ME
NU

I Novissimi

I NOVISSIMI 

 

 

“Noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così com’egli è!”
(1Gv 3,2)

 

 

 

Copertina: La realtà è diversa, molto diversa e molto più bella della sua ombra. Delle realtà future conosciamo solo l’ombra che esse, alla luce di Dio, proiettano nella nostra mente e nel nostro cuore. Chissà quali bellezze e quanta bontà ci stanno aspettando, quando vedremo e gusteremo ciò che ci è promesso!

 

Domande di Dr. Maurizio Mellarini (Telepace Trento)
Risposte di don Vigilio Covi

febbraio 2012

 INDICE

primo incontro La MORTE

secondo incontro La Morte..., la cremazione, rivedere i propri cari

terzo incontro Contatti con l'al di là, Defunto, la Croce

quarto incontro Prepararsi alla morte, paura della Morte, il GIUDIZIO, il bene fatto

quinto incontro il Giudice, i 'fedeli' di altre religioni...

sesto incontro L'INFERNO, chi muore peccando (suicidio)

settimo incontro Purgatorio, PARADISO


        Sono stato interrogato dal giornalista di Telepace Trento, Maurizio Mellarini, che intendeva proporre ai telespettatori, in sette tappe, alcuni pensieri su temi che sembrano poco presenti nella riflessione dei credenti. Dico ‘sembrano poco presenti’, perché ritengo non sia del tutto vero. La speranza cristiana e ogni impegno del credente sottintendono sempre le realtà future, anche se di esse poco si parla esplicitamente.
        Nelle domande, e nelle risposte, che ho dato, troverai dei tentativi di annuncio o di risposta a interrogativi frequenti che riguardano la morte e quanto ci attende dopo di essa. Sono tentativi, perché l’argomento tocca il mistero di Dio, il mistero del suo amore per l’uomo e per l’umanità, il mistero della partecipazione nostra alla vita divina. Le nostre parole e le immagini che usiamo per pensare al mistero possono aiutare a comprendere qualcosa, ma sono pure sempre inadeguate ad esprimere la pienezza.
       Gesù ha affrontato più volte questo argomento, sia per rispondere ai suoi interlocutori, anche polemici, sia per annunciare con forza il suo invito alla conversione e al regno di Dio, sia per donare la consolazione dello Spirito Santo ai sofferenti che lo ascoltavano con desiderio e sete di verità. Il suo insegnamento può essere riassunto dalla risposta da lui offerta a chi negava la risurrezione e il mondo futuro, e quindi anche la verità di Dio: “I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui” (Lc 20,34-38).
       In questa fede sono vissuti e hanno parlato gli apostoli e i santi. Ad essi siamo riconoscenti e, con attenzione, ascoltiamo la loro testimonianza: “Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare” (1Pt 4,13).
       La nostra gioia non avrà fine, anzi, arriverà al culmine, quando si rivelerà la gloria del nostro Signore Gesù. È una gloria, quella di Gesù, che non ha avuto che l’inizio sulla terra, ma che riprenderà tutto il suo fulgore dopo la sua morte: “Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse” (Gv 17,4-5). La sicurezza di Gesù ci obbliga a guardare al dopo di questa vita sofferente con serenità, anzi, con gioia!

Don Vigilio Covi

torna su

 

Primo incontro 


Iniziamo il nostro piccolo viaggio in questa tematica tanto delicata, ma anche tanto affascinante, tanto importante per la vita di ognuno di noi. Desideriamo parlare dei Novissimi. Si usa questo vocabolo per accennare alle realtà ultraterrene; ma che cosa significa la parola Novissimi?

Il termine «Novissimi» è antico, ma si trova ancora nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Con questo termine vengono indicate le realtà ultime: novus in latino significa ultimo. Noi lo traduciamo istintivamente con nuovo; non è del tutto errato, perché le cose ultime sono anche nuove. “Novissimi” significa, quindi, le realtà ultime, tanto ultime che ci sono sconosciute. Sono la Morte, che è l’ultima esperienza che attendiamo di vivere su questa terra; il Giudizio, perché crediamo che dopo la morte ci accoglierà il Signore e, come sappiamo dal Vangelo, ci dirà “Venite a me” oppure “Via, lontano da me” (Mt 25,31-46): sarà il confronto completo e definitivo con l’amore di Dio. Infine vedremo la conclusione, il Paradiso, per chi viene accolto alla destra del Re pastore, o l’Inferno, per chi viene mandato alla sua sinistra.

Il momento della morte, in fondo, è un momento di passaggio fondamentale, che noi crediamo rappresenti anche l’unico modo per poter vedere finalmente il volto di Cristo.

Sulla base della Parola di Dio e delle rivelazioni del Signore, noi, credenti cristiani, pensiamo la morte come passaggio, come il momento- culmine oltre il quale egli stesso ci aspetta nella sua gloria. Al di là dei «Novissimi», perciò, noi vogliamo tenere il nostro sguardo fisso sullo stesso Signore Gesù, come ci raccomanda San Paolo, e ben due volte l’autore della lettera agli Ebrei: “Tenete il vostro sguardo fisso su Gesù” (Eb 3,1; 12,2). Lo teniamo fisso su di lui perché Egli, Alfa e Omega, è il Primo ed anche l’Ultimo, al di là della Morte e al di là del Giudizio. Potremmo dire anche che è lui il Paradiso, il nostro traguardo. Su questa terra noi siamo un po’ come i ciclisti, il cui pensiero è costantemente al traguardo, e per raggiungerlo fanno volentieri la fatica di ogni pedalata, o come i corridori, che ad ogni passo pregustano la gioia del premio vicino.

Soffermiamoci sul momento della morte del corpo fisico. Per noi cristiani non è la fine, ma è un altro inizio; però c’è anche chi ritiene che dopo la vita terrena non ci sia altro, che con la morte del corpo tutto sia finito, e ci sono anche coloro che, come i seguaci delle religioni orientali, credono nella teoria della reincarnazione, una teoria secondo la quale lo spirito trasmigra in altri corpi per compiere un processo di purificazione.

Noi viviamo orientati verso la morte. Fin da bambini scopriamo che ci sono dei segni di questa realtà che ci attende alla fine: malattie, piccoli incidenti, paure, incapacità, malesseri; sono tutte esperienze parziali di morte, cioè del venir meno della nostra vita. Siamo sicuri che tutti muoiono, persino chi arriva a centodieci anni! Anch’egli morirà e, diceva un predicatore, “forse anch’io!”. Quel “forse” ci fa sorridere, però è molto importante, perché esplicita il nostro desiderio di vivere, afferma che noi siamo fatti per la vita, non per la morte. Quindi, ecco, tutti moriremo, però sappiamo che la morte non è ancora il traguardo.

Sulla morte ci sono varie opinioni.
C’è chi dice: con la morte tutto finisce, quando morirò io sarà come quando muore uno scorpione sotto la scarpa.
C’è chi dice che oltre la morte c’è un’altra vita, più o meno come questa, tanto che è entrata a far parte del linguaggio una parola tipica delle credenze indiane: reincarnazione. Sembra una parola che libera da chissà quali mali, ma in fondo non cambia nulla. Con essa si afferma che ci sarà una morte seguita da un’altra vita che muore ancora, e così via, non si sa fino a quando. Sembra solo una scusa per procrastinare le decisioni importanti della vita. La mentalità che si accoglie con questa credenza favorisce un de-responsabilizzarsi sui passi da compiere, che sembrano non essere definitivi. La credenza della reincarnazione manifesta una perdita di coscienza dell’esistenza e dell’importanza di Dio. Sembra quasi che Dio non conti più nulla. Le credenze indiane, infatti, ignorano Dio e, anche se ne parlassero, si tratterebbe di un Dio che non ascolta e non parla, che non è capace di alcun rapporto con me e con te.
Noi, invece, vediamo la morte, come già accennato, come l’ingresso alla vita eterna, come passaggio attraverso una porta che ci introduce ad una vita senza limiti, senza quei limiti dati oggi dal tempo o dalle cose che passano, dati dallo spazio, dai limiti delle nostre mancanze di gioia, di serenità, di comunione, di armonia gli uni con gli altri. Ingresso alla vita eterna! Santa Teresa di Gesù Bambino diceva: “Io non muoio, entro nella vita”.

La prima opinione, quella del ‘tutto è finito!’, in genere, è quella dell’ateo, di chi non crede l’esistenza di Dio. È ciò che dicevano i Sadducei (Lc 20,27; At 23,8), la setta degli Ebrei che esercitava il potere nel Tempio a Gerusalemme: erano i più ricchi, e forse proprio la ricchezza li ha portati a dubitare dell’esistenza di Dio e della sua eternità, per giustificare la propria mancanza di misericordia e la vita godereccia, quale quella del ricco epulone della parabola raccontata da Gesù nel Vangelo secondo Luca (16,19).

