ME
NU

Beati...

BEATI...

 

Le parole di Gesù sono degne d’attenzione, perché contengono tesori di sapienza e riserve di vita, di luce, di gioia: egli continua a riversare nei nostri cuori fiumi di Spirito Santo che ci rende comprensibile la sua parola per le circostanze concrete della nostra vita e ci dà forza, coraggio e amore per viverle.

Le sue otto parole che iniziano con “beati” sono state definite “il vangelo nel Vangelo”, poiché sembrano contenerlo già tutto, come la pianta è già tutta nel seme.

Ho provato a leggerle con calma.

don Vigilio Covi

 

INDICE

 

  1. Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli
  2. Beati gli afflitti, perché saranno consolati
  3. Beati i miti, perché erediteranno la terra
  4. Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati
  5. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia
  6. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio
  7. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio
  8. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il Regno dei cieli

 

Gesù apre la bocca con solennità e dice: BEATI! 

Gesù non elenca precetti e comandi, ordini e proibizioni. È il nuovo modo di accostare gli uomini? È un altro Dio che parla? Non è più il Dio di Mosè?

No! Soltanto ora Dio parla personalmente, il Figlio di Dio dà direttamente il messaggio senza servirsi di mediatori. Quando egli parla direttamente può permettersi di superare i limiti della cultura e del progresso cui è giunto l'interlocutore.

Finora l'uomo riteneva che Dio fosse una “divinità”, uno che vanta diritti, uno che può comandare... E Dio, usando messaggeri con questa cultura, appariva legislatore e padrone, talvolta buono, talvolta severo.

Ora egli stesso si presenta, egli stesso parla: non impartisce ordini, non comanda! Egli annuncia! Egli annuncia i luoghi della felicità che gli uomini stanno cercando da sempre e non hanno trovato, perché li cercano fuori di se stessi!

Beati!

Questa parola risuona sulla montagna. È come un tocco di campana che annuncia la festa e permea della sua armonia, della sua eco, tutta la realtà, tutta la vita!

Beati! Felici! Finalmente uno spiraglio di cielo sulla terra dove si esperimentano solo miseria e tenebra.

Beati! Una parola detta a peccatori, a persone incolte, a persone senza fortuna, che si ritengono infelici.

Beati! Siete già beati voi che ... Già beati!

 

L'uomo che cerca la gioia crede di dover correre chissà dove, rincorrere chissà che, raggiungere chissà che cosa!

Gesù non fa correre. Egli fa fermare.

Beato sei già. La beatitudine sta in te, non è fuori di te!

 

 

Beati i poveri in spirito,

perché di essi è il Regno dei cieli

 

Beati quelli che possiedono il Regno dei cieli! Coloro che entrano nel Regno dei cieli hanno pienezza di vita, a loro non manca nulla.

Ma cos'è, dov'è il Regno dei cieli?

Il Regno è certamente una realtà più grande di quella che possiamo definire con parole d'uomo. Regno dei cieli è il luogo dove Dio è Re, luogo da cui sono scomparsi gli idoli, luogo dove una sola obbedienza viene cercata, l'obbedienza a Dio Padre. Forse abbiamo il desiderio di poter dire: «Il mio cuore è Regno dei cieli», perché abbiamo un po' di presunzione ... di ritenerci obbedienti a Dio. Ma sono scomparsi del tutto gli idoli dal mio cuore? Quegli idoli riassumibili dalla parola «mammona»? Il denaro, la roba, case e campi, diritti a pensione o ad altre sicurezze simili sono pilastri che forniscono stabilità al nostro edificio interiore: siamo tranquilli perché c'è il tal gruzzolo, sono in pace perché c'è il diritto, perché ho firmato l'appartenenza alla tal famiglia, alla tal comunità… Sicurezze materiali, umane messe a sostegno della vita: fatuità, nullità, menzogna; idoli! Una vita di questo genere non è beata perché non è basata sull’eternità, è precaria. Una vita interiore basata sulle sicurezze terrene non è una vita spirituale, non è una vita divina, non è Regno di Dio.

Una vita di questo genere non è beata, perché essa non è basata sull'eternità, è precaria.

 

Di chi può essere il Regno dei Cieli?

Di coloro che hanno deciso di eliminare gli idoli grandi e piccoli dalla loro casa; di coloro che hanno deciso di essere poveri; di coloro che hanno deciso di lasciarsi comandare, guidare, plasmare solo da Dio, e perciò hanno eliminato la ricchezza delle proprie prospettive, per non rischiare anche un’inconsapevole schiavitù.

Oh, non l'ho inventato io! Lo ha detto il Signore iniziando il suo discorso da nuovo Mosè. Egli sapeva che il Popolo di Mosè s'era lasciato trascinare dagli idoli, dall'idolo del desiderio delle cose da mangiare e da possedere.

Quel popolo si sentiva più sicuro nell'avere la garanzia del pranzo quotidiano, pur vivendo schiavo in Egitto, che nello stare nelle mani di Dio nella libertà del deserto. Quel popolo seguiva il desiderio dello stomaco più di quello dello spirito, giudicava bene accontentare i sensi più che la libertà e la vita interiore.

Popolo accecato!

Per questo Gesù proclama beati i poveri in spirito. Gli altri non riescono ad entrare nel Regno dei cieli perché seguono gli idoli.

 

I poveri in spirito! Chi sono? Proviamo a tradurre.

Povero in spirito è chi ha la povertà in cuore. Egli apprezza la povertà, desidera sposare la povertà, come s. Francesco. È quindi povero in spirito chi almeno non pretende nulla, chi s'accontenta di tutto, chi sa godere del poco, chi riceve tutto come un dono! Per costui anche la cosa più piccola è fonte di gioia, motivo di riconoscenza.

Una tal persona non esige nulla da nessuno e si aspetta tutto solo dal Padre! Egli non si lamenta mai perché non gli manca mai nulla! Tiene le mani vuote e le tende a Dio con fiducia e abbandono. Egli non riceve nulla come ne avesse diritto! Sa ringraziare anche dell'aria che respira come di un dono grande.

In fin dei conti si potrebbe dire che il povero in spirito è uno che sa godere di Dio, non delle cose!

Egli non cerca nulla perché la sua ricchezza è Dio, ha lasciato tutto perché ha trovato in Dio la sua gioia!

 

Un cuore così è quello di Gesù! Il cuore di Gesù è Regno dei cieli: in questo cuore ogni idolo è stato eliminato, Dio è ubbidito come Re; in questo cuore Dio è libero di regnare, libero di essere Padre e di agire da «papà»! A Gesù appartiene il Regno dei cieli!

 

Noi uomini siamo spesso, per non dire sempre, tentati, sia dal maligno che dal nostro desiderio, di pensare che la nostra gioia e la nostra realizzazione si nascondano nella ricchezza, nel possesso, nell'avere, e ci lasciamo attrarre con facilità nel circolo vizioso di desideri e ragionamenti dipendenti dalle cose.

La ricchezza attira lo sguardo, questo muove il cuore, il cuore dà ragione ai pensieri vani e così di passo in passo veniamo portati in situazioni in cui Dio non può parlare, non può più chiedere nulla! Non per nulla Gesù ha affermato che «l'inganno delle ricchezze», come le spine che soffocano lo stelo di grano cresciuto in mezzo ad esse, soffoca la risposta alla parola di Dio.

Per questo la ricchezza è un inganno, perché impedisce il maturare della Parola, impedisce il realizzarsi dei disegni di Dio. Già Ben Sirach (Sir 31,5) scrisse: «Chi ama l'oro non sarà esente da colpa, chi insegue il denaro per esso peccherà... È una trappola per quanti ne sono entusiasti, ogni insensato vi resta preso».

