimenticare il passato è quello versato con un atto d'amore puro. Quel sangue versato termina il processo dell'incarnazione dell'Amore puro nella carne di peccato. Questa incarnazione era già iniziata a Nazareth, e s'è manifestata al Giordano per realizzarsi nella decisione libera del Getsemani e del Calvario.

Gesù incarna l'amore redentore di Dio: nel Giordano Egli si assume il peso e la vergogna del peccato del popolo e dei singoli uomini di tutte le tribù, sul Calvario porta a compimento l'Arnore puro che riscatta l'umanità.

Questo suo amore mi tiene attento, desideroso di rimanergli vicino.

Non posso ignorare chi mi ha amato, chi mi ha ridato coraggio e fiducia di essere interlocutore di Dio. Nella vicinanza c'è trasformazione. Egli mi comunica la forza del suo amore, ricevo da Lui capacità di dire, balbettando, «eccomi», «mi offro con te». Egli mi travasa il suo amore finché anch'io divento offerta e sento il mio corpo di carne e il mio tempo d'oggi, in cui sono sospeso, diventare luoghi dove continua ad esprimersi il suo dono, a versarsi il suo sangue, a fluire la sua redenzione sul mondo. Partecipo anch'io del suo redimere il peccato nel mentre mi offro a lasciarmi trasformare da lui. li mio peccato stesso e quello degli altri che finora mi pesava addosso perde di consistenza mentre l'amore di Gesù entra in me.

Con questa novità nella mia carne, l'amore che offre se stesso e trasforma in amore la mia vita e la mia eventuale gioia e sofferenza, io divengo nuovo. li mio passato esiste ancora, non è cancellato, ma diviene strumento dell'amore, esperienza e fondamento per un amore più puro, più vero, non idealizzato, non disincarnato. Del peccato di Giuda e di quelli di Davide come di quello di Adamo non mi vergogno più. Essi sono la situazione concreta in cui posso lasciarmi amare e diventare amore.

Nemmeno del mio peccato mi vergogno più. Esso è diventato esperienza e umiliazione, occasione di umiltà e indicazione di vigilanza ad un amore che conosce così i suoi campi d'azione più urgenti e personali.

Gesù con il versare volutamente il suo sangue per amore è divenuto il capostipite di un nuovo popolo. E' un popolo ancora peccatore, ma su tutti i membri si riversa la luce del nuovo e santo capostipite. Il santo Battesimo mi immerge nella sua purezza e lava i residui della vergogna dei peccati antichi.

Ripetute immersioni nella sua misericordia, che incontro nella confessione, mi rendono sempre nuovamente libero, mi rigenerano, sia perché su di me risplenda la sua opera di santificazione, sia perché la mia debolezza non infiacchisca tutto il corpo, tutto il popolo, e non pesi su di esso.

E' veramente grande e bella l'opera di redenzione che Gesù «mia gioia», ha operato. «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù» (Rm 3,23), «nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue» (Ef 1,7).

Pietro ha potuto addirittura scrivere: «voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale, gente santa ... » (1Pt 2,9), «ora siete il popolo di Dio»! E questo perché Gesù sacrificò se stesso per noi «per formarsi un popolo puro che gli appartenga» (Tt 2,14).

Noi, siamo proprio noi questo popolo. Anch'io vi appartengo. lo non sono esente da peccato, anzi, dei peccatori sono il primo. Ma appartengo al «popolo puro» per l'azione purificatrice del sangue di Gesù.

Egli con il suo offrirsi sulla croce ci ha pure «liberati dalla vuota Condotta ereditata dai nostri padri» (1,18). La nostra vita sarebbe Senza significato, basata sul nulla, sul vuoto. Un vuoto che è rappresentato dagli idoli che non resistono né al tempo né alla prova della sofferenza. L'amore di Gesù portato sulla croce dà una base eterna e sicura al mio vivere.