La seconda opinione, quella della reincarnazione, è l’opinione di chi non ama e non vuole le decisioni serie e definitive, o anche di chi vorrebbe conciliare la misericordia di Dio con la propria concezione di giustizia: la misericordia di Dio ti darebbe una nuova possibilità e la sua giustizia, anche nella nuova possibilità di vita, ti farebbe ancora soffrire: quelli che professano la credenza della reincarnazione, infatti, affermano che ci sarà comunque, qualunque forma assumerà la vita seguente, la sofferenza che dovrebbe purificare la propria esistenza.

L’opinione del credente: la morte è l’ingresso alla vita eterna, è la speranza su cui è fondata la vita con le sue fatiche e sofferenze. Questa opinione, che per il credente è certezza, è basata sulle parole della Sacra Scrittura, soprattutto sull’evento della resurrezione di Gesù. Se lui è risorto, anche noi, che siamo suoi, che ci siamo consegnati a lui, anche noi risorgeremo. Abbiamo pure gli insegnamenti degli Apostoli che ci confortano in questo atto di fede: credo nella vita eterna, credo la vita del mondo che verrà!

Questo, per quanto riguarda le opinioni sulla ‘Morte’. Giudizio, Paradiso e Inferno, invece, sono misteri che seguono la morte: essi sono oggetto di riflessione soltanto per i credenti, ebrei e cristiani, e, in parte, per i musulmani. Dico in parte, perché per i musulmani il Giudizio, anche se fa parte del loro credo, è già avvenuto: ritengono, infatti, che essi soltanto entreranno in paradiso, mentre tutti gli altri andranno all’inferno; ciò significa che il Giudizio è già concluso. Essi non lo attendono, se non apparentemente.
Su questo mistero noi riflettiamo basandoci soprattutto sulle affermazioni e rivelazioni della Parola di Dio.

torna su

 

Secondo Incontro 


Abbiamo parlato della morte. Torniamo a parlarne almeno per alcuni minuti, perché ci sono ancora alcuni elementi da affrontare, da analizzare. Innanzi tutto il linguaggio della morte, linguaggio che ci accompagna nel momento in cui salutiamo qualche nostro caro che è tornato alla casa del Padre.

Gli annunci funebri qui da noi molte volte portano questa dicitura: “Il Tale è mancato”. Non so cosa significhi, non so da dove venga questo modo di dire. Mi sono immaginato che sia stato qualche addetto alle pompe funebri ad inventare questa espressione, non volendo dispiacere a nessuno: oggi, infatti, le parole ‘morte’ e ‘morire’ sembrano escluse dal parlare comune. E tutti si adattano al linguaggio nuovo, che esorcizza le parole ‘morte’ e ‘morire’. Anche i cristiani, purtroppo, accettano supinamente tutte le mode, lasciando condizionare da esse la propria capacità di esprimere le peculiarità della fede e di esserne testimoni.
Nell’antichità i cristiani avevano cominciato a distinguersi dai pagani anche per il linguaggio con cui esprimevano questa realtà. Quando uno moriva, dicevano “si è addormentato”. Avevano imparato da Gesù, che di Lazzaro aveva detto “si è addormentato” (Gv 11,11). I cristiani hanno usato questo linguaggio, benché strano per l’ambiente che li circondava: uno che muore, infatti, non dorme, ma muore. Essi però, in questo modo, hanno voluto esprimere, e noi ancora vogliamo comunicare, la fede nella risurrezione. Sappiamo che la morte, come abbiamo già detto, non è l’ultimo passo, non è l’ultima realtà, proprio come il sonno, che è attesa del risveglio. La morte è una specie di sonno che attende il risveglio della risurrezione. Anche nelle nostre preghiere, particolarmente nella Messa, diciamo, parlando dei morti: “coloro che si sono addormentati”; e preghiamo per loro come per i viventi.
La stessa parola l’abbiamo usata per indicare il luogo della sepoltura: lo chiamiamo Cimitero, dal termine greco «koimetèrion», che significa semplicemente «dormitorio». È il luogo in cui «dormono» i nostri cari, i fedeli defunti che attendono la risurrezione. Ci sono altri modi di dire per annunciare la morte. I certosini per esempio, quando muore uno di loro, dicono: “È stato promosso al regno dei cieli”. Vorrei che lo diceste anche per me, quando morirò: direte che sono stato promosso al regno dei cieli! È un’espressione molto bella: a me piace più di qualsiasi altra. È come dire che ho superato l’ultimo esame, l’esame della fedeltà a Dio, oppure che sono sicuro che la fedeltà di Dio dà il premio a coloro che hanno dedicato a lui la loro vita.
Chi non crede la risurrezione, invece, parla della morte con un linguaggio che non lasci trapelare l’idea della continuità e dell’eternità. Noi godiamo di pregare il salmo che dice: “Il mio corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro!” (Sal 16,10).

Dobbiamo spendere alcune parole anche su quello che è il momento della sepoltura, o meglio, del trattamento che viene riservato alla salma. Oggi infatti è abbastanza in voga la pratica della cremazione. Che cosa ne pensa la Chiesa cattolica?

Anche il modo di trattare la salma esprime la mentalità e la fede di chi si occupa di essa. Sappiamo che i romani, pagani, bruciavano i cadaveri, così come fanno gli indù oggi in India. Altri popoli consegnano i cadaveri agli avvoltoi. Alcune tribù portano gli anziani, vicini alla morte, nella foresta, perché siano pasto delle iene. Né pagani né indiani credono infatti la risurrezione. Noi, imparando dagli Ebrei, seppelliamo le salme dei defunti nella terra. Gli Ebrei li seppellivano nelle grotte, e così i primi cristiani. Se non c’erano grotte, le scavavano, come Giuseppe d’Arimatea ha scavato il sepolcro offerto a Gesù, oppure, come hanno fatto a Roma, scavavano le catacombe. Noi li mettiamo semplicemente in una fossa coprendoli poi con la terra.
Seppellendo i cadaveri, non volendo essere noi a distruggerli, esprimiamo la nostra fede: Dio ci farà risorgere, ci riconsegnerà alla vita. Sarà riconsegnata alla vita non solo un’idea di noi, ma ciascuno col proprio nome, con la propria individualità. In questo ci distinguiamo dalle credenze orientali che affermano, senza peraltro portare fondamenti credibili, che saremo assorbiti, come goccia d’acqua nell’oceano, e spariremo nel nulla. Noi crediamo che ciascuno di noi manterrà la propria identità. Dio ci consegnerà alla vita perché Gesù è risorto, e noi, che siamo suoi, saremo come lui: egli è il primo e farà partecipare anche noi alla sua resurrezione.
Noi cristiani siamo abituati ad usare la parola «risurrezione»: dobbiamo pensare, però, che per i discepoli di Gesù questa parola era nuova, e non la comprendevano. Non hanno avuto nemmeno il coraggio di chiederne la spiegazione al loro Maestro, quando ne parlava (Mc 9,10). S. Paolo ha tentato in vari modi di spiegarla, in particolare al cap. 15 della prima lettera ai Corinzi. Tra l’altro ha anche scritto: “Non vogliamo lasciarvi nell’ignoranza circa quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo che Gesù è morto ed è risuscitato. Così anche quelli che sono morti Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui” (1Ts 4,13). “Tutti vivono per Dio” (Lc 20,38) aveva detto Gesù ai Sadducei che lo tentavano, perché essi appunto credevano che con la morte tutto è finito. “Tutti vivono per Dio” (Lc 20,38), quindi continueremo ad avere ancora un rapporto d’amore con lui, un rapporto vivo, personale, vero, più vero che non adesso, perché adesso i nostri rapporti d’amore sono condizionati e limitati sia dalle cose che passano che dai nostri egoismi.

Fino a qualche anno fa la posizione della Chiesa cattolica era nettamente negativa riguardo alla cremazione, perché in passato veniva richiesta soltanto da coloro che con essa intendevano sostenere il proprio rifiuto della fede nella risurrezione, e quindi della fede cristiana. Da qualche anno, per mancanza di spazio, in qualche località ci si è trovati quasi costretti a trovare soluzioni alternative alla sepoltura dei cadaveri: da allora pare che nessuno attribuisca alla cremazione il significato di negare la fede nella risurrezione. Bisogna dire pure, purtroppo, che talvolta non è il problema ‘spazio’ che incide nelle decisioni dei fedeli, ma c’è di mezzo la reclamizzazione e l’insistenza economicamente interessata di qualche società o associazione.
Di per sé la Chiesa non si oppone alla cremazione, semmai al significato che le potrebbe venire attribuito. Se il suo significato fosse il rifiuto della fede nella risurrezione, certo, la Chiesa non potrebbe accettarla, e non potrebbe permetterla ai fedeli.

C’è chi dopo la cremazione disperde le ceneri del defunto, chi invece chiede di poter tenere l’urna delle ceneri in casa.