Anche S. Paolo ci fa riflettere quando dice (1 Tm 6,7-10): «Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo... L'attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori».

 

La povertà nel cuore è la decisione di non seguire questi movimenti interiori degli occhi, del cuore, dei pensieri: essa lascia l'uomo nella libertà di seguire le ispirazioni di Dio, che si muovono su un piano più alto, spirituale, e donano all'uomo gioia e pace nel sapere di essere suoi e non nell'avere a disposizione ricchezze...

Povertà del cuore non è di per sé assenza di mezzi, perché anche il povero può nutrire desideri di ricchezza, può avere e coltivare avarizia e avidità; povertà evangelica è anzitutto un nuovo modo di impostare la vita: è una diversa attenzione, è un essere orientati all'Alto invece che al basso.

Il povero nello spirito è attento non più all'io, ma a Dio! Quando sono povero in spirito sono attento a ciò che Dio fa in me e attorno a me, godo di ciò che egli opera, mi lascio coinvolgere nel suo modo di essere presente e di operare.

Quando sono preoccupato di ricchezze l’attenzione a Dio scompare: vedo solo me, diventano importanti i miei problemi materiali, divengo incapace di ascoltare il cuore dei fratelli e di vedere la volontà di Dio per loro. È come essere morti spiritualmente!

Se il povero nello spirito possiede dei beni, poco o molto, li usa con riconoscenza, attento a dar gloria a Dio. Li usa nei modi che possano essere i modi di Dio Padre, per amare, per promuovere il suo Regno, per sollevare il debole e l'indigente, per dar importanza alla presenza di Gesù.

Il povero in spirito sa che l'oro è creatura di Dio, come la sabbia! E agli occhi di Dio la sabbia per costruire una casa al povero è più preziosa dell'oro chiuso nelle casseforti, o condannato a stringere il collo o tintinnare attorno alle braccia di signore e signorine.

Il povero in spirito sa che l'oro attira l'occhio dell'uomo avido e vanitoso e che nelle mani dell'uomo questa creatura di Dio può diventare strumento di violenza, di vanità, di prepotenza, di invidia, di litigiosità e odio, di morte. È una creatura di Dio usata dal maligno nemico dell'uomo.

È una creatura che attende di essere liberata dalla schiavitù della corruzione, attende di essere liberata da questi padroni per servire il Dio dell'amore. Il povero in spirito vuole che l'oro, di cui eventualmente dispone, serva ed evidenzi l'amore del Padre per tutti.

Il cuore del povero in spirito è attaccato a Dio, non ai suoi doni. Per amor di Dio li usa, per amor di Dio li lascia.

 

Ci sono un paio di esercizi concreti che la S. Scrittura - cui fa eco la Chiesa - raccomanda a tutti perché diventino o rimangano poveri nello spirito.

Il primo esercizio è l'elemosina. Questa è una risposta a Dio che ti presenta un fratello bisognoso di aiuto materiale. Tu rispondi a Dio pensando: quello che io ho è tuo dono, o Padre, un tuo dono che hai messo nelle mie mani perché possa continuare ad essere segno del tuo amore. Ne do una parte a questo povero, per dar gloria a te. Il grazie del suo cuore sarà lode per te.

Con l'elemosina ti prepari un tesoro in cielo, un tesoro d'amore concreto e santo.

L'elemosina è ginnastica del tuo cuore che si esercita nell'essere distaccato dalle ricchezze e nel considerarle dono di Dio. Guai se l'elemosina fosse gesto egoistico per allontanare da te i poveri con facilità, o gesto ipocrita che faccia sorgere la soddisfazione di dire «io sono buono» e «ora sono a posto»!

L'elemosina vera non è solo un denaro dato con generosità, ma accoglienza, disponibilità all'ascolto: è l'azione del Buon Samaritano, vero povero nello spirito.

Il possedere ricchezze non è una fortuna e non è una disgrazia, è solo una particolare situazione in cui servire il Signore: «Povertà e ricchezza, tutto proviene dal Signore» (Sir 11, 14). Lasciare completamente le ricchezze e divenire poveri è una chiamata che dà una testimonianza particolarmente forte a Dio, vera e unica sicurezza, vera e unica ricchezza, vero e unico tesoro del cuore umano.

 

Un secondo esercizio utile e raccomandato per alimentare la povertà nello spirito è il digiuno. Questo è una forma di povertà volontaria che aiuta la memoria del nostro cuore e del nostro corpo a ricordare che il vero bene è Dio, che la sazietà vera è la sua presenza in noi, che la nostra vita è nutrita e arricchita da lui, dipende da lui, è destinata a lui. Il digiuno volontario, dalle forme più piccole della rinuncia allo zucchero nel caffè o al vino al pasto a quelle più consistenti del saltare il pasto, è un aiuto prezioso per vivere orientati a Dio.

È solo un aiuto! E non è il digiuno che diventa importante, ma l'orientamento a Dio!

L'attenzione a non fare del digiuno un idolo che alimenti l'orgoglio spirituale o la vanità religiosa o la superbia sottile della vita interiore, deve essere viva. Per questo la Chiesa raccomanda di intraprendere digiuni solo in unità col confessore o col padre spirituale.

 

Un terzo aiuto a mantenere concreta la povertà nello spirito è il riposo sabbatico. La santificazione del giorno del Signore comprende, tra il resto, l'astensione dal lavoro. Con questo non si intende astensione dalla fatica (si raccomanda invece l'assistenza e l’aiuto ai malati e ai poveri anche in quel giorno), ma si intende l'astensione dal guadagno.

-Non lavorare la domenica, - sembra dire la Chiesa -; ma se devi lavorare fallo in modo tale da non pensare al guadagno, bensì al Regno di Dio!- Il cristiano contempla Dio, non il denaro. Al cristiano interessa il Regno di Dio, non la ricchezza.

Mia mamma mi ha lasciato lavorare una domenica, ma assicurandosi che il guadagno di quel giorno sarebbe finito tutto nella cassettina delle Missioni. La santificazione del Giorno del Signore è un esercizio settimanale a riposare sulle possibilità di Dio, a godere di lui senza fermarsi su calcoli umani, come se Dio non ci fosse o non fosse nostro Padre!

 

A chi è povero nello spirito Dio può chiedere qualunque cosa in qualunque tempo! A chi non è povero nel cuore Dio non può chiedere nulla, oppure, se chiede, deve restare col fiato sospeso...! Chi non è povero nel cuore trova scuse per dir di no alle chiamate di Dio.

A chi è povero nello spirito Gesù può chiedere tutta la vita, può chiedere di dare tutto ai poveri e diventare così egli stesso segno del Regno dei cieli, ricchezza di Dio.

Ricchezza di Dio sono quelle persone liete di appartenergli, contente di avere lui solo come sicurezza della vita presente e del futuro. Queste persone, pur non possedendo nulla, sono contente di vivere come un dono di Dio, e proprio perché non possiedono sono libere per qualunque richiesta di Dio.

Nella loro vita il Padre può manifestarsi come Padre, può esprimere concretamente la propria paternità: può cioè occuparsi personalmente o concretamente del loro pane, del loro vino, della loro acqua, del loro letto. Con loro Dio può manifestarsi Provvidenza e amore delicato e concreto.

Le parole di Gesù «non affannatevi di quel che mangerete... il Padre vostro sa», trovano realizzazione nella vita di chi è povero nello spirito al punto da farlo decidere d'essere povero. Beato quest'uomo: è nel mondo, ma non più del mondo, è legato a Dio. Non è la povertà che lo fa beato, ma la povertà voluta, o volutamente accettata per amore di Gesù, gli permette di avere il cuore immerso solo in Dio, gli permette di accorgersi d'avere un Padre, ogni giorno di nuovo.