«Il Figlio vi fa liberi» (Gv 8,36). Sì, Gesù mi ha liberato dagli idoli e continua a tenermi sveglio perché io non li lasci appropriarsi della mia «condotta»; il Corpo ed il Sangue di Gesù, separati violentemente dalla morte accolta come atto d'offerta, si riuniscono nella mia carne quando lì ricevo nella celebrazione Eucaristica. Allora la mia redenzione non è soltanto liberazione dal peccato e dalla sua vergogna, diventa addirittura trasformazione, divinizzazione.

La sua forza d'amore, non solo vince il male togliendo via dal cuore i rimorsi, che altrimenti durerebbero all'infinito, ma mi rende capace di fare ciò che Lui ha fatto: trasformare le sofferenze che s'abbattono su di me, causate anche dal peccato degli altri e del mondo, in occasione di offerta, di amore. L'imprecazione e la lamentela cedono il posto al sorriso, al silenzio, al ringraziamento, all'adorazione.

Giuda, figlio di Giacobbe, col suo peccato può occupare ancora la pagina delle Sacre Scritture. Diviene una pagina che fa risplendere ancora più grande la misericordia del Padre, la libertà del Figlio e la forza santificatrice dello Spirito:

Gloria a Te, Padre, gloria a Te, Gesù, gloria a Te, Spirito Santo: eterna è la tua misericordia!

 

8. GIUSEPPE: l'uomo predestinato

Questo figlio di Giacobbe riveste una grande importanza nella vita del credente: di lui la Bibbia si occupa in maniera prolungata e dettagliata! Ben undici capitoli del libro della Genesi sono dedicati alla sua vicenda.

Giacobbe lo amava più di tutti i figli. Egli infatti era il primogenito della moglie Rachele, la donna del suo cuore. La tunica che gli fece confezionare, una tunica dalle maniche lunghe, era il segno esterno di quell'amore particolare.

Ed ecco il contrasto: gli altri figli non imitano il padre, non imparano da lui, anzi! essi odiano colui che il loro padre ama. Il prediletto del padre viene odiato dai fratelli: che il loro movente sia invidia o gelosia o altri sentimenti ancora non ha importanza, essi non godono d'avere un fratello amato dal padre, un fratello che, per di più, sogna le proprie grandezze. I sogni che Giuseppe racconta con infantile ingenuità incontrano il silenzio del padre che s'interroga sul loro significato, ma provocano ancor più l'invidia dei fratelli non abituati a discernere i modi di parlare e di comunicare di Dio. Essi hanno ancora un cuore pagano: non sanno che Dio parla... e che può parlare con i sogni degli altri!

Il padre sembra non dar peso all'invidia degli altri figli: egli è certo che colui che egli ama è amato anche da loro! e perciò manda Giuseppe a far loro visita, a vedere come stanno. Essi, quasi all'unanimità, complottano contro di lui, lo spogliano, lo gettano in una cisterna, lo vendono per venti sicli d'argento agli Ismaeliti, che lo portano in Egitto. Schiavo di Putifar, è onorato da Dio con successi. A causa della voglia peccaminosa della moglie del suo padrone, vien gettato in prigione. Quand'egli raggiunge i trent'anni viene presentato al faraone per ascoltarne i sogni e per capire la volontà di Dio. Eccolo a capo di tutto il paese d'Egitto, poiché il faraone riconobbe: «potremo trovare un uomo come questo, in cui sia lo Spirito di Dio?» (41,38). Dopo gli anni di abbondanza giungono realmente i sette previsti di carestia. E Giacobbe, dalla terra di Canaan, si vede obbligato a mandare i propri figli in Egitto per acquisti di viveri, «perché possiamo conservarci in vita e non morire»!