Sì, e ho visto anche un’urna posta come un soprammobile in una casa. Sono rimasto sconcertato. Mi sono chiesto: come mai questa famiglia vuole privare il proprio caro defunto, la persona che ama, del ricordo di tutta la comunità? Quando vado al cimitero leggo i nomi sulle lapidi, e recito una preghiera per loro: essi hanno fatto parte anche della mia vita, non solo della vita della loro famiglia; se qualcuno manca a questa rassegna, a questa preghiera… Che ci si appropri anche solo dei resti di una persona mi lascia sconcertato. Nessuno appartiene a qualcuno, nemmeno ad una famiglia, ma ognuno è parte del popolo, anzi è del Signore, quindi non devi tenertelo tu. Non posso accettare che qualcuno tenga in casa propria, nascosti allo sguardo di tutto il paese o di tutta la popolazione, i resti di un defunto; ancor meno, naturalmente, posso accettare che li si disperda al vento, anche nel caso il defunto stesso avesse manifestato o scritto questo come sua volontà: mi parrebbe un disprezzo verso di lui e verso il Padre che lo ha amato e ancora lo ama.

Ci sono tante domande che tutti noi ci poniamo sull’aldilà, su ciò che avverrà e ciò che si vedrà nel dopo. Una delle domande che sentiamo spesso porre è questa: dopo la morte potrò rivedere il volto dei miei cari, il volto di mia madre, il volto di mio padre? È possibile dare una risposta a questa domanda?

Questa domanda è diventata, ed è ancora, e lo è ogni giorno, la nostra preghiera, quando nella celebrazione Eucaristica il sacerdote dice: “Concedi anche a noi di ritrovarci insieme a godere per sempre della tua gloria”. La nostra preghiera presenta a Dio questo desiderio: “Concedi anche a noi di ritrovarci insieme”.
Ricordo questo fatto: una sposa stava preparandosi a morire. Il marito le disse: “Se sei d’accordo, ci ritroveremo tutti i giorni. Alle quattro e mezzo io andrò al televisore sul canale di Telepace e reciterò il Rosario, e tu pure, alla stessa ora, lo farai, come te lo permetterà il Signore in Paradiso”. Lei è morta e lui, tutti i giorni, a quell’ora entrava in camera da solo e recitava il rosario; era in comunione con la sua sposa. Quando anche lui è morto, si saranno incontrati?
Il desiderio di incontrarci con i nostri cari che cos’è? In fondo è il desiderio di continuare a vivere le gioie più intense che abbiamo provato qui sulla terra, e sono le gioie intense della consolazione e della comunione che è nata tra di noi nel vivere insieme, nel soffrire insieme, nel credere e pregare e far festa insieme. Se avremo la grazia di esser resi degni del Paradiso, questa gioia sarà di certo superata, sarà molto maggiore. Credo che tutte le nostre attuali gioie potranno essere comprese in quella gioia immensa che ora non possiamo nemmeno descrivere nè immaginare. Nemmeno l’apostolo s. Paolo è riuscito a descrivere la gioia che proveremo in Paradiso, anche se ha tentato di farlo.
Ecco, siccome noi sappiamo, crediamo, siamo sicuri che la morte è un passaggio che ci fa arrivare all’abbraccio di Dio, e di Dio “Padre”, che ci ama con tutto l’amore possibile e immaginabile; siccome il morire è l’arrivare a questa gioia immensa, certamente ci sarà data allora anche quella gioia che qui proviamo nell’incontrarci tra di noi. A Dio tutto è possibile: a lui è possibile anche donarci la gioia dell’incontro con le persone che abbiamo amato; questo dipende dalla grandezza e dalla fantasia del suo amore, che sa creare e donare sempre il meglio per noi.

torna su

 

Terzo incontro 


Ci stiamo addentrando nei temi dell’aldilà, temi della morte, di quella vita ultraterrena che ci aspetta dopo la morte del nostro corpo, i Novissimi insomma. Ci sono persone che cercano di ristabilire un contatto con l’aldilà. Pensiamo a tante persone provate da un lutto molto grave, che hanno perso la persona amata e cercano, rivolgendosi ai cosiddetti medium, di ristabilire proprio questo rapporto, di poter ancora parlare con chi è passato dall’altra parte. Vorrei che ci focalizzasse questo fenomeno, mettendo anche in rilievo, eventualmente, i rischi connessi.

Il fatto di credere che i defunti vivono ancora, porta qualcuno a pensare di continuare con qualcuno di loro un dialogo, un rapporto fatto di domande e risposte, come lo avevano qui, e forse ancora più intenso. Non dobbiamo dimenticare,però, che la nostra fede ci dice, e noi lo crediamo, che i morti vivono “nel Signore” (Ap 14,13); non dobbiamo dimenticare questo particolare “nel Signore”. Quindi noi dovremmo interrogare il Signore, non i defunti.
L’interrogare i defunti è una tentazione antica. Già S. Agostino ai suoi tempi, osservando le esperienze dei suoi contemporanei, ebbe a scrivere: “Interrogano i morti, risponde il diavolo”.
Quando noi moriamo, se il Signore ci rende degni del Paradiso, saremo con lui e faremo tutto quello che lui ci permetterà. Sappiamo dalla parabola raccontata da Gesù, quella del ricco epulone, che tra lui e Lazzaro c’era un abisso e che “non si può più passare da qui a lì” (Lc 16,19-31): non è più possibile un contatto diretto.
Allora, quelli che cercano di stabilire un contatto con i morti, come possono ottenerlo? Da Dio non lo ricevono, lo riceveranno dal nemico di Dio, come dice appunto s. Agostino: “Risponde il diavolo”. Per questo è molto pericolosa l’interrogazione dei defunti, o negromanzia. Entrare in rapporto con Satana è pericoloso: è lupo che sa presentarsi con vesti d’agnello; lui è più forte di te, e più astuto; approfitta della mancanza o della debolezza della fede. Ho incontrato qualche persona che mi diceva pressappoco così: “Con la scrittura automatica o con altre tecniche, ho parlato con il mio caro figlio, morto tragicamente; mi ha detto cose belle, mi ha detto di pregare, mi ha detto di andare a confessarmi, di andare a messa la domenica: penso, perciò, che sia una cosa buona!”. Da tali risposte, che sembravano apprezzare la fede e sostenerla, queste persone erano portate a ritenere assolutamente buona e valida questa pratica e davano molta fiducia al “medium” interrogato. Ma cosa succedeva? Dopo qualche settimana i messaggi cominciavano a cambiar tono, e invece di invito alla preghiera diventavano un puntello per abbandonare qualunque comunione spirituale con gli altri credenti, o aggiungevano particolari che facevano deviare dalla fede cristiana. Così queste persone si ritrovavano piene di orgoglio, sicure di avere conoscenze superiori di quelle della Chiesa: ormai erano prive di Spirito Santo e quindi anche di vero discernimento e di forza interiore; si ritrovavano sempre più sole, sempre più isolate. Ho saputo anche che alcuni che hanno praticato a lungo i metodi per stabilire un contatto con i defunti sono finiti in psichiatria, qualche altro, più fortunato, ha potuto trovare sollievo da un esorcista: si era rivolto a lui perché, in seguito ai presunti contatti col defunto, percepiva dentro di sé quasi un’altra presenza, si sentiva come costretto a convivere con un’altra ‘persona’ presente nel proprio corpo. Questa esperienza implicava una sofferenza terribile e insopportabile.
Per questo la Chiesa, con forza, ripete semplicemente quello che dice la Sacra Scrittura: nel libro del Levitico più volte è scritto esplicitamente che Dio proibisce assolutamente qualunque forma di negromanzia e di magia, e così anche in altri libri della Bibbia (Lv 19,26.31; 20,6; 20,27; Dt 18,10-11.14; 1Sam 15,23; 2Re 17,17; 21,6; 23,24; 2Cr 33,6; Is 8,19; 19,3; 44,25; Ger 27,9; Zac 10,2; Sap 12,4; At 8,9; 16,16). La Chiesa non fa altro che rendersi portavoce di questi insegnamenti di Dio.
Noi cristiani, celebrando le esequie, consegniamo il nostro caro defunto nelle mani di Dio. Sappiamo che il nostro amore è pieno e perfetto, anche verso i defunti, quando si esprime nella comunione della Chiesa, comunione dei santi. Celebriamo il funerale per consegnare il fratello alla misericordia del Padre, preghiamo per la sua perfetta pace, lo ricordiamo celebrando negli anniversari l’Eucaristia, in cui il suo nome viene unito a quello di Gesù. Lo affidiamo ai cori degli angeli e alla schiera dei santi, che lo riconoscono uno di loro. Troviamo pace nel continuare la comunione con loro dentro il cuore di Dio, dentro la sua misericordia.
Può succedere che qualcuno sogni il proprio caro defunto: non è andato a cercarlo, ma riceve questo speciale ‘incontro’, che può essere di consolazione se lo sogna contento, oppure lo percepisce come invito a pregare ancora per lui, nel caso lo sogni serio o triste. Questi sogni li possiamo interpretare come piccoli doni o segni di Dio, ma non li cerchiamo, e nemmeno cerchiamo di interpretarli troppo, per non venire ingannati dalle nostre fantasie.