 

Esempi

 

La vedova che mette nel tesoro del tempio i suoi due spiccioli: nel suo cuore c'è povertà, cioè certezza di appartenere al Padre, per questo può ragionare pressappoco così: «Quel che ho è di Dio, perché io sono sua ed Egli è mio padre. Egli mi dà tutto, io non mi tengo nulla»! (Lc 21,1-4).

 

Il pubblicano al tempio: questi vive una povertà diversa. Egli è povero di buone azioni, povero di meriti, povero di considerazione da parte degli uomini. Può dire nel suo cuore: «Non ho alcuna qualifica per essere amato da te, o Dio. Sei tu la mia salvezza».

È un cuore povero: beato, perché Dio è tutto per lui! (cf Lc 18,13).

 

Il samaritano lebbroso guarito: è un povero di iniziative, non ha progetti per sé, così è libero di tornare a ringraziare, a lodare Dio, ad ascoltare Gesù. È salvato dai legami del mondo e dell'egocentrismo!

È beato: Dio può agire in lui! (Lc 17,15.19).

 

Maria, sorella di Marta: è povera di preoccupazioni... povera di capacità... non mette nulla tra sé e Gesù, nemmeno la propria fatica per lui.

È beata, perché Gesù le arricchisce il cuore. (Lc 10, 38-42).

 

Gesù vive per il Padre e si attende tutto da lui, anche il pane nel deserto. (Lc 4,4).

 

Accogliamolo come unica ricchezza, unico tesoro, pronti a lasciare ogni tesoro, ed esperimenteremo cosa significa la parola «beati».

 

 

 

Beati gli afflitti,

perché saranno consolati

 

Gli uditori di Gesù non erano nuovi ad espressioni di questo tenore, benché anch'essi debbano averle ascoltate con un po' di punti interrogativi, perché non sono parole del normale linguaggio degli uomini.

Nei salmi sta scritto: «Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo» (Sal 126) ed il profeta Isaia (61,1-3) annuncia: «Il Signore mi ha consacrato e mi ha mandato... per consolare tutti gli afflitti, per dar loro... un canto di lode per profetizzare. Chi vi ha afflitti con tanta calamità vi darà anche una gioia perenne!».

 

L'afflizione, qualunque afflizione, non porta alla disperazione, sembra dire il Signore, perché degli afflitti si occupa Dio! E se Dio si occupa di una persona, questa è davvero beata!

 

La gioia, la beatitudine, la pienezza di vita non sta ovviamente nell'afflizione - che è mancanza di qualcosa - ma nell'intervento del Signore, nella sua presenza che salva. Chi è afflitto ha Dio dalla sua parte!

 

Chi sono gli afflitti? Sono le persone che versano lacrime perché hanno dei motivi – che possono essere diversi - per piangere: hanno scoperto forse di non aver nessuna sicurezza in se stessi perché si ritrovano peccatori, infedeli, malati nel corpo o nell'anima; si stanno accorgendo di non poter attendere consolazione e sostegno dalle creature perché non possono fidarsi di nessuno o perché anche i più cari s'ammalano e muoiono…

Talvolta l'uomo s'accorge di non aver più sicurezza nemmeno negli organismi del mondo da cui tanto s'attendeva, oppure vede che le sue bramate e sofferte ricchezze non salvano da delusioni d'amore e d'amicizia, né da malattie.

Qualcuno vive un'afflizione cronica perché si vede sempre condizionato da situazioni, da persone e da cose che lo obbligano a vivere una vita non scelta, non voluta e non amata.

Queste persone imparano attraverso le sofferenze che non può esserci gioia duratura nel possedere, nel potere, nel piacere. Quando queste persone, istruite così dalla privazione, non vogliono più cercare nelle creature ciò di cui il loro cuore ha sete, e si affidano a Dio «gettando su di lui il loro affanno», allora sono beate!

 

Ecco gli afflitti cui Gesù attribuisce beatitudine: soffrono, ponendo però la speranza della loro gioia nel Signore. Soffrono privazioni, debolezze, forse anche persecuzioni, ma sperano solo nel Signore.

Agli occhi del mondo essi sono afflitti, perché il mondo li vede mancanti di beni, li considera disgraziati, ma essi dinanzi a Dio sono beati e vivono pace interiore, perché sono nella condizione di coloro cui nulla manca: Dio stesso è la loro pienezza, la loro sicurezza, la loro stabilità.

 

Essi sono beati perché saranno consolati!

Questa parola restringe un po' il significato del termine usato nella lingua greca della stesura originale del vangelo. Là si usa un termine che contiene la stessa radice di «Paraclito» e che significa molto più che sola consolazione.

Esso si può tradurre: «Saranno chiamati vicino». Da chi? Per quale motivo? Dio li chiamerà accanto a sé, e accanto a Dio c'è sì consolazione, ma anche difesa, forza, gioia, pace, gloria, pienezza: vera beatitudine!

 

Il loro essere “chiamati vicino”, oltre ad essere per loro stessi fonte di consolazione e pace e forza, li rende partecipi del «Paraclito»: essi stessi divengono strumento della consolazione, della pace, del coraggio di Dio Padre. Succede per loro quanto dice S. Paolo (2Cor 1, 4): «Sia benedetto Dio, Padre del Signore Nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare (difendere, incoraggiare, rallegrare) quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione, con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio»...

Potremmo perciò tradurre così la beatitudine: Beati gli afflitti perché parteciperanno del Paraclito, in quanto lo ricevono e in quanto ne condividono la missione! Essi diverranno strumento del Regno di Dio, dell'amore vivificante di Dio Padre!

 

Abbiamo spesso sperimentato infatti che proprio chi ha sofferto, chi è passato con fede attraverso l'afflizione, sa comprendere gli altri nel dolore, li sa accogliere, li sa avvicinare, li sa incontrare col silenzio e con le parole, li sa aiutare a ritrovare fiducia e speranza.

Chi non ha cercato nelle creature la consolazione e l'aiuto, diventa dono di Dio per coloro che stanno soffrendo.

 

Da questa esperienza e consapevolezza potremmo giungere a considerare le nostre particolari afflizioni come delle occasioni provvidenziali del Signore per distaccarci da cose, da persone, dai nostri stessi desideri e aspettative, per riporre tutta la nostra fiducia e speranza in lui e così ritrovare a livelli più profondi e durevoli la pace e la serenità.

Quando ci tocca qualche afflizione possiamo subito ringraziare, prima di vederne la fine: sappiamo di trovarci nella situazione che ci avvicina al Signore in modo esclusivo e ci rende capaci di compiere la sua missione di portare consolazione.

 

Essere afflitti nella fedeltà a Dio è preludio di beatitudine. Con un atto grande di fede possiamo perciò, trovandoci ancora nell'afflizione, anticipare la gioia per la certezza che il Signore si sta prendendo cura di noi e farà di noi strumento della sua gloria.

In tal modo riusciamo a vincere le tentazioni che l'afflizione porta con sé: depressione, disperazione, egocentrismo.

 

Dovremmo imparare con esercizi ripetuti a vivere la parola di s. Paolo: (1 Cor 7,30) «Chi piange, come se non piangesse».

«Perché piangi?» chiese Gesù a Maria Maddalena nell'orto della Risurrezione. Maria aveva motivo di piangere, meglio, ella riteneva di averlo, ma in realtà il motivo era ormai inesistente.