Questa è l'occasione in cui Giuseppe può finalmente leggere la propria vicenda, interpretare i fatti dolorosi della propria vita, le ingiustizie subite e le glorie ricevute, e riconoscerli come interventi provvidenziali dell'amore di Dio. «Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita» (45,5) «e per salvare in voi la vita di molta gente. Dunque, non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio, ed Egli mi ha stabilito padre per il faraone» (v. 8).

Giuseppe riesce a leggere persino il peccato grave dei fratelli che l'hanno odiato e venduto schiavo come strumento provvidenziale usato da Dio per il loro stesso bene.

Una vita strana quella di Giuseppe. Gli uomini lo abbassano, Dio lo innalza. Solo alla fine si scopre il vero motivo di tutte quelle vicende tristi provocate dal peccato degli uomini; allo stesso modo si scopre pure che vero motivo della gloria ricevuta era il servizio! «Dio mi ha Portato qui». Tutto era stato calcolato. Giuseppe era stato predestinato ad essere il salvatore dei suoi fratelli dalla carestia, dalla fame, dalla morte. Egli era un uomo predestinato!

Dio conosce il futuro, le necessità degli uomini che verranno, e nel suo amore provvidente e previdente lo prepara e usa persino lo sofferenza, addirittura il peccato, perché diventino strumento e occasione di vita, di salvezza, di gloria. Egli prepara lontano, in maniera sapiente, la salvezza e la storia della salvezza. Prende come suoi collaboratori gli uomini deboli, impotenti, cosicché risulti con evidenza che è Lui stesso ad agire. E' il suo amore che domina la storia! Essa, per colpa del peccato degli uomini, è intrisa di sofferenze e di morte, ma a loro volta queste sofferenze e questa morte possono venir accolte perché, in maniere per noi imprevedibili, siano occasione o strumento di una nuova e più grande manifestazione dell'amore di Dio. Quante analogie troviamo tra la storia di Giuseppe e la vita di Gesù! Gesù è il Figlio prediletto, rivestito di una tunica tessuta tutta d'un pezzo dall'alto! E' il figlio prediletto dal Padre e odiato dai fratelli. Mandato a loro per beneficarli è venduto e ucciso.

Egli così va dal Padre per preparare un posto. In lui non c'è spazio per il risentimento; anzi, Egli vede l'odio che s'abbatte su di sé come l'occasione per offrire da se stesso la propria vita. Egli vede la morte provocata dagli uomini come il calice offertogli dal Padre, che lo innalza alla sua destra donandogli potere in cielo e in terra per beneficare gli uomini stessi che l'hanno ucciso.

Ciò che il Padre prevede e prepara è sempre la salvezza degli uomini.

Essi rifiutano, ed Egli adopera questo rifiuto perché la salvezza entri ancor più in profondità nella loro vita! Gesù - come Giuseppe - è un predestinato alla gloria, che è servizio alla pace di tutti. Potremmo perciò dire che chiunque sia predestinato da Dio non lo è anzitutto ad una propria gloria - e tantomeno alla dannazione! -, ma a partecipare al dono della salvezza di Dio a tutti! il popolo infatti, tutto il popolo e tutta l'umanità è predestinato da Dio ad essere salvato, a rientrare nella dimensione di amicizia col Padre. Dio non predestina alla condanna come taluno ha pensato ancora è tentato di pensare! «Dio non ci ha destinati alla collera, ci ha destinati all'acquisto della salvezza» (1Ts 5,9).

Giuseppe è stato destinato ad essere salvatore dei suoi fratelli: per questo ha sofferto per causa loro e per loro amore.

Dio può chiedere anche a me di soffrire, di sopportare dolore, di portare il peso dei peccati anche altrui (oltre che miei).

Certamente ciò succede perché sono destinato a partecipare all'opera della salvezza, a preparare la realizzazione della salvezza dei miei fratelli.

Posso sempre quindi affrontare la sofferenza di qualunque tipo, compresa quella derivante da ingiustizie, senza disperazione e soprattutto senza risentimenti e vendette, perché attraverso di essa è in atto l’opera della salvezza, mia e altrui.