Ogni parola ha un significato, ed è importante analizzare e approfondire il significato delle parole. Collegandoci alla sua ultima risposta, voglio chiederle qual è il significato del termine defunto da lei più volte usato?

La parola “defunto” deriva dal latino e indica la persona che ha terminato il proprio compito, che è riuscita a portare a compimento la propria missione. È bello questo termine, che proviene dalla nostra fede, perché ci aiuta a considerare la nostra vita come una vocazione. Noi siamo al mondo per svolgere un compito, la nostra vita è una vocazione in vista di una missione. Siamo chiamati per svolgere un compito, e quando l’abbiamo terminato ne consegniamo il frutto a Colui che ce lo ha affidato. La parola ‘defunto’, quindi, ci dovrebbe aiutare a tenere presente che la nostra vita è una risposta all’amore di Dio.
Dio, che ci ha amato, e ci ha riempito d’amore, ci ha dato il compito di portare il suo amore, in vari modi, ciascuno in maniera diversa, e di farlo fruttificare come un talento da raddoppiare o triplicare. Questo termine quindi è prezioso: ci aiuta a vedere la vita come possibilità e responsabilità di compiere la missione che ci è stata affidata. Così il pensare alla morte non dovrebbe far paura, come se fosse un fantasma: con essa non mi viene tolta la vita, perché sono io che la riconsegno!

Hanno un significato le parole, ma hanno anche un grande significato i segni. Sulle nostre tombe vediamo la croce, croce che è segno di sofferenza, segno di morte, ma soprattutto segno di speranza, segno di vita.

Gesù ha cambiato i connotati alla morte: ce lo dice il Papa Benedetto XVI nel suo secondo libro sulla vita di Gesù. Egli ci ricorda che la nostra morte è come quella di Adamo. Adamo ha vissuto la morte come un castigo, come conseguenza del suo peccato, e quindi anche noi siamo portati a vedere la morte proprio come un castigo: è il castigo per il peccato dell’uomo, per il peccato del mondo. Gesù, però, è senza peccato: per lui la morte non può essere “salario del peccato” (Rm 6,23), come la definisce san Paolo, perché egli è senza peccato. Gesù ha vissuto la morte come l’atto più forte e significativo della sua vita, l’atto più intenso e decisivo del suo amore. Egli ha offerto se stesso: ha vissuto la morte come l’offerta della propria vita al Padre. Noi ci accorgiamo che, senza Gesù, abbiamo paura della morte, una paura che genera invidie, prepotenze, violenze, sopraffazioni. Invece, con Gesù, andiamo incontro alla morte come al compimento del nostro amore, come alla pienezza del dono di noi stessi nel servizio, nella carità, nell’umiltà. Con la sua morte Gesù ha vinto la morte, dicono molti canti della liturgia, in particolare di quella orientale: “Con la sua morte ha calpestato la morte”. Sulle icone, sotto il crocifisso, è presente il teschio di Adamo, a significare che la croce di Gesù è piantata, come simbolo di vittoria, sul teschio che fa paura. Così ci vien fatto osservare che la nostra morte è stata vinta dalla morte di Gesù! La sua croce è l’albero della vita, che porta il frutto più bello, che è appunto la vita e l’amore di Gesù.
La croce, sia quella piccola che portiamo addosso, sia quella delle tombe, sia quella che abbiamo nelle chiese o quella che dà vita alle nostre campagne e ai nostri monti, la croce non è simbolo della morte, ma dell’amore vero, dell’amore pieno e perfetto. Per questo motivo noi amiamo la croce e il Crocifisso; non lo vediamo come un emblema della morte, ma come la raffigurazione della vita vera, di quella vita che si perfeziona nell’amore, nel dono di sé, appunto come Gesù, che ha donato se stesso sulla croce.
Osserviamo che là dove regna l’odio, dove hanno preso piede ideologie terribili, come quelle del secolo appena passato, là la croce dà fastidio e viene eliminata con disprezzo. Anche le religioni che non parlano d’amore rifiutano con violenza la croce, come oggetto o segno che infastidisce e offende. In fondo noi sappiamo che nemico della croce è il diavolo, proprio perché non è capace di amare; noi invece guardiamo la croce come il segno, soltanto un segno, ma segno sublime dell’amore più grande, cui desideriamo partecipare.

torna su

 

Quarto incontro 

 

Continuiamo a parlare della morte, un traguardo che nessuno assolutamente può evitare. La domanda che ci poniamo, e che si pongono tutte le persone quando pensano a questo momento, è: «È possibile prepararsi alla morte, e come?»

La tua domanda mi fa venire in mente il momento in cui, alcuni anni fa, fratel Matteo Ponteggia di Dorsino, della congregazione dei Poveri Servi di san Giovanni Calabria, proprio in questa Casa ha vissuto i suoi ultimi Esercizi Spirituali. Poco prima di partire mi ha chiesto: “Come devo vivere questi ultimi giorni della mia vita?”. Per un tumore soffriva ormai da anni e sapeva che quelli erano i suoi ultimi giorni. Sono stato preso alla sprovvista, da una tale domanda, e lì per lì mi pareva difficile rispondere. Il Signore mi è venuto in aiuto; mi ha fatto venire alla mente la sua Parola: “Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà al suo lavoro” (Lc 12,43). Ricordo bene la gioia di fratel Matteo all’udire questa frase, e così, con questa gioia, egli ha concluso i suoi ultimi Esercizi Spirituali. Una settimana dopo è stato promosso al Regno dei Cieli (ora è in corso la sua causa di beatificazione).
Prepararsi alla morte è certamente possibile. San Paolo ci esorta: “Se, invece, con l'aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete” (Rom 8,13). Lo Spirito Santo ci prepara alla morte. Noi possiamo seguire le ispirazioni dello Spirito Santo attuando piccole e grandi mortificazioni, anche volontarie, per distaccarci dalle bellezze di questo mondo, per fare a meno anche delle cose che ci sembrano necessarie, ma che certamente dovremo lasciare, quando moriremo. È possibile prepararci a questo momento, ed è possibile prepararci con maturità, con libertà e con gioia. Ci serviranno momenti di silenzio e di preghiera, per dare spazio e importanza a Gesù, colui che troveremo: infatti preparasi alla morte significa prepararsi all’incontro definitivo con lui.
La Chiesa poi prevede, secondo l’insegnamento degli apostoli (Gc 5,14), la celebrazione di un apposito Sacramento, quando la sofferenza del corpo fa temere l’approssimarsi della morte.

Sì, ma spesso si vede difficoltà o paura nel decidere di chiedere l’Unzione degli Infermi per sè o per i propri cari gravemente malati. Perché?

Tutto dipende dal rapporto che il malato o i suoi parenti hanno con Gesù. La paura è sempre sintomo di mancanza di amore. Chi si è convertito all’amore di Gesù accoglie, anzi, desidera e chiede tutti i possibili aiuti che la Chiesa può donare, sia a sé, sia a chiunque altro. Di solito il cristiano, quando si sa gravemente malato, accoglie con gioia la preghiera e la benedizione del sacerdote con l’Unzione. Bisogna avere il coraggio, o la fede, di proporla a lui direttamente. Si può amare l’ammalato più dei suoi stessi parenti! Nemmeno il medico, del resto, chiede ai parenti quale medicina egli deve porgere al malato.

Seguendo il cammino che tu ci hai descritto, è possibile anche vincere la paura della morte?

Certamente. Ho assistito persone che stavano per morire, e non avevano alcuna paura. Io credo che vinciamo la paura della morte quando, invece di guardare alla morte, guardiamo al Signore. È lui che ci aspetta, è lui che vuole abbracciarci e godere della nostra presenza. Ricordiamo pure le parole che Gesù ha detto ai suoi discepoli: “Non sia turbato il vostro cuore” (Gv 14,1); lo diceva dopo aver annunciato la sua morte, mentre i discepoli erano presi da sbigottimento e paura.
“Non sia turbato il vostro cuore, abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me”. Esercitando la fede, vinciamo la paura della morte, perché il Signore ci ha promesso: “Vado a prepararvi un posto” (Gv 14,2). Se teniamo presente questa sua promessa, oppure la sua preghiera rivolta al Padre: “Siano con me dove sono io” (Gv 14,3), o, ancora, ciò che dice l’apostolo san Paolo: “Sia che viviamo, sia che moriamo, noi siamo del Signore” (Rom 14,8), saremo vittoriosi sulla paura, su ogni paura.
Di fronte alla morte possiamo avere quella paura che ci sorge di fronte alla vita; possiamo però avere anche per la morte quella gioia che abbiamo per la vita.
Per vincere la paura della morte ti suggerisco un altro accorgimento: frequenta con regolarità il sacramento della riconciliazione. Chi si confessa con assiduità e regolarità cresce nel suo rapporto di amore a Gesù, avvicinandosi a lui per godere la sua misericordia. Anche lui sperimenterà quanto dice San Giovanni: “Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore” (1Gv 4,18).