Così è pure per noi. Perché piangi? Non ti accorgi ancora, ma Dio è vicino a te. Non te ne rendi ancora conto, ma ciò che ora ti fa piangere è pietra preziosa e necessaria nella costruzione del tuo edificio spirituale, nella maturazione della tua personalità, nella crescita della tua fede, nella purificazione del tuo amore.

- Perché piangi? La mia morte - sembra dire Gesù a Maria - è condizione per la mia gloria. Non puoi piangere, col pianto manifesti solo cecità. Io sono vivo, Io sono qui! –

 

«Perché ti rattristi anima mia? Perché su di me gemi?

Spera in Dio: ancora potrò lodarlo,

Lui, salvezza del mio volto e mio Dio» (Sal 41, 12).

 

 

Esempi

 

Giacobbe subisce una grande afflizione da parte di suo fratello Esaù: è costretto ad abbandonare la madre, cui era molto legato affettivamente, la casa, la sua vita e fuggire! Ed è proprio durante questa fuga disperata che si sente dire, nel sonno: «Ecco, io sono con te, e ti proteggerò»! È un sogno, ma un sogno speciale: esso introduce una novità nella vicenda di Giacobbe, una buona notizia che dà gioia e aiuta a continuare il viaggio non più come fuga, ma come obbedienza e comunione con Dio.

 

Beati gli afflitti! (Gen 28, 15)

 

Susanna si trova in un'afflizione mortale. La sua condanna a morte è pronunciata. Ella si affida a Dio, e Dio si occupa di lei dando luce e coraggio a Daniele, che la salva. (Dan 13)

 

Maria Maddalena piange davanti al sepolcro vuoto. La sua afflizione è senza spiegazione. Tra i singhiozzi si sente chiamare per nome. È chiamata vicino a Gesù per ricevere da lui consolazione e per partecipare alla sua missione di portare la buona notizia. Consolata, diventa consolatrice. (Gv 20,15-18)

 

Stefano, mentre viene lapidato, si affida al Signore Gesù: ne riceve consolazione e forza e diventa testimonianza per Saulo. (At 7,59)

 

Il figlio prodigo torna afflitto verso il Padre, ma questo suo camminare col cuore mesto è in realtà un cammino verso la festa più bella della sua vita! (Lc 15,22)

 

«Coloro che son passati per la grande tribolazione... L'Agnello sarà il loro pastore e Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 7,17; 21,4)

 

I confessori della fede vivono piangendo il peccato del mondo, se ne addossano le sofferenze in una vita di austerità e penitenza: essi stessi godono di grande pace che trasmettono a chi li cerca e li avvicina.

(S.Antonio abate, s. Francesco d'Assisi, s. Nicola d. Flüe, p. Charles de Foucauld)

 

Beati quelli che si appoggiano a Dio nelle loro sofferenze,

riceveranno forza e consolazione

e diventeranno sostegno e conforto per i loro fratelli!

 

 

Beati i miti,

perché erediteranno la terra

 

«I miti possederanno la terra e godranno di una grande pace», canta un salmo (37, 11). Altre parole della S. Scrittura esaltano il mite, l'umile, il mansueto, perché a queste persone «Dio dà grazia». Questa qualità è stata notata addirittura nel più grande condottiero del popolo: «Mosè era molto più mansueto di ogni uomo che è sulla terra» (Num 12,3).

I miti piacciono a Dio, gli sono graditi, si attirano la sua amicizia con la loro mansuetudine. Non ci sorprende, perché anche a noi piace la vicinanza di persone miti: esse sono animate da uno spirito accogliente, dolce, senza durezza, sono capaci di sopportare, di tacere, di ascoltare.

Ecco in fondo com’è l’uomo mite.

Egli non si fa notare, non vuol sostenere o difendere ragioni. Sembra che abbia sempre una ragione in più che lo fa stare in ascolto e vincere le durezze. E questa è la ragione: per vivere ci vuole bontà e comprensione, carità e pazienza. È la ragione dello Spirito Santo. Chi si tiene nello Spirito Santo è nella ragione, perché vicino a Dio!

 

Il mite non mette la propria persona in mostra, né con discorsi, né con l'alzar la voce, né con vestiti strani, né con profumi attraenti, né con modi di fare eccentrici.

Egli si ritiene figlio di Dio e vuole perciò lasciar spazio al Padre attorno a sé. Vuole far risplendere la presenza di Dio, non la propria. E Dio è mite, non s'impone, non costringe mai.

L’uomo mite vede inoltre gli altri come amati da Dio e li rispetta così. Non ha perciò pretese verso nessuno, è benevolo e guarda tutti con stupore, perché in tutti si nasconde e si manifesta qualcosa del Padre di tutti.

Soprattutto, il mite non vuol sottrarre spazio alla luce e alla voce di Dio.

Dio deve poter parlare agli altri e attraverso gli altri; Dio deve risplendere, il suo amore deve trasparire dai gesti dell'uomo. Il mite perciò avrà gesti e modi di convivenza che lasciano trasparire i modi del suo Dio, mite e umile di cuore!

Una persona così è presente senza farlo notare, ma è disponibile a servire senza pretese.

Il mite è una persona su cui puoi contare sempre, e che non se la prende mai, se ti sbagli con lui.

Egli esercita il suo compito senza pretendere che lo facciano gli altri. Sa lasciare a ciascuno la propria libertà, perché la libertà è dono di Dio.

 

Queste persone sono considerate certamente da Dio come figli, nati da lui come il Figlio «mite ed umile di cuore». Essi sono perciò eredi, possederanno quanto Dio possiede e al modo in cui Dio possiede.

Dio possiede la terra e quanto essa contiene! E anche i miti possederanno la terra!

 

Che significa possedere? Di che terra si tratta? Quale terra possederà il mite? I primi ascoltatori di Gesù, al sentir parlare di terra certamente sentivano risvegliarsi nella mente reminiscenze antiche. Essi conoscevano la storia dei patriarchi cui era stata premessa la terra e non avevano potuto possederla! La terra della promessa, la terra della benedizione di Dio, la terra del regno di Davide: questa terra, che non è limitata dai confini d'Israele, ma che coinvolge i desideri di pienezza e di eternità dell'anima, è ormai identificabile con la Gerusalemme di lassù, la patria definitiva.

Beati i miti, possederanno la patria!

I miti sono i veri eredi di Abramo! «Ha preparato per loro una città, a quanti hanno dichiarato d'essere stranieri e pellegrini sopra la terra»! (Eb 11,13-16).

Abramo, padre della fede, è l'esempio tipico dell'uomo mite. Allorché si accorse delle difficoltà di convivenza dei suoi servi con quelli di Lot, disse al nipote: «Non vi sia discordia fra me e te, perché noi siamo fratelli!... Se tu vai a sinistra, io andrò a destra ... » (Gen 13, 8).

«Il Signore disse ad Abramo: tutto il paese che tu vedi io lo darò a te» (Gen 13, 15).

 

«Non in virtù della legge fu data ad Abramo e alla sua discendenza la promessa di diventare erede del mondo, ma in virtù della giustizia che viene dalla fede» (Rom 4,13). I miti sono gli eredi di Abramo: condividono con lui la fede, condividono la promessa di Dio.

 

Questa beatitudine non parla solo alla cultura ebraica che pensa alla terra promessa e ai patriarchi; parla ancor oggi agli uomini affamati di possedere, di aggiungere campo a campo, di allargare i propri confini, di ammucchiare quella terra gialla che si chiama oro!