Giuseppe ci mostra come leggere la nostra storia di sofferenze, causate da ingiustizie, come necessaria preparazione alla salvezza dei fratelli: «è stato Dio a farmi venire qui». La gloria dell'esser vicerè d'Egitto non lo fa montare in superbia, perché anch'essa è solo servizio alla salvezza, sia dell'Egitto che dei fratelli.

Questa vicenda ci illumina sul vero senso della predestinazione. Dio ha destinato tutti gli uomini ad un'unica meta, ad esser «conformi» al suo Figlio, a vivere una vita da figli con Lui, Padre. Egli ha dato una via per raggiungere questa meta, e la via è sempre - per tutti l'uomo Gesù, che vive la figliolanza in modo pieno dentro tutti i limiti che l'esser uomo comporta. Dio vuole che l'uomo, che è peccatore, che si trova cioè fuori dell'armonia piena con Lui e quindi sminuito terribilmente nel suo essere - perché privo della relazione d'amore fondamentale - sia salvato, sia rimesso sulla strada per giungere alla meta, a godere del Padre!

Sono destinato alla «salvezza»!

Attorno a noi questo termine «destino» viene usato con un significato pagano. Me la sento ripetere spesso questa parola: è stato il destino? come se fosse una divinità che ha scritto o programmato come e quando uno deve ammalarsi o morire. Questa credenza diffusa considera i fatti solo esteriormente, astraendoli dal nostro rapporto con Dio Padre e dalla nostra possibilità di scelte libere, pur se sbagliate. Residuo dell'antico paganesimo, non ancora spento del tutto nella memoria del popolo. Ignoranza della Paternità di Dio che ci predeStina alla sua pace e fa Cooperare tutto, anche la sofferenza e la morte, per questo scopo.

S.Paolo.usa spesso nelle sue lettere il termine «predestinazione», ma sempre in senso positivo per manifestare l'amore lungimirante di Dio! «In Lui ci ha scelti... predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo» (Ef 1,5).

«Predestinandoci secondo il piano di colui che tutto opera efficacemente secondo la sua volontà, perché noi fossimo a lode della sua gloria» (1,12). «Quelli che da sempre egli ha conosciuto, li ha predestinati a essere conformi all'immagine del Figlio suo... Quelli che ha predestinati li ha anche chiamati...» (Rom 8,29). I predestinati vengono chiamati: hanno perciò la possibilità di accettare o meno il disegno cui Dio li prepara, il servizio che il Padre chiede loro. L'uomo viene avvicinato da Dio come uomo, come persona libera, capace di rispondere liberamente all'amore che lo interpella. Ed è solo amore il volto di Dio che s'avvicina all'uomo, solo amore, anche se l'uomo si trova schiacciato da varie situazioni: «chi ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?... In tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati» (8,35-37).

«Io sono infatti persuaso che né morte, né vita, né angeli né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezza, né profondità né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (38s).

Ciò a cui il Padre ci destina, o predestina, non è il corso della vita terrena, tanto meno l'inferno. Egli prepara tutto per la nostra gioia eterna, per la nostra gloria, come dice il re ai suoi "benedetti" nella parabola del giudizio: «venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo» (Mt 25,34). Il fuoco eterno invece non è previsto per gli uomini, bensì «per il diavolo e per i suoi angeli» (25,41). L'uomo lo sceglie rifiutando l'amore gratuito ai piccoli fratelli di Gesù.

La gioia cui siamo destinati, come ci ha detto s. Paolo, può esser preceduta da tribolazioni e angosce, malattie e persecuzioni. Sono le situazioni che provano e preparano, situazioni che allargano la strada perché altri possano seguirci. Così è successo a Giuseppe, così a Gesù, così agli Apostoli e ai martiri, così ai confessori della fede.