Dopo la morte ci aspetta il Giudizio: questo è ciò che Cristo ci ha insegnato. Che cosa possiamo dire, o cosa possiamo immaginare di questo Giudizio?

Il Giudizio lo stiamo già preparando. La Sacra Scrittura dice: “Io pongo davanti a te la vita e il bene, la morte e il male” (Dt 30,15). Se vai da una parte trovi la vita e il bene, se vai dall’altra trovi la morte e il male. Siamo noi stessi,dunque, che prepariamo il Giudizio. Questo poi lo immaginiamo come il momento in cui Dio vede tutto il libro della nostra vita, vede quello che noi abbiamo scritto di bene o di male. Lo immaginiamo talvolta pure come una bilancia che pesa i comportamenti di tutta la nostra esistenza. Esso sarà lo splendore di quella luce che già ora ci illumina attraverso la Parola di Dio e ci fa vedere il bene e il male della nostra vita. Quella luce non sarà più ostacolata da nulla e quindi noi stessi vedremo la verità, la bellezza e la bontà della nostra esistenza, ma anche le sue deficienze, carenze e infedeltà: vedremo quale posto ha realmente avuto Gesù, il Figlio di Dio, nel nostro cuore e nelle nostre azioni.
Ricordo una commedia, la “Tragedia di Godimondo”, che viene proposta ogni dieci anni nel paesino di Prade nel Vanoi. Vi si narra la storia di due amici: tutti e due vivono la vita di questo mondo, tutti e due sono gran peccatori. Avvicinandosi alla morte, uno dei due accetta le proposte del suo angelo custode e i suggerimenti dei suoi amici. Viene dunque a trovarsi davanti al Giudizio, dove discutono la Divina Giustizia e la Divina Misericordia. La Divina Misericordia può dire alla Divina Giustizia: “Costui ha ascoltato i miei suggerimenti, si è messo a cambiar vita, ha cominciato ad accogliere le parole di Gesù Cristo, ha ascoltato il suo angelo custode, quindi deponi la spada del castigo, o Divina Giustizia, perché la bilancia pende dalla mia parte”. E Fortunato, questo era il suo nome, viene accolto dagli angeli in cielo, accompagnato dalla dolcezza del loro canto.
Il suo amico Godimondo, invece, non accetta le esortazioni del parroco, nè i suggerimenti dei suoi amici, nemmeno le ispirazioni dell’angelo custode; non si lascia convincere neppure da un sogno che lo tormenta con la visione della parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro. Benché egli stesso si veda nei panni di quell’epulone, decide di non accogliere gli avvertimenti. Quasi improvvisa sopraggiunge la morte; la Divina Giustizia deve dire alla Divina Misericordia: “Cosa puoi dire? Nulla, purtroppo: costui ha sempre ascoltato la voce della tentazione, ha sempre ascoltato il nostro nemico; egli quindi appartiene a lui”. I diavoli lo portano con sé all’inferno, accompagnato dalle loro grida scomposte.

Il Giudizio sarà una bella esperienza, perché il Giudice è Gesù, uno che ci ama, che ci vuol bene, che ha fatto di tutto per poterci salvare.

In definitiva, nel momento in cui saremo davanti a Dio per il Giudizio, il bene che avremo fatto in terra quale peso potrà avere? Potrà il bene che abbiamo fatto cancellare, per lo meno oscurare, le colpe della vita terrena, colpe che tutti, chi più chi meno, abbiamo commesso?

A proposito del Giudizio credo che dobbiamo tenere presenti due cose. Anzitutto quello che dice Gesù: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17): il mondo, seguendo l’egoismo, praticamente è di per sé già condannato, quindi non ha bisogno di essere giudicato, è già nella condizione di lontananza da Dio. Gesù è venuto per salvare questo mondo, quindi quelli che lo accolgono saranno salvati. Non è il bene che hanno fatto che conta, ma l’accoglienza o meno del Signore. Abbiamo visto e sappiamo quanto è successo sul Calvario. Il buon ladrone era un assassino, non si poteva vantare di aver compiuto azioni buone; all’ultimo momento, aveva solo dimostrato amore per quello Sconosciuto che stava morendo con lui, innalzato in mezzo tra lui e il suo amico. Egli ha accolto Gesù. Accogliendo Gesù è diventato ‘buon’ ladrone, cioè uno che ha cominciato ad essere amico di Dio, e da quel momento si è trovato vicino a Dio, salvato.
A questo punto noi potremo chiederci che fine fanno le nostre buone opere. Il profeta Isaia dice: “Come panno immondo sono le nostre opere di giustizia” (Is 64,5), cioè le azioni buone, le nostre obbedienze a Dio sono come panno immondo, portano con sé sempre qualcosa del nostro egoismo, del nostro peccato. Anche il bene che facciamo, infatti, lo facciamo mescolandolo con l’orgoglio o con la vanagloria: non possiamo, quindi, dar tanto peso a quel bene che noi abbiamo fatto. La sequenza allo Spirito Santo ci fa pregare: “Senza la tua grazia nulla è nell’uomo, nulla senza colpa!”. Le nostre azioni hanno valore se sono la dimostrazione della nostra accoglienza della Parola di Dio, della nostra accoglienza di quella Parola di Dio che è il Figlio suo Gesù Cristo. Se le nostre opere sono obbedienza a Gesù, ciò è segno che lo abbiamo accolto sul serio, e non solo a parole. È lui infatti il Salvatore, che ci rende meritevoli di salvezza, ci rende giusti. Tutto il bene che compiamo, ed è molto ogni giorno, lo compiamo come testimonianza e ringraziamento a lui, che ci ha salvati. Noi stessi, se lo facciamo con questa intenzione, avremo maggior forza e maggior gioia nell’affrontare la fatica di ogni giorno.

torna su

 

Quinto incontro 


Abbiamo parlato del momento del Giudizio. Possiamo aggiungere altre parole sulla figura più importante in assoluto di questo momento fondamentale: il Giudice, il nostro Signore.

Certo, la cosa più bella e consolante che possiamo pensare è che nel Giudizio, il Giudizio finale e universale, sarà protagonista un Giudice favorevole a noi: egli è imparziale certamente, ma ci vede e ci guarda con tanta simpatia. Il Giudice è evidentemente Dio, però di questo Dio noi sappiamo che è padre, è il nostro Padre, ed è colui che ha mandato, proprio per salvarci, il suo Figlio, Gesù Cristo. San Paolo, trovandosi ad Atene, presentò così Gesù: “(Dio) dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che ha designato dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti” (At 17,31). Di Dio sappiamo che è giusto, ma del Padre sappiamo che è misericordioso e fedele e che cerca ogni appiglio per poterci giustificare, per poterci osservare con simpatia. San Paolo ancora afferma: “Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?” (Rom 8,31-32)
San Giovanni poi, nel suo Vangelo, ci dice ancora: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare, ma perché il mondo si salvi” (Gv 3,17), e ancora: “Gli ha dato il potere di giudicare, perché è il figlio dell’uomo” (Gv 5,27). È Gesù quindi colui che giudica a nome di Dio ed egli è colui che ha dato la vita per noi: se è morto per noi, non farà di tutto perché noi possiamo essere salvati?
Ci chiediamo anche: il Giudice, in base a quale legge ci giudicherà? Certamente la legge che egli tiene presente sono le sue parole, quello che già ci ha detto. La sua legge non è data a capriccio: con essa egli esprime il suo amore per noi. È una legge che, se seguita, realizza pienamente la nostra felicità. Noi non avremo quindi sorprese al Giudizio, anzi, ogni giorno, ognuno di noi, ogni buon cristiano, anticipa già il Giudizio quando fa il proprio esame di coscienza. Facendo l’esame di coscienza ci mettiamo a confrontare la nostra vita con la Parole del Signore, con i suoi comandamenti, con le sue raccomandazioni, con il suo amore. Al Giudizio finale non avremo quindi grandi imprevisti. Le uniche sorprese che ci attendono, e ce ne saranno di grandi, riguarderanno gli altri. Forse noi, superficiali e frettolosi, avvezzi alle apparenze, giudichiamo gli altri piuttosto male…, e invece potremo trovarli davanti a noi, ce li vedremo più avanti nel luogo di Dio, nel suo cuore.

Possiamo dirci fortunati di sapere che il nostro Giudice è Gesù: conosciamo già, infatti, alcuni esempi del suo modo di giudicare, esempi che ci vengono presentati dai vangeli. Ne ricordo qui solo tre.