 

Ebbene, solo i miti possiedono la terra, solo i miti, cioè, dalla terra traggono beneficio, ricevono frutto e ne godono. Per essi la terra non è occasione di paura, di terrore, di peso. Non è la terra che possiede i loro cuori! Quando uno «possiede» terra di qualsiasi tipo, difficilmente ne trae vantaggio. Da questo suo possedere sgorgano invidie, odi, gelosie, bramosie, paure, malattie psichiche e spirituali, frustrazioni...

 

Da che cosa si può vedere se io sono posseduto o se posseggo? Proprio dal fatto che posso donare quanto sta nelle mie mani, posso dedurre che lo posseggo. Se invece voglio aumentare i depositi e mi preoccupo di essi, sono posseduto.

 

Beati coloro che non s'impongono a nessuno: saranno ovunque a casa del loro Padre, che alla fine li accoglierà!

 

Solo il mite «possiede», cioè domina la terra, non reagisce in dipendenza dalla terra, gode di vera libertà interiore. Il mite gode della terra ovunque si trovi, anche se dorme in casa altrui, anche se lavora in officine che non gli appartengono, anche se calpesta sentieri che portano un altro nome. Il mite gode ovunque, perché ovunque sa d'essere in casa del Padre suo!

 

 

Esempi

 

Giuseppe, sposo di Maria.

 

La terra non è iscritta al suo nome all'ufficio tavolare! Ma ovunque sulla terra, a Nazareth, a Betlemme ed in Egitto, egli è custodito da Dio.

 

“Sono stato fanciullo e ora sono vecchio, non ho mai visto il giusto abbandonato né i suoi figli mendicare il pane. ... Sta’ lontano dal male e fa’ il bene e avrai sempre una casa.”

 

“... I giusti possederanno la terra e l'abiteranno per sempre.” 

“... Spera nel Signore e segui la sua via: ti esalterà, e tu possederai la terra!” 

In ogni terra Giuseppe è raggiungibile dal Padre.

Egli è il mite che possiede la terra come luogo di rifugio e di sicurezza perché ovunque Dio stende su di lui il suo manto. 

Zaccheo: possiede di più prima o dopo l'incontro con Gesù? Prima possiede molto, dopo regala e restituisce. Prima però il suo cuore è posseduto dalla terra e costretto alla frode, alla menzogna e alla paura; dopo, quando l'oro esce dalle sue mani, egli sperimenta la gioia del donare e dell'appartenere a Gesù.

Quando dona, Zaccheo comincia a trarre vantaggio dalla terra; quando dona, possiede veramente. (Lc 19) 

«L'uomo ricco... se ne andò afflitto, perché aveva molti beni» (Mc 10,22).

Egli era schiavo, posseduto dalla terra tanto da non essere libero di seguire il Signore e da non raggiungere quindi la terra promessa! 

Il salmo 37 con insistenza ribadisce la beatitudine proclamata e vissuta da Gesù!

-Sta’ in silenzio davanti al Signore e spera in Lui;

non irritarti per chi ha successo...

 

- Chi spera nel Signore possederà la terra...

 

-I miti possederanno la terra e godranno di una grande pace...

 

-Il poco del giusto è cosa migliore dell'abbondanza degli empi...

 

-Conosce il Signore la vita dei buoni, la loro eredità durerà per sempre.

 

- Chi è benedetto da Dio possederà la terra.

 

-Il Signore fa sicuri i passi dell'uomo

e segue con amore il suo cammino.

Se cade, non rimane a terra,

perché il Signore lo tiene per mano.

Sono stato fanciullo e ora sono vecchio,

non ho mai visto il giusto abbandonato

né i suoi figli mendicare il pane.

… Sta’ lontano dal male e fa’ il bene

e avrai sempre una casa.

… I giusti possederanno la terra

e l’abiteranno per sempre.

… Spera nel Signore e segui la sua via:

ti esalterà, e tu possederai la terra!

 

 

Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia,

perché saranno saziati

 

La parola «giustizia» viene pronunciata da Gesù in varie occasioni. Sulle sua labbra questo termine ha un significato molto lontano da quello che gli attribuisce la cultura e mentalità odierna. Per noi la «giustizia» riguarda i rapporti sociali, spesso significa retribuzione adeguata in bene e in male. È una realtà che si basa sul passato, su ciò che uno ha fatto.

 

Quando Gesù usa questo termine, non lo comprenderemmo se ci fermassimo alla nostra mentalità.

«Cercate il Regno di Dio e la sua giustizia», dice il Signore.

 

Che cos'è la giustizia di Dio che il discepolo di Gesù deve «cercare»? È quella spada che separa il bene dal male, che punisce il colpevole e premia il buono? Questa concezione dipende ancora dalla cultura del mondo in cui siamo immersi, non è quella del pensiero di Gesù.

 

La giustizia di Dio ci vien presentata dall'Antico testamento come il suo intervento a favore dei deboli, di coloro che sono senza difesa. È un intervento di salvezza, di misericordia, di delicatezza, di fedeltà al suo essere «Dio con noi», di fedeltà al suo nome IHWH che significa: «Io sono Colui che c'è per salvarvi»!

Vista così la giustizia di Dio acquista ampiezza, profondità e bellezza nuove, tanto da diventare oggetto della nostra costante ricerca, della nostra fame e sete, di un nostro desiderio vitale.

Dio vede l'uomo come un essere debole, caduto fin dalle origini nelle insidie del suo nemico e insidiato da spiriti che lo ingannano e lo rovinano: autosufficienza, egocentrismo, egoismo, dominio degli altri, accusa,

gelosia, invidia, ecc...

Questi spiriti tolgono al cuore dell'uomo il suo ossigeno spirituale, gli impediscono di vivere fino in fondo le sue capacità di amare e di donarsi, lo soffocano nella materia e quindi lo rendono anche ingannatore e oppressore dei fratelli.

All'uomo è tolta la dimensione filiale verso Dio e la dimensione fraterna verso gli uomini.

Dio vede l'uomo come profondamente ferito, bisognoso soprattutto di salvezza, perché sempre sottoposto all'influsso di quei nemici che non cessano di opprimerlo.

Il cuore di Dio, che vede la propria immagine vivente così vituperata, è mosso a compassione e - potremmo dire - a indignazione: contro chi? Contro l'antico serpente che è l'unica sorgente, l'unico padre di quegli spiriti.

La giustizia di Dio, anziché essere l'atteggiamento che lo porterebbe a giudicare e condannare empi e malvagi, è la sua volontà orientata e decisa a salvare ogni uomo - ogni uomo ha una certa dose di empietà e malvagità addosso - dall'influsso del maligno, a salvare empi e malvagi dal loro peccato già commesso, e dal desiderio o dalla tentazione di continuare!

Egli vuole strappare l'uomo dalla sua «ingiustizia» e mettere amore nel cuore egoista.

La giustizia di Dio coincide quindi con la sua misericordia e col suo amore per gli uomini, o ne rappresenta un aspetto; è quella volontà che lo porta a donare il Figlio. Noi comprendiamo che proprio allora Dio è al suo posto, al posto «giusto» per lui, quando è Padre, quando fa di tutto per salvare chi è perduto.

L'uomo fedele del popolo d'Israele, che attendeva la giustizia di Dio, era in attesa del Messia, del Salvatore:

 

«La mia giustizia durerà per sempre,

la mia salvezza di generazione in generazione» (Is 51,8ss).

 

Proprio il Messia è la «giustizia» di Dio che salverà il popolo dai peccati in cui è stato travolto dal suo nemico interiore! Gesù è la giustizia di Dio! Egli realizza la misericordia del Padre, egli che ci mostra la paternità di Dio e ce la concretizza.

 

«È diventato per noi da parte di Dio

sapienza, giustizia, santificazione e redenzione» (1 Cor 1, 30).