Noi teniamo lo sguardo fisso alla meta, e perciò nulla potrà spaventarci né scandalizzarci, cioè nulla potrà farci da ostacolo nel cammino verso la gioia eterna. E questo cammino, anche quando sarà aspro e faticoso, sarà un servizio d'amore puro per gli uomini, tutti gli uomini, cui siamo destinati come fratelli. E quegli uomini, fratelli, che ci fanno soffrire, saranno i primi a beneficiare del frutto della nostra sofferenza!

Signore Gesù, ti ringrazio e ti benedico!

Tu sei il primo predestinato a raggiungere la gloria, ad essere gloria di Dio, del Dio che vuol essere Padre per tutti gli uomini. E tu giungi alla tua destinazione e completi il tuo servizio passando per una valle oscura, quella della morte, dell'abbandono di Dio! Tu sei il segno che il Padre fa sul serio: egli vuole veramente che noi lo raggiungiamo; per questo ha chiesto a Te, figlio unigenito, di entrare nelle nostre sofferenze, nella nostra distanza da Lui per Ravvicinarci.

Tu hai accettato di camminare nell'oscurità e nel dolore perché noi, che eravamo tenebra, potessimo seguire la tua luce.

Come Giuseppe, e più di lui, hai accolto d'essere odiato e rifiutato e messo a morte dai fratelli per precederli e preparare loro un posto, un trono nel regno della pace. E quando essi ti raggiungono, anche se non ti sanno riconoscere, tu non rinfacci loro il peccato, ma riveli loro la bellezza del disegno di Dio: «non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio»!

Grazie, Signore Gesù!

 

9. MOS'E: l'uomo mandato

«Dapprima lo condurrà per vie tortuose»!

Questa parola che sembra l'osservazione di un fiume che scorre verso il mare, oppure il faticare di un sentiero che raggiunge la vetta d'una montagna, è divenuta la biografia dei santi, degli uomini di Dio, di quelle persone che Dio ha scelto, coinvolto nei suoi progetti, educato all'obbedienza e infine mandato come testimonianza. «Dapprima lo condurrà per vie tortuose».

E' la storia di Mosè. Mosè è un ebreo con cultura egiziana. Ebreo debitore agli egiziani. Un omicidio, operato come intervento umanitario di solidarietà, lo costringe alla fuga, lontano da ebrei e ed egiziani. Suo asilo è il deserto. Il luogo inospitale diviene la sua dimora stabile.

Anche le sue vie interiori sono tortuose. Qual è il suo dio? quello degli ebrei o quello degli egiziani? Il primo non lo ha conosciuto, il secondo non lo ha amato. Le tortuosità della vita lo hanno tenuto lontano dalla possibilità di vedere e incontrare un Dio.

Ora è nel deserto, nascondiglio dagli uomini. Mosè fugge gli uomini che gli sono diventati nemici. E quegli uomini che non gli hanno fatto incontrare un dio da amare, ora non impediscono più a Dio stesso di manifestarsi a lui.

Egli non desidera più tornare tra gli uomini: il deserto è diventato la sua casa, il luogo di sua moglie e dei suoi figli. Qui Mosè si trova bene. Non gli manca né il pane né l'amore. Qui Dio, un Dio misterioso, sconosciuto e attraente come il fuoco, attira a sé Mosè. E' la curiosità che si fa tramite dell'incontro.

Mosè si alza sconvolto. Un Dio che egli nemmeno conosce lo vuole incaricare di una missione proprio là donde era fuggito, proprio ora che s'è adattato al deserto.