Il primo: un giorno portano davanti a lui una donna sorpresa in flagrante adulterio e gli chiedono di giudicarla. Ho detto: «Meno male che è Gesù il giudice!». I mussulmani ritengono che la persona più misericordiosa, il giudice più buono al mondo, sia Maometto, ovviamente. Ebbene, anche a Maometto un giorno hanno portato una donna sorpresa in flagrante adulterio e gli hanno chiesto: “Cosa dobbiamo fare, dobbiamo ucciderla?”. Dopo un momento di silenzio, Maometto rispose: “No, aspettiamo che nasca il bambino”. Nove mesi dopo gli portarono di nuovo la stessa donna e gli dissero: “Il bambino è nato. Cosa facciamo adesso della donna, la dobbiamo uccidere?”. “No, aspettiamo che il bambino sia svezzato”. Dopo due anni tornarono con la donna e gli dissero: “Adesso il bambino è svezzato. Cosa dobbiamo fare di lei?”. “Adesso sì, adesso dovete ucciderla”. Questa è la grande misericordia che i mussulmani attribuiscono a Maometto: egli ha aspettato così tanto a fare giustizia! Noi sappiamo che Gesù, invece, riguardo a quella donna, ha detto a coloro che avrebbero voluto ucciderla: “Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra contro di lei” (Gv 8). Gesù ha visto il peccato di tutti, sa che tutti hanno bisogno di misericordia, non solo la donna che in quel momento gli uomini volevano giudicare. Per grazia noi abbiamo Gesù come giudice!

Un secondo episodio in cui vediamo il giudizio di Gesù è il suo incontro con Zaccheo: è entrato nella sua casa. Nessuno dei benpensanti Giudei, che fin’allora lo avevano applaudito, gli è andato dietro, perché Zaccheo era conosciuto come uno strozzino, un pubblicano, un uomo nella cui casa non si poteva entrare senza rendersi immondo. Ma Gesù è entrato dicendo: “Il figlio dell’uomo è venuto a cercare a salvare chi era perduto” (Lc 19,10): Gesù, piuttosto che giudice, in quel momento si è fatto medico, si è fatto salvatore.

L’ultimo esempio, già ricordato, è quando Gesù sulla croce risponde al ladrone: “Oggi sarai con me in Paradiso” (Lc 23,43). Gesù ha guardato non a quanto il ladrone aveva fatto nella sua vita, ma ha visto chi era in quel momento: era uno che lo amava, uno che lo accoglieva.

Dobbiamo però sempre fare attenzione che il contare sulla misericordia infinita di Dio non ci faccia diventare tanto superficiali da dimenticare la serietà e le conseguenze nefaste di eventuali nostre gravi disobbedienze. Gesù è un Giudice buono, misericordioso, ma non ha il prosciutto sugli occhi, non è un giudice dagli occhi appannati: è lui che ha raccontato la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro.

Ci può dire ancora qualche parola su questa parabola?

Nella parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro, con chiarezza Gesù ci fa comprendere come il ricco non sia salvato dalla ricchezza, anzi. Siccome la ricchezza gli è servita per manifestare la durezza di cuore, Gesù ci fa vedere quel ricco fra i tormenti, all’inferno.
Una cosa, però, dev’esser detta: quel ricco è senza nome. Il povero, che non ha nessun sentimento di ribellione nella sua povertà, lo troviamo in Paradiso e là porta il suo nome, Lazzaro, cioè ‘Dio aiuta’: egli si è rimesso nelle mani di Dio e da lui riceve gloria. Da questa parabola comprendiamo che nel Paradiso tutte le persone hanno il loro nome e noi le possiamo riconoscere. All’incontrario, pur non potendo dire che nell’inferno non c’è nessuno, in esso non vediamo nessuna delle persone che conosciamo. Non possiamo giudicare nè pensare nessuno all’Inferno. Solo Dio è il giudice. Noi preghiamo per la salvezza eterna di tutti, lasciando a lui ogni giudizio; ci possiamo fidare della sua misericordia, anche se noi non sappiamo com’è: è certamente più grande, più vera e più bella della mia e della tua!
L’inferno della Divina Commedia di Dante è solo un atto di una commedia: il suo autore intendeva farci riflettere sulla gravità di molti peccati, anche di quelli che noi commettiamo o che commettono personaggi famosi ritenuti importanti, o peccati a cui assistiamo senza far nulla per aiutare chi li commette a convertirsi.

Una domanda è abbastanza frequente: i fedeli di altre religioni — mussulmani, buddisti, induisti, oppure gli atei —, da chi verranno giudicati e, soprattutto, come verranno giudicati?

Al Giudizio pensano soltanto i credenti, soltanto quelli che hanno fede in Dio. Chi ritiene che Dio non esista, certamente non pensa nemmeno a un suo giudizio alla fine dei tempi o alla fine della vita. Soltanto chi crede in Dio vive questa attesa. Tu chiedevi: e quelli che non credono? Ci risponde Gesù stesso quando, con una parabola o, meglio, con una descrizione dell’ultimo Giudizio, dice: “Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli” (Mt 25,32). Questo vuol dire che tutti i popoli, anche quelli che seguono altre religioni, che venerano altre divinità, si troveranno davanti come Giudice soltanto Gesù. I buddisti non avranno Budda come loro giudice, i mussulmani non incontreranno Maometto, gli induisti non avranno le loro idee, credenze o divinità come giudice, ma tutti vedranno Gesù. E Gesù giudicherà anche quelli che non lo avranno conosciuto. Con loro userà un criterio molto semplice, quello della misericordia. Hai avuto misericordia degli altri? Potrai godere la pace di Dio, che è misericordioso. Non hai avuto misericordia? Come potrai stare vicino a Dio, che è misericordioso? La misericordia è il criterio con il quale il Figlio di Dio, Gesù, giudicherà tutti i popoli.
Per avere misericordia, certamente, bisogna essere umili. Voglio riportare due righe dagli scritti di un santo della Chiesa russa, san Silvano del monte Athos: “Affinché tu sia salvato è necessario che tu diventi umile, perché anche se si portasse con la forza un uomo superbo in paradiso, anche là non troverebbe pace e non sarebbe soddisfatto e direbbe: «Perché non sono io al primo posto?»”.
Chi non avrà l’umiltà necessaria per essere misericordioso con tutti, non potrà pensare di giungere a godere la gioia dell’eternità con Dio, che è misericordioso.

Ma allora, essere cristiani o non esserlo comporta una differenza nel Giudizio?

Certamente. Chi è cristiano, e perciò vive accogliendo l’amore di Gesù e gli ubbidisce, gli appartiene. Questi ha compiuto l’opera di Dio (Gv 6,29) e possiede la vita eterna (Gv 6,40.47.54; 10,28; 17,2 ...). Chi non avesse avuto la possibilità di conoscere e incontrare Gesù ha avuto certamente occasione di esercitare l’umiltà e la misericordia. In base ad esse sarà accolto, come ha insegnato il Signore con le parole ricordate (Mt 25,32ss)

torna su

 


Sesto incontro 


Abbiamo parlato del momento Giudizio, e del Giudice. Vorrei una parola sulle conseguenze, su cosa avviene dopo il Giudizio.

Le conseguenze ce le dice ancora Gesù con quel racconto del Giudizio cui abbiamo accennato. Agli uni dirà: “Venite a me voi benedetti dal Padre mio”, e agli altri: “Via da me, nel fuoco eterno preparato”, non per voi, “preparato per il diavolo”. Queste sono le conseguenze: o la piena comunione con Dio, l’essere alla destra del Giudice, o il trovarsi alla sua sinistra nella solitudine, nella distanza da lui, che diventa disperazione. Noi usiamo delle immagini per descrivere queste due situazioni. Per la prima usiamo come immagine tutto quello che è bello, che ci dà gioia: la luce, la pace, il gaudio e, in maniera un po’ più concreta e più banale, il banchetto o il giardino, come un paradiso terrestre. Per chi è alla sinistra, invece, immaginiamo fuoco, torture, situazione di disperazione. Così l’ha immaginato anche Dante nella Divina Commedia. In pratica, da una parte c’è la vita desiderabile che l’uomo sogna per sempre, dall’altra una vita terribile senza Dio, quindi senza l’amore, senza sentirsi e sapersi amati e senza aver più quella gioia che proviamo noi stessi quando amiamo.
Sia l’una che l’altra realtà, che chiamiamo Paradiso e Inferno, non possiamo dire che siano un luogo, non possiamo dire che siano un tempo: non usiamo nè carta geografica nè calendario per queste situazioni, che fanno parte ormai dell’eternità; questa sfugge alle nostre misure e alle nostre capacità di descrizione. Esse fanno parte del mistero.

Una domanda sull’Inferno. L’inferno esiste, oppure no? E, soprattutto, che cos’è l’Inferno?