 

Egli realizza il nome che Geremia (23,6) gli attribuì: «Signore, nostra giustizia».

 

Gesù ci mostra e ci dona la giustizia di Dio. Ci rivela quanto è grande l'amore del Padre per i peccatori. Quando, ad esempio, entra in Gerico, non pensa di liberare quella città da Zaccheo che la fa soffrire coi suoi soprusi, ma si sente mandato a Zaccheo stesso per liberare il suo cuore dallo spirito di avarizia e dall'idolatria del denaro che lo faceva peccare.

Gesù ci dona pure il perdono di Dio, che è la sua più grande giustizia.

Dio Padre è giusto perché, quando giudica un peccatore che ritorna a lui, lo accoglie come figlio dimenticandone il peccato.

Gesù è la giustizia di Dio. Chi accoglie Gesù diventa giusto agli occhi del Padre, perché diventa figlio.

Ed essere figlio è il giusto posto dell'uomo, la situazione in cui si realizza al massimo la sua umanità.

 

Nei primi sei capitoli della lettera ai Romani, s. Paolo descrive la giustizia di Dio. «È in esso (Vangelo) che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: il giusto vivrà mediante la fede» (1, 16). È nel messaggio dell'amore del Padre attraverso Gesù (il Vangelo) che Dio si mostra giusto.

 

La vera giustizia dell'uomo poi è quella che viene da Dio, non quella che egli cerca di procurarsi con le sue opere, perché l'uomo è sempre peccatore: «Nessun uomo sarà giustificato davanti a Lui» (3,20). La giustizia viene sempre da Dio come dono, conseguenza dell'adesione a Gesù: «Indipendentemente dalla legge si è manifestata la giustizia di Dio testimoniata dalla legge e dai profeti, giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo per tutti quelli che credono» (3,21ss).

 

Dio ha prestabilito Gesù al fine di manifestare la sua giustizia! (3,25) Gesù manifesta la giustizia di Dio proprio perché attraverso di lui Dio dimostra il suo amore agli uomini peccatori (la sua giustizia): «Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi».

 

Gesù adempie in sé «ogni giustizia» quando si mette in fila coi peccatori al Giordano (Mt 3,15); egli completa allora nella propria vita, volontariamente, il disegno del Padre già manifestato dalle Scritture che dicono: «Sarà annoverato tra i peccatori» (Is 53, 12).

Gesù s’immerge fino a questo punto nell'umanità: egli porta l'amore divino fin dentro le acque che accolgono i peccatori! E quando porterà quello stesso amore sul Calvario e lo vivrà sulla croce - scandalo e infamia - potrà dire: «Tutto è compiuto»; la giustizia di Dio cioè è giunta a salvare gli uomini, e la giustizia dell'uomo diventato figlio e rimasto tale fino alla morte è apparsa in tutto il suo splendore.

In Gesù la volontà di salvezza di Dio trova pienezza d'espressione e giunge a destinazione. Chi accoglierà il Figlio avrà la vita, sarà figlio di Dio (Gv 1, 12), sarà saziato e dissetato.

È Gesù stesso il primo ad avere «fame e sete della giustizia» e si sazia obbedendo al Padre: «Mio cibo è compiere la volontà di Colui che mi ha mandato» (Gv 4,34). Così egli stesso diventa pane e acqua e vino per la fame e la sete dell'uomo che sospira la totalità della giustizia. In lui l'uomo trova ristoro perché vi trova la pienezza dell'amore di Dio.

 

L'uomo che ha fame e sete della giustizia non è l'uomo che cerca la condanna dei peccatori, la distruzione dei violenti, la prigione e la morte di chi commette atrocità; non è colui che cerca la giustizia degli uomini che è sempre inficiata di peccato e di violenza, di rivendicazione e di vendetta!

Questo è l’atteggiamento del fratello del figlio prodigo, incapace di desiderarne il ritorno e di accoglierne il pentimento, capace solo di valutare errori e peccati per giustificare il proprio egoismo e la propria chiusura di cuore.

 

L'uomo che ha fame e sete di giustizia è piuttosto colui che desidera ardentemente ciò che desidera il Padre e ciò che il Padre offre: salvezza per sé e per gli altri dallo spirito di ribellione e di egoismo, e dal male in cui questi atteggiamenti hanno trascinato.

Il Padre del figlio prodigo è giusto perché desidera salvare il figlio dalla situazione esteriore di miseria ed interiore di schiavitù, in cui è precipitato. Egli è giusto perché gode del figlio che ritorna, ricuperato dalla morte dei falsi rapporti d'amore in cui si trovava. Il Padre guarda al futuro, alle possibilità che si aprono all'uomo che si scopre amato gratuitamente.

 

L'uomo che ha fame e sete di giustizia desidera immergersi nell'amore del Padre per essere a disposizione di ciò che Egli intende operare. Così esorta infatti s. Paolo: «Non offrite le vostre membra come strumenti di ingiustizia al peccato, ma offrite voi stessi a Dio come vivi tornati dai morti e le vostre membra come strumenti di giustizia per Dio» (Rm 6,13). E ancora: «Avete obbedito di cuore a quell'insegnamento che vi è stato trasmesso, e così, liberati dal peccato, siete diventati servi del giustizia» (Rm 6, 17-18).

L'uomo che ha fame e sete di giustizia ha perciò fame e sete di obbedire a Gesù, ha fame e sete di Gesù: vuole che il Figlio di Dio prenda posto concreto nella sua carne, nella sua esperienza quotidiana, nella sua vita fino a realizzare quanto s. Paolo ebbe il coraggio di dire: «Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20).

 

Beato chi ha fame e sete di Gesù!

 

 

Alcuni riferimenti biblici possono darci luce su questa traduzione della beatitudine.

 

«Ascoltatemi, voi che siete in cerca di giustizia,

voi che cercate il Signore!

Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati...

Guardate ad Abramo vostro padre ... ». (Is 5 1, 1)

 

Per noi la roccia da cui proveniamo è Gesù, poiché «per mezzo di Lui tutto è stato fatto»! (Gv 1, 3).

 

«Manderò la fame nel paese,

non fame di pane, né sete di acqua

ma d'ascoltare la parola del Signore». (Am 8, 11s)

 

«Chi viene a me non avrà più fame

e chi crede in me non avrà più sete». (G v 6,35)

 

«Non avranno più fame, non avranno più sete

poiché l'Agnello sarà il loro pastore». (Ap 7, 16)

 

Beato chi ha fame e sete di Gesù, giustizia di Dio, sarà saziato!

Non avrà più da cercare, arriverà alla pace, sarà vicino al Padre come vero figlio, sarà in casa propria godendo di libertà: è beato!

 

 

Una parola di Gesù ci dona ancora un po' di luce per la nostra riflessione.

«Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5, 20).

 

Il discepolo di Gesù non può accontentarsi di fare la volontà di Dio nel modo con cui la eseguono quelle due classi del popolo eletto.

Gli scribi fanno la volontà di Dio come si eseguono gli ordini di un padrone: il minimo che consenta di non essere castigati. Questo atteggiamento manifesta la presenza di propri interessi privati accanto - o sopra - i disegni del Padre, manifesta la preoccupazione di difendere qualcosa di sé dalle esigenze di Dio.

Questo tipo di obbedienza a Dio non ne manifesta l'amore, anzi, stravolge l'immagine stessa di Dio, che appare più padrone che padre, più avversario dell'uomo che amico.