Questo Dio che arde e brucia senza consumare si fa conoscere con nomi di uomini: lo sono il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe.Per conoscere questo Dio che gli ha parlato, Mosè dovrà farsi raccontare le vicende e la fede di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Questo Dio ha dei progetti, e non li realizza da solo, Egli vuole coinvolgere Mosè, l'uomo fuggito. Ed è un Dio che non fa leva sui sentimenti dell'uomo che interpella, né sui sentimenti affettivi, né su quelli di compassione, ma solo sulla propria autorità. Egli continua a dire «Mio popolo», non dice mai «tuo popolo». Mosè viene orientato da questo Dio ad un popolo che appartiene a LUI: è secondario il fatto che Mosè stesso si senta o no coinvolto. Ora è Dio, non il popolo, cui egli deve rispondere.

Dio ha udito il grido e visto la miseria del suo popolo. Dio decide l'intervento. Egli non chiede pareri a Mosè, non gli chiede valutazioni né indicazioni, ma solo obbedienza: «ora va'. lo ti mando dal faraone. Fa’ uscire il mio popolo».

Quanto Dio ha deciso lo dovrà fare l'uomo. Dio vuol liberare, ma lo farà Mosè. Le sue resistenze non sono prese in considerazione. Mosè ricalcitra. Egli si sente incapace, non adatto, ha paura, è diffidente. Vuole dei segni, ma non crede nemmeno ad essi.

Il bastone che diventa serpente e il serpente che diventa bastone non convince quest'uomo che ormai vive comodo nel deserto. E sembra invece che Dio si convinca sempre più che la propria scelta è azzeccata: Mosè incapace e incredulo è proprio la persona adatta. Dio non cede: «Io ti mando».

Questa parola sarà la forza e la sicurezza di Mosè: «lo ti mando».

Mosè è un mandato. Egli non agirà di propria volontà o di propria iniziativa: avrà sempre le spalle al sicuro, nella fede: Io! lo ti mando. Dio è impegnato.

Mosè avrà da combattere a destra e a sinistra, col faraone e col popolo stesso, con l'evidenza esteriore e con i sentimenti interiori, e sempre quell' «lo ti mando» gli è di rifugio e sicurezza. Nelle difficoltà, nella solitudine più completa Mosè avrà un solo sostegno: «Io ti mando». E' la certezza d'aver udito questa parola che renderà Mosè sempre più coraggioso e deciso. Anche nella preghiera - la sua lotta più difficile perché è lotta con il suo Dio - quell'«Io ti mando» produce sicurezza e fermezza fino ad ottenere che Dio ascolti più Mosè che non i propri proponimenti. L'uomo «mandato» non si lascia abbattere dalla propria impotenza, dalla propria incapacità, nemmeno dal proprio peccato.

Il nuovo e vero Mosè dell'umanità, Gesù, vive la propria presenza tra gli uomini con la stessa certezza del suo prefiguratore. Gesù non ricalcitra, anzi, si offre: «ecco, io vengo», Egli dice.

Ma starà nel mondo cosciente di essere mandato. Nel solo Vangelo di Giovanni appare quarantadue volte: «colui che mi ha mandato»! Gesù sa d'esser mandato. Questa coscienza gli dà forza e sicurezza, ma questa coscienza lo tiene pure in costante contemplazione. Egli è rivolto, proteso sempre a vedere e ascoltare e intuire la volontà e il desiderio e l'opera di Colui che lo ha mandato. Questa contemplazione lo occupa totalmente.

Egli non ha null'altro da dire se non le parole di colui che lo ha mandato, e non vuole compiere altro se non le sue opere. E ancora, Gesù è così attento al proprio esser mandato che non accetta alcun incarico da altri. Gli uomini lo vorrebbero acclamare loro re: Gesù fugge, perché non è questa la regalità che ha ricevuto come compito dal Padre.

Nell'obbedienza a colui che lo ha mandato Gesù trova pace e sicurezza, autorità e umiltà. L'umiltà soprattutto, nonostante la chiarezza della propria identità. Egli sa di provenire dal Padre, di avere autorità sul sabato e sugli spiriti, sa d'esser figlio eterno di Dio, e tutto questo con umiltà. Ciò è possibile perché sa d'esser mandato.