Se per Inferno intendiamo appunto la distanza da Dio e una lontananza perenne, e quindi la sofferenza del non godere l’amore, del non essere capaci di amare, questa sofferenza dobbiamo dire che esiste: ne abbiamo infatti già la caparra su questa terra in varie situazioni. Tutti ne facciamo un pochino l’esperienza. Se poi questa situazione diventa eterna, che dura sempre, cosa possiamo sapere? Ci dobbiamo fidare della Parola del Signore, che parla esplicitamente dell’Inferno, sia in parabole, sia in racconti, sia anche, talvolta, in qualche avvertimento o in qualche minaccia con cui egli ci vuole aiutare a ravvederci dai nostri atteggiamenti impuri e menzogneri, violenti e ingiusti. La paura della situazione di sofferenza e della disperazione eterna ci deve tenere lontani da colui che abita l’Inferno; noi sappiamo che là, come ha detto Gesù nel racconto del Giudizio, sta Satana con i suoi aiutanti. Di lui noi dobbiamo avere paura per stargli alla larga e non accontentarlo, per non ubbidirgli, per non chiamarlo mai, per non seguirlo, per non legarci a lui, altrimenti ci troveremo a stare, con lui e come lui, sempre lontani da Dio. Dovremo far attenzione a non accusare i fratelli, perché questo ci farebbe precipitare con lui, che è definito “l’accusatore dei nostri fratelli” (Ap 12,10).
Non è Dio che ci manda all’Inferno. Egli ha mandato Gesù per salvarci dall’Inferno. Sarebbe bestemmia, quindi, dire che Dio ci manda all’Inferno. Siamo noi, caso mai, che, rifiutando il Salvatore, rigettiamo l’unica possibilità di salvezza, e così rifiutiamo l’amore e ci autocondanniamo a vivere sempre una situazione di disagio e disperazione.
Non so poi con quale presunzione potremmo dire che l’Inferno non esiste. Ci vorrebbe un bel coraggio, perché significherebbe dichiarare inutile la legge di Dio e ritenere inutile il suo Giudizio. Dire che l’Inferno non esiste è come dire che Dio è menzognero: avrebbe potuto fare a meno di mandare suo Figlio, e questi non occorreva morisse in croce per noi, per salvarci. E Dio sarebbe stato menzognero anche quando ci ha fatto dono della libertà: se ci portasse tutti per forza in Paradiso, non ci lascerebbe liberi. Riterremmo Dio menzognero: lo considereremmo un burattinaio.
Qualcuno si chiede: come mai Dio ha dato una libertà così grande all’uomo, che, usandola male, potrebbe finire all’Inferno? A me par di comprendere che, se non fossimo liberi, - e non dobbiamo dimenticare che la libertà è libertà di amare, - non avremmo la possibilità di somigliare a Dio, di diventare, come lui, una fontana di amore! Egli, per amarci, ci ha ‘dovuto’ dare la libertà, perché solo così possiamo essere suoi figli e non sue bambole o suoi burattini!

Com’è o che cos’è l’Inferno? Per grazia non ci sono ancora stato, quindi non posso dirlo. Ho trovato però cosa ne dice una santa, Dottore della Chiesa, Teresa d’Avila. Ella scrive così: “Mi trovai trasportata tutta intera all’Inferno senza sapere come. Compresi che Dio mi voleva far vedere il luogo che i demoni mi avevano preparato, e che io mi ero meritata con i miei peccati. Quello che allora soffrii supera ogni umana immaginazione. Sentivo nell’anima un fuoco che non so descrivere, mentre dolori intollerabili mi straziavano il corpo. Era un’oppressione, un’angoscia, una tristezza così profonda, e un così vivo e disperato dolore è la stessa anima che si fa in brani da sé. Il supplizio peggiore era il fuoco della disperazione interiore”. Questa la descrizione che ci fa santa Teresa. Vi trovo bello e significativo il fatto che lei all’Inferno vede solo se stessa e nessun altro. Quell’esperienza le è servita per decidere la propria fedeltà al Signore.
Anch’io devo dire: ‘L’Inferno c’è per me’. Così, nel giorno in cui non avessi verso Dio tanto amore da ubbidirgli, avrei almeno, per la paura dell’Inferno, la volontà di tenermi lontano da colui che mi ci vorrebbe trascinare. L’Inferno c’è per me. Finché non cresce il mio amore a Gesù, almeno la paura dell’Inferno mi tiene lontano dal peccato.

Perché la Chiesa è sicura dell’esistenza dell’Inferno?

La Chiesa è sicura di questo mistero grazie alla Parola di Dio. Anzitutto le parole di Gesù che, oltre alla parabola ricordata del ricco epulone e del povero Lazzaro, in varie altre occasioni, parla della Geenna dal fuoco inestinguibile, e con queste parole intende la realtà di una condanna definitiva: “Via da me, maledetti, nel fuoco eterno preparato per il diavolo!” (Mt 25,41).
E poi gli apostoli. Scrive san Paolo nella lettera ai Tessalonicesi: “Quelli che non riconoscono Dio e quelli che non ubbidiscono al vangelo del Signore saranno castigati con una rovina eterna lontano dal volto del Signore” (2Ts 1,8) e san Giovanni nell’Apocalisse: “Il fumo del loro tormento salirà per i secoli dei secoli e non avranno riposo né giorno né notte quanti adorano la bestia e la sua statua” (Ap 14,11).
Ne hanno parlato e ne parlano i santi, però, come ho detto, la Chiesa, pur essendo certa dell’esistenza dell’Inferno, non condanna nessuno. Noi dovremmo comportarci come i piccoli Francesco e Giacinta di Fatima: la vista dell’inferno li ha spinti a pregare e a mortificarsi per la conversione dei peccatori.
La Chiesa proclama la beatitudine di tanti Santi, ma non ha mai proclamato la dannazione di nessuno, nemmeno di Giuda, benché riguardo a lui ci siano parole terribili pronunciate da Gesù stesso: “Guai a colui dal quale il figlio dell’uomo viene tradito… meglio per quell’uomo se non fosse mai nato” (Mc 14,21). Non possiamo cancellare dal vangelo questa frase, ma nemmeno portarla all’estrema conseguenza per dire che Giuda è all’inferno. La Chiesa non parla di lui come fosse dannato, non dice nulla: il Giudizio è di Dio. Quando ci verrebbe istintivo pensare qualcuno all’inferno — ad esempio i grandi persecutori della Chiesa e distruttori dell’umanità —, dobbiamo allontanare questo pensiero come tentazione. Noi stiamo in silenzio e preghiamo e continuiamo a coltivare il santo timore di Dio, continuiamo a coltivare la decisione di allontanarci dalle occasioni del peccato, a chiedere perdono, a convertire i nostri pensieri e desideri, per non meritare noi stessi una condanna eterna: li baseremo sulla fede perché portino frutto di amore e ci tengano sulla strada del cielo.

E chi muore peccando, ad esempio chi muore suicida, quale destino lo attende?

Chi muore peccando! Mi viene alla mente un episodio: stavo recandomi in chiesa. Arrivato alla porta, incontrai un uomo che usciva. Non era molto abituato ad entrare in chiesa, ma quel giorno era andato a pregare. Lo vidi sconvolto: poche ore prima un suo operaio era morto improvvisamente sul posto di lavoro, ed era morto bestemmiando. Egli non sapeva cosa pensare, era andato a consegnare a Dio la sofferenza profonda, grandissima che lo aveva colto e ad esprimere il desiderio forte che Dio, nonostante tutto, avesse misericordia di quel suo operaio.
Pure chi muore suicida è uno che muore peccando, perché il suicidio è grave offesa al datore della vita. Se questo peccato lo commettessi io, so che sarei meritevole dell’Inferno. Se lo commettono altri, cosa devo pensare? Quando uno muore suicida io penso: “Chissà quante volte costui ha vinto la tentazione di togliersi la vita! Questa volta non ne è stato capace. Chissà come era forte quella tentazione”.
Certo, la bestemmia e il suicidio sono peccati gravissimi. Ripeto, se li commettessi io mi condurrebbero all’inferno, ma se li commette un altro, io non mi faccio suo giudice, lascio il giudizio a Colui a cui spetta, e so che egli è misericordioso e che vede altre cose che io non riesco neppure a immaginare. Io non so fino a che punto quella persona era consapevole e fino a che punto era interiormente libera.
Nonostante questo però io devo dire a tutti che il suicidio è un grave peccato. E devo proprio dirlo, per aiutare altri a non cadere nella tentazione di togliersi la vita. Noi sappiamo, infatti, come è facile che dopo un suicidio ne succeda un altro nello stesso paese, come se esso fosse malattia contagiosa. Soprattutto i giovani devono essere aiutati a riconoscere la gravità di questo peccato, grave per le conseguenze eterne di chi lo commette e fonte di penosissime, profonde e interminabili sofferenze dei familiari, parenti, amici, conoscenti e di tutta la società.
Ripeto, però: noi non giudichiamo. Lasciamo che sia Dio il giudice: egli ha modi diversi, senz’altro migliori dei nostri, di valutare ogni cosa. Noi preghiamo, chiedendo a Dio quella misericordia che non abbiamo chiesto prima per quella persona. Rimediamo alla nostra precedente mancanza di preghiera e di testimonianza. La trascuratezza nel manifestare la nostra fede ha inciso e incide negativamente sull’ambiente e sulle persone che ci circondano.
La Chiesa, la comunità cristiana, si fa vicina a coloro che soffrono per un suicida, familiari e amici, per consolare e per rafforzare la loro fede. Senza giudicare, annuncia la gravità del gesto compiuto, perché tutti sappiano orientarsi nelle eventuali simili tentazioni che possono colpire persone di ogni età.

torna su

 

Settimo incontro 

 

E’ bello che concludiamo parlando del Paradiso. Prima di arrivare al Paradiso, però, il Purgatorio. Il Purgatorio non è compreso nel novero dei Novissimi. Perché, e cos’è il Purgatorio?