I farisei fanno la volontà di Dio per essere visti e ammirati e dichiarati religiosi dagli uomini, e perciò presi come esempio e obbediti. È una forma di dominio delle coscienze altrui, una forma di religiosità falsa che sfrutta i comandamenti di Dio per aumentare il proprio prestigio davanti agli uomini. Essi inoltre si credono autori della propria giustizia, si ritengono sicuri della salvezza perché meritata da se stessi.

Anche questo stile di vita parte da un'immagine falsa di Dio, pagana, e la propina in maniera subdola agli altri, ingannati dall'apparenza di religiosità. Ne viene l'immagine di un Dio che sa solo pesare le azioni degli uomini, che sa solo retribuire, che non ha quindi iniziative d'amore come un Padre. La salvezza sarebbe ritenuta conquista dell'uomo ritenuto buono, non dono di Dio.

La giustizia del discepolo di Gesù deve superare queste false giustizie.

È Dio che giustifica gratuitamente chi accoglie Gesù, suo Figlio. E chi accoglie Gesù diventa figlio e assume i progetti e i modi di fare del Padre. Il discepolo di Gesù diventa giusto, sia in quanto viene visto dal Padre come figlio, sia in quanto comincia ad esercitare la stessa giustizia del Padre verso gli altri uomini, donandosi per la loro salvezza.

Egli inoltre si lascia amare gratis da Dio, non vuole pagare l'amore che riceve! Sa che non ci riuscirebbe!

 

Esempi

 

Giuseppe, venduto e odiato dai suoi fratelli, si affida a Dio. Quando, viceré d'Egitto, si ritrova ai piedi i propri fratelli, riconosce la meravigliosa giustizia di Dio e la fa propria: «Non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita... Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma di Dio ... » (Gn 45,5.8).

 

David non si fa «giustizia» contro Saul che lo cerca a morte, ma lascia fare a Dio.

Gli risponde Saul: «Tu sei più giusto di me, perché mi hai reso il bene mentre io ti ho reso il male. Oggi mi hai dimostrato che agisci bene con me, che il Signore mi aveva messo nelle tue mani e tu non mi hai ucciso» (1 Sam 24,18-19).

 

S.Giuseppe è dichiarato giusto: egli voleva essere obbediente al Dio dell'amore e non alle leggi del ripudio: «Era giusto e non voleva ripudiarla» (Mt 1, 19). Egli voleva salvare Maria.

 

Il ladrone crocifisso con Gesù, da quando lo accoglie e inizia un rapporto d'amore con lui, diventa «buono». Egli è giustificato dal Signore, nonostante i suoi delitti, perché ha accolto il Signore Gesù - nostra giustizia.

E nonostante la morte che deve soffrire è già beato, tanto che non cerca più di scendere dalla croce (cf Lc 23,43).

 

Alcuni Salmi ci possono introdurre alla meditazione sulla vera giustizia di Dio: Sal 30; 33; 72; 85.

 

Veramente posso godere della giustizia del mio Dio e offrirmi a Lui come strumento della sua giustizia!

 

 

Beati i misericordiosi,

perché troveranno misericordia

 

Misericordia e giustizia nel cuore di Dio sono espressioni del medesimo amore. Questa riflessione può quindi essere la continuazione della precedente.

Da quando Adamo ed Eva hanno deciso la propria autonomia nei confronti del Padre, si sono ritrovati in una situazione di miseria a tutti i livelli: miseria materiale e miseria morale, nudità e accusa reciproca, simbolo di molte situazioni in cui ognuno di noi prima o poi viene a trovarsi: carenze materiali di salute o di possibilità economiche, carenze psichiche dovute a mancanza di affetto, di guida e/o di motivazioni interiori, carenze spirituali conseguenza di peccato e d'egocentrismo. La ricchezza materiale, la cultura, la fama e l'autosufficienza non salvano da queste miserie, anzi, talora le appesantiscono o le moltiplicano.

Come metterci di fronte a queste situazioni? Accusare, abbandonare, sfruttare, costringere, ricattare?

Il discepolo di Gesù deve guardare come si comporta Dio di fronte alle miserie dell'uomo, per poi inserirsi nel movimento del suo cuore.

Dio sente pietà e compassione dell'uomo che subisce le conseguenze del suo peccato, ed interviene con amore. Già nel racconto che riguarda Adamo ed Eva abbiamo un paradigma del modo di intervenire di Dio per sollevare le miserie dell'uomo.

Il primo atto d'amore è quello che vede Dio impegnato a dare all'uomo la donna. L'affetto umano può essere colmato da una persona concreta: molti non saprebbero accontentarsi dell'amore di Dio che non si vede.

L'amore e l'amicizia tra gli uomini è dono della misericordia di Dio.

Il secondo atto d'amore di Dio consiste nel dare all'uomo una regola di vita.

Vediamo anzitutto che Dio si premura di dare una legge, perché l'uomo non saprebbe regolarsi con i propri desideri, non saprebbe cavarsela, cadrebbe subito in balía della morte.

Dopo la disobbedienza l'uomo sarebbe incapace di andare in cerca di Dio. Dio stesso si muove, fa il primo passo per incontrare nuovamente gli occhi di Adamo. Lo chiama: «Dove sei?». Gli dà modo di riprendere il dialogo, lo aiuta a rendersi conto dello stato in cui si trova, gli fa capire che può vivere ancora fuori del nascondiglio: non deve disperare, è ancora amato.

Dio inoltre condanna il serpente: non condanna l'uomo, anzi, gli promette aiuto e salvezza dalle conseguenze della sua disobbedienza. E l'uomo può scoprire in Dio un alleato, uno che lo vuol difendere e salvare.

Ultimo atto di misericordia di Dio: «Fece delle tuniche di pelli e li vestì».

L'amore di Dio diventa delicato e concreto. Egli rimedia alle conseguenze dell'errore peccaminoso dell'uomo. L'uomo soffre di nudità, Dio lo riveste.

Tutta la storia degli uomini è rappresentata e riassunta in questi interventi divini. La storia degli uomini è un intrecciarsi del loro peccato, e miserie conseguenti, con la misericordia di Dio, tanto che potrebbe essere chiamata: «Storia dell'amore misericordioso di Dio».

Che cos'è “misericordia”? Questa nostra parola vorrebbe tradurre due termini ebraici, di cui uno esprime l'affetto istintivo che una madre nutre per il figlio, l'altro l'amore che una persona decide volutamente di avere per mantenere una promessa fatta.

A Dio vengono attribuite tutt'e due queste dimensioni d'amore, ma in modo particolare la seconda.

Dio è misericordioso in quanto ha deciso di occuparsi dell'uomo, sempre debole e soccombente sia di fronte alle forze tremende della natura, sia di fronte al diavolo che gli è profondamente nemico.

Dio vuole sempre il bene dell'uomo; anche quei fatti che dalla mentalità religiosa dell'uomo sono chiamati «castighi di Dio» sono invece, o vengono da lui adoperati, come atti di misericordia.

Se l'uomo non subisse conseguenze (castighi) per le sue azioni malvage, cederebbe con sempre maggior facilità alle seduzioni degli idoli, e del demonio, e giungerebbe alla propria completa rovina.

Il segno più grande della misericordia di Dio per il peccatore è Gesù. Egli non è solo il segno, ma la misericordia stessa del Padre divenuta visibile. La sua vita manifesta e concretizza la misericordia infinita del Padre rendendola presente nel tempo. Con le parole, con i miracoli, con la sua preghiera, ma soprattutto con la morte Egli ci dona l'amore di Dio per i poveri e i peccatori. Nella morte di Gesù, Padre e Figlio cooperano insieme per dare all'uomo il massimo amore (lo Spirito Santo).