Sapere d'esser mandato è l'atteggiamento che Egli vuole inculcare ai suoi discepoli: per questo li manda allo stesso modo che lui è stato inviato: «Come tu hai mandato me nel mondo così anch'io li ho mandati nel mondo» (Gv 17,8).

E il giorno di Pasqua alla prima apparizione: «come il Padre ha mandato me, così Io mando voi» (20,21).

Gesù ha atteso la propria risurrezione per mandare i discepoli. Egli vuol mandarli non a fare qualcosa, ma a testimoniare e annunciare ciò che è successo: come Egli è testimone del Padre, così essi saranno testimoni del Figlio. Essi potranno annunciare la vittoria di Gesù, testimoniarla con la loro gioia, con una vita di amore disinteressato. Tutti i discepoli di Gesù sono dei mandati.

Qualcuno pensa che solo i preti si debbano sentire mandati, però io ho visto che se un cristiano qualunque non si sente un mandato fa molta difficoltà a essere cristiano. Se un cristiano ha coscienza chiara d'esser mandato dal Signore Gesù come suo testimone sa districarsi con sapienza evangelica nelle difficoltà, ha forza nel sopportare le ingiustizie, le ingiurie e le persecuzioni.

Se un cristiano vive come un mandato da Gesù riesce ad amare i nemici e a vincer molte prove, perché sa di dover essere testimone di qualcosa che non è suo, di un amore e di una vita che gli sono superiori.

Chi sa d'essere mandato ha chiarezza riguardo alla propria identità di credente e alla importanza del proprio compito spirituale.

Chi non si riconosce come un «mandato» si adagia facilmente nella ricerca di sistemazione nel mondo, nella ricerca di comodità, di giustizie, di sicurezze. E il suo essere cristiano perde le connotazioni caratteristiche per ridiventare un pagano che si rivolge a divinità con nomi cristiani.

il cristiano che sa d'esser mandato comprende cosa significhi esser «straniero e pellegrino» sulla terra, e comprende e gode di essere «familiare e consanguineo» di Dio.

Certamente anche per me prete vale lo stesso discorso. Se so d'esser mandato sono difeso dalla tentazione di comportarmi come se fossi padrone della fede degli altri. Se so d'esser mandato riesco ad orientare con maggior chiarezza i colloqui e la predicazione in modo da far risaltare il Volto e la Parola di Colui che mi manda. Altrimenti mi fermo ai miei ragionamenti. Ed i miei ragionamenti si abbassano con tanta facilità nella ricerca di prudenze e valutazioni umane, che annullano la forza del Vangelo. Se dimentico d'essere un mandato perde vigore la testimonianza, divento psicologo o filosofo o sociologo o filantropo che cerca di farsi accogliere dal mondo con cose che piacciono al mondo. Ingannerei il mondo e tradirei il mio ruolo che sgorga dall'amore del Padre per il Figlio.

Preti e cristiani non preti proveniamo tutti dallo stesso Signore e siamo insieme mandati nel mondo per essere agnelli in mezzo ai lupi. Gli agnelli sono una vita nuova, diversa, vita che non usa violenza o dominio, vita disposta a portare il peso dei peccati altrui, come Gesù agnello di Dio.

Siamo mandati a vivere la vita di Dio, il Dio uno e trino, il Dio che si fa amore. Siamo mandati a fare la sua volontà, a manifestare cioè la sua bontà e bellezza. Lo faremo operando secondo i carismi che ciascuno ha ricevuto, badando di conservare e accrescere l'unità che ci è stata donata.

Siamo tutti, noi cristiani, dei mandati, come Gesù, come Mosè. La liturgia ce la ricorda spesso, anzi ci rinnova spesso il mandato. Ogni azione liturgica si conclude col comando: andate in pace!

Dico sempre volentieri questa parola, come un invito, o addirittura come un comando: andate!