Ti dirò che sono contento di andare in Paradiso insieme con te.
Il Purgatorio non è compreso nei Novissimi appunto perché non è novissimus, non è ultima realtà, non fa parte dell’eternità. Lo intendiamo come sala d’attesa. Di esso hanno parlato i santi, e di esso ha pure trattato Dante nella sua Divina Commedia.
Che cos’è il Purgatorio? Darei questa risposta: se io morissi adesso, cosa potrei dire di me? O cosa potrebbe dire il Signore di me? Pur ritenendomi discepolo di Gesù, non sono così umile né tanto misericordioso da poter stare nel cuore di Dio. Porterei con me il mio orgoglio, la mia vanagloria, le mie chiusure, le mie impurità, le mie invidie, le mie rabbie. Queste non possono trovare posto in Paradiso. Prima di entrare nel cuore di Dio, prima di entrare nella dimora eterna dei Santi, di certo la mia anima dovrà abbandonare questi atteggiamenti, oltre che i peccati che ne sono scaturiti durante la mia vita. Devo quindi dire che buona parte di me non può stare in cielo: mi farebbe soffrire anche là. Come abbiamo sentito da san Silvano, se un superbo andasse in Paradiso, starebbe male anche lì, perché non si vedrebbe al primo posto. C’è bisogno di una purificazione del cuore e dell’anima.
Nella Scrittura ci sono pochi accenni riguardanti il purgatorio, ma ci sono. Nell’Antico Testamento, il libro dei Maccabei (2Mac 12,45) racconta che Giuda Maccabeo ha fatto offrire sacrifici per i peccati di quelli che avevano combattuto con lui in battaglia ed erano morti, perché fossero assolti dal peccato. E San Paolo scrive: “Se l’opera di qualcuno finirà bruciata, quello sarà punito, tuttavia si salverà, però quasi passando attraverso il fuoco” (1Cor 3,15). Noi vediamo questo ‘fuoco’ di purificazione come un’anticamera, non dell’inferno, per grazia, ma del Paradiso. È un’attesa destinata ad aumentare il nostro amore, ad aumentare la nostra accoglienza di Dio; una situazione, noi diciamo, di sofferenza, perché ciò che abbiamo ritenuto un bene, e a cui eravamo aggrappati come a un’ancora di salvezza, saremo costretti a lasciarlo. Dovremo rinnegare le nostre abitudini peccaminose. Possiamo dire anche che è una situazione di desiderio di essere del tutto di Dio, situazione quindi di gioia, perché ci prepara alla gioia completa del Paradiso.

Se è possibile fare questa domanda, quanti saremo in Paradiso e quanti all’Inferno?

È una domanda interessante. L’hanno posta anche a Gesù, per fortuna, così posso dare a te la sua stessa risposta. Se anche uno solo andasse all’Inferno, sarebbe già troppo, perché Gesù ‘per quello’ vedrebbe inutile la propria fatica, la propria morte in croce. Cosa ha risposto Gesù a quel tale che lo ha interrogato su questo argomento? “Sforzatevi di entrare per la porta stretta” (Lc 13,24). È come avesse risposto: questa è una curiosità, non ti serve saperlo. Sei tu che devi essere salvato, tu devi mettervi tutto l’impegno. Ti serve un nuovo slancio per andare tu stesso verso Dio, il Padre, e allora ti trascinerai dietro molti altri. Questo interrogativo non deve trovare risposta su questa terra!

Passato il Purgatorio, finalmente, il Paradiso.

“Se dunque siete risorti con Cristo” dice san Paolo “cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo, assiso alla destra di Dio. Pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra” (Col 3,1): questo dice l’apostolo, e noi lo proclamiamo proprio nel giorno in cui celebriamo la Risurrezione del Signore. Il Paradiso è il luogo, luogo non luogo, è la beatitudine, la situazione di comunione con Dio, con il suo amore. È quella situazione che vede la perfezione della nostra vita e il perfezionamento, la realizzazione piena della nostra esistenza, quindi anche la nostra gioia perfetta.
San Paolo ha scritto: “So che un uomo in Cristo quattordici anni fa – se con il corpo o senza il corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare” (2Cor 12,1). Il Paradiso, lo sappiamo anche da questa testimonianza, esiste, ma come facciamo a descriverlo? Dovremmo vivere già la gioia del Paradiso per poterlo in qualche modo conoscere e descrivere. Una cosa è certa: essere con Dio significa essere nell’amore, poter godere di essere pienamente amati e poter godere di amare pienamente, senza alcun ostacolo e senza limitazioni.
San Silvano del monte Athos, il santo russo già citato, scrive così: “La nostra gioia è Cristo” - come dire che è lui il nostro Paradiso, - “mediante i suoi patimenti egli ci ha iscritti nel libro della vita e noi staremo sempre nel regno dei cieli con Dio, vedremo la sua gloria e gioiremo con lui. La nostra gioia è lo Spirito Santo. Egli è tanto mite e buono che dà testimonianza all’anima della sua salvezza. Credete al Vangelo e alla testimonianza della santa Chiesa, e già sulla terra gusterete la beatitudine del Paradiso! L’amore di Dio dona all’anima il Paradiso. Molti principi e signori, quando conobbero l’amore di Dio, abbandonarono i loro troni, e questo è comprensibile perché l’amore di Dio è bruciante”.

È possibile, in qualche modo, prepararci al Paradiso?

È quello che stiamo facendo tutti i giorni. Ci prepariamo al Paradiso tenendo lo sguardo fisso sul Padre, anzitutto, pregando come Gesù ci ha insegnato: Padre nostro… (Mt 6,9). Allora non solo il nostro sguardo, ma anche il nostro cuore è già in Paradiso. Ci stiamo preparando proprio con la preghiera! È la preghiera che ci fa assumere gli stessi desideri di Dio, quindi i desideri del cielo; ci fa assumere la sua volontà, quindi la preghiera ci porta già in cielo, ci porta in Paradiso e ci trasforma in modo che la vita su questa terra diventi già un paradiso in casa nostra. Se ci lasciamo trasformare dalla preghiera, cominceremo ad amare come Dio Padre ama, ad amare come Gesù ama, ad amare con la luce, la grazia e la forza dello Spirito Santo. Ameremo per primi, ameremo anche i nemici con iniziative di amore sempre nuove. Ameremo unendoci alle proposte d’amore umili e benevoli che ci vengono offerte dalla comunità, e allora noi stessi diventeremo una testimonianza che il Paradiso è già, almeno in parte, presente qui sulla terra, perché trasformeremo la nostra casa, il nostro paese, la nostra società, le trasformeremo in un inizio di Paradiso.

Possiamo concludere con un ultimo consiglio da parte tua?

Sì, io consiglio a te, a tutti quelli che leggono, di tener vivo il desiderio del Paradiso o, meglio, tener vivo il desiderio di essere con Gesù e il desiderio del Padre: se il nostro desiderio è grande e forte, tutta la nostra vita corre in quella direzione. Come dice il Salmo: “L’anima mia anela a te, o Dio” (Sal 42,2). Ecco, dobbiamo tener continuamente viva questa sete. Sant’Agostino ha detto che la vita del cristiano è una “ginnastica del desiderio”.
Il mio consiglio, quindi, è: coltiva e tieni sempre vivo questo desiderio.
Desidera raggiungere il Padre facendo tutto quello che fai per amore di Gesù. Prega, perché ami Gesù; servi gli altri, perché ami lui; chiedi perdono per amor suo, sopporta perché lo ami ancora, pazienta, sii fedele agli impegni, e per amor suo sii puro e gioioso. Chi ama il Signore, lo conosce, e chi conosce il Signore conosce la gioia anche nella fatica e nella sofferenza. Chi conosce il Signore, per lui la morte è davvero solo un passaggio, desiderato e accolto con gioia, come ha scritto San Paolo: “Corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù” (Fil 4,14).

E ancora: prega anche per me, perché anch’io viva quello che ho detto agli altri e anch’io cammini spedito verso la salvezza eterna.
Grazie.

torna su