Ogni cristiano, figlio di Dio, diventa misericordioso perché fa quello che vede fare dal Padre suo, come Gesù glielo mostra e glielo insegna.

Anzitutto il cristiano riceve con riconoscenza la misericordia del Padre attraverso Gesù: ne ha bisogno ogni giorno!

Ricevendola con umiltà si fa luogo della misericordia di Dio per gli altri. Egli diventa come Gesù desidera: «misericordioso come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36).

La misericordia di un uomo per un altro uomo è poca cosa, ma è spazio che contiene la misericordia di Dio. È poco, ma è tutto: e ha grande significato per chi la riceve. Avere misericordia per una persona credo significhi distogliere lo sguardo dal male che questa persona ha fatto e rivolgerlo al bisogno del suo cuore. È vedere il vuoto del cuore d'un uomo non come occasione di giudizio o di condanna, ma come occasione per esercitare l'amore, come luogo che io posso cercare di riempire.

La misericordia può essere rivolta al povero cui manca il pane o al peccatore cui manca l'amore.

Nel primo caso si traduce in condivisione di beni materiali, nel secondo caso in accoglienza e perdono, ma anche in istruzione, affetto, aiuto morale e materiale, proprio secondo lo schema dell'intervento di Dio per Adamo.

L'uomo che non ha misericordia è sempre un paradosso, non è un uomo! La parabola dei due debitori (Mt 18,23-35) mostra l'assurdità della mancanza di misericordia. L'uomo, ogni uomo, io stesso, sono un uomo perdonato e condonato da Dio in misura non misurabile. Se non perdono al fratello che ha con me debituzzi da poco, sono davvero un miserabile, uno che rifiuta di godere e di trasformare in amore mio l'amore di cui sono stato oggetto.

La non misericordia rivela un egoismo incapace di stare alla presenza Dio, di abitare nel cuore di Dio.

Chi non ha misericordia vive e vivrà «nel pianto e stridor di denti».

Beati i misericordiosi perché otterranno misericordia.

Da chi?

Da chi ottiene misericordia il misericordioso?

Da Dio e dall'uomo.

Se sono misericordioso, Dio può riconoscere in me il cuore di un figlio, di uno che è nato da lui.

«Il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia ha sempre la meglio nel giudizio» (Gc 2, 13).

 

«Il Signore è ricco di misericordia e compassione» (Gc 5, 11); e noi lo imitiamo, ci facciamo diffusori di questa capacità del suo cuore (cf Gc 3, 17; Ef 4, 32; Lc 6, 36).

 

 

Esempi

 

Con le parabole della misericordia Gesù ci fa ancora contemplare questo aspetto della vita di Dio perché troviamo serenità e perché sappiamo come orientarci nel labirinto dei mali e peccati di coloro che ci circondano (cf Lc 15).

La parabola della pagliuzza e della trave (Lc 6,41s) ci aiuta ancora a vedere la non misericordia come una grossa ingiustizia, anzi, come un’autocondanna.

 

Pregando il salmo 136 siamo aiutati a vedere tutti gli interventi di Dio nel creato e nella storia come interventi di misericordia: «… poiché eterna è la sua misericordia».

Da noi Dio non gradisce quel che a noi piacerebbe dargli: sacrifici e olocausti, cose che possono mettere in mostra una nostra vanità; desidera invece grandissima misericordia, che mette in mostra il suo cuore.

 

L'esempio di Davide in fuga (cf 2Sam 16,5-14), che non vuole la morte di Simei, ci dà luce sulle dimensioni che può assumere la nostra misericordia.

Simei lancia sassi e maledizioni e ingiurie contro il re. Una delle guardie propone di uccidere un tale provocatore, ma Davide interviene: «Lasciate che mi maledica, perché glielo ha ordinato il Signore. Forse il Signore guarderà la mia afflizione ... ».

 

E dopo il ritorno, ristabilito sul trono, Davide continuerà a proteggere Simei (cf 19,24).

 

Beati i misericordiosi!

 

«Se uno ha ricchezze e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l'amore di Dio?» (1 Gv 3,17).

 

Ecco la beatitudine: chi è misericordioso porta in sé l'amore di Dio; Dio stesso occupa il cuore di chi usa misericordia.

 

 

Beati i puri di cuore,

perché vedranno Dio

 

L'uomo si sente orfano da quando Adamo s'è lasciato sedurre e non è più stato capace di mantenere il rapporto di figlio con Dio. I suoi occhi non lo vedevano più Padre, e perciò non lo vedevano proprio più. Se non vediamo il Padre con cuore di figli, i nostri occhi non vedono Dio, e se credono di vederlo, in realtà vedono altro.

La preghiera dell'uomo è diventata questa: «Mostrami il tuo volto, il tuo volto io cerco!».

Anche Filippo, il discepolo di Gesù, s'è fatto portavoce di questa necessità: «Mostraci il Padre e ci basta!».

Filippo ha intuito che la beatitudine dell'uomo sta nel vedere Dio. Dio è tutto, l'origine e la meta del lungo cammino interiore di ogni cuore.

«L'hai già visto», gli risponde Gesù.

Come mai Filippo non se n'è accorto? Come mai?

I suoi occhi erano chiusi? No, il suo cuore non era puro. Nemmeno i farisei avevano visto Dio nella vita di Gesù: il loro cuore non era puro, era pieno di...

 

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio!

 

La beatitudine, la gioia e pienezza non sta nell'essere puri, ma nel vedere Dio.

Non siamo alla ricerca di una nostra purezza, di una nostra virtù: siamo sempre e soltanto alla ricerca di Dio. Se cercassimo una nostra purezza, una nostra perfezione, saremmo già fuori della purezza del cuore perché avremmo un cuore egocentrico. La nostra purezza ci diverrebbe idolo. Cerchiamo solo Dio; cerchiamo Dio solo, sempre e ovunque.

Questa radicalità provocherà in noi purezza di cuore e Dio potrà lasciarsi scorgere.

 

Che cos'è purezza di cuore?

 

Il cuore è il centro dell'uomo, se ci si può esprimere così. Il cuore è la sede dei sentimenti e dell'intelligenza, della memoria e dei desideri, della volontà e dell'amore.

Purezza di cuore è perciò molto di più che purezza sessuale, anche se questa vi è compresa.

Cuore puro è un interno limpido, senza doppio gioco, semplice, è intenzione senza interesse, è un vivere e uno sperare in armonia con i desideri e i sentimenti di Dio.

Questa purezza di cuore può sembrare impossibile. Il nostro «Io», nel subconscio e nell'inconscio, si trascina appresso, senza saperlo né volerlo, molto orgoglio, molta vanagloria, molta superficialità, molta ambizione.

È difficile poter sostenere che compiamo azioni, soprattutto buone azioni, con cuore puro.

Quanti desideri si nascondono sotto le nostre «buone azioni»! Desideri d'essere visti, d'essere grandi, d'essere riconosciuti santi, d'esser qualcuno, di saperci utili...

Le cose più belle che facciamo portano quasi sempre il colore dell'egocentrismo. Ce n’accorgiamo quando qualcosa non ci riesce, o quando veniamo disprezzati, o quando veniamo lodati; allora possiamo constatare se i nostri modi e le nostre intenzioni erano pure, libere da egocentrismo, se erano solo «amore».

Basta che uno manifesti un giudizio negativo, e mi demoralizzo, o m'inalbero. Basta che qualcuno intralci le mie opere buone, e io m'arrabbio; che uno mi lodi, e io mi esalto. Sono segni che il mio cuore non è puro.

Quando si può vedere se un cuore è puro? Allorché è in atto la prova della sofferenza.

Il cuore di Gesù è