Mi pare di fare un dono a quanti hanno ricevuto con fede e amore la Parola di Dio e il Corpo di Cristo e hanno cantato con gioia le sue lodi: andate!

Ora inizia per voi la missione. Ora siete inviati! Avete ricevuto, ora andate a distribuire. Ho fiducia in voi, Dio ha fiducia di voi. Siete stati arricchiti, purificati, riempiti e trasformati: non state qui a godere la vostra unione con Dio e la vostra comunione reciproca, ma andate e illuminate il mondo, portate Spirito Santo a coloro che non sono venuti; riversate l'amore di Dio su coloro che incontrate perché anch'essi lo incontrino in voi e ne ricevano il profumo; riempite di un nuovo spirito le istituzioni umane che vi attendono! Le vostre case, le vostre famiglie, i vostri quartieri, le varie organizzazioni e tutti gli ambienti entro i quali siete inseriti possano ricevere da voi un soffio nuovo, un nuovo respiro: andate, voi che avete vissuto in pace con Dio, disseminate pace sui vostri passi.

Ricordatevi che siete mandati: io vi mando nel nome di Gesù, che ha detto: «vi mando come agnelli in mezzo ai lupi». E ancora ha ripetuto: «come il Padre ha mandato me così io mando voi»:

Sono contento di dare quest'ordine, così nessuno più se ne va come uno che s'allontana, come uno che decide da sé il proprio compito e ruolo, ma come uno che ubbidisce, e perciò il Signore stesso lo accompagna con la sapienza del suo cuore e con la potenza del suo Spirito!

Chi sa d'esser mandato ha una forza interiore meravigliosa, che non è sua, non è umana. Chi sa d'esser mandato, di quando in quando ricorda e contempla colui che lo manda: è il Signore Risorto, Gesù, colui che vince il mondo!

E ancora e aiutato a vedere coloro cui è inviato non come persone indifferenti, ma come «mio popolo», come popolo di Dio che attende d'averne coscienza.

Le energie di colui che è mandato sono quelle dello Spirito che egli riceve nel continuo rapporto di dipendenza e contemplazione del Signore Gesù, che alita ininterrottamente il suo Soffio Santo! E chi è mandato non soffre più crisi di identità, perché sa di essere un testimone, sa il perché della sua presenza - anche se silenziosa, anche se incompresa -, in qualunque ambiente: egli deve riflettere la luce che viene dall'alto, dal Sole intramontabile.

E chi è mandato sa ancora di non essere solo. Molti altri sono stati mandati insieme a lui, con lo stesso scopo e con le stesse energie interiori! Egli sa di essere parte di un'unità, membro di un corpo nel quale vivere l'unità e l'obbedienza.

Signore Gesù, mandato dal Padre, Tu hai lasciato la gloria di cui godevi prima della creazione del mondo. Sei giunto davanti a me mandato dal,Padre. Per questo io ho sentito dalla tua presenza l'amore eterno di Dio! Come Mosè è stato mandato al popolo per dare un messaggio di liberazione e per esserne guida sulla via verso la patria, così Tu sei venuto a noi!

Ed ora, Gesù, sono lieto di partecipare anch'io al tuo esser mandato. Sono lieto di esser membro di quel tuo corpo che è nel mondo per continuare nei secoli la tua missione.

Sono lieto e fiero d'essere ovunque sapendo che tu mi hai detto: ora va'! Ovunque sono, so d'esser qui con un compito per il quale tu ti sei impegnato.

Tu mi hai detto e mi ripeti. Io ti mando! Perciò eccomi nel mondo con fiducia nella potenza del tuo amore, anche quando mi pare d'esser su vie tortuose. «Sulla tua parola» vivo e opero e parlo. Sono poggiato su di te.

Gloria e grazie a te, l'inviato di Dio che mi coinvolgi.

 

Nulla osta: don Iginio Rogger, cens eccl. - Trento, 7 ottobre 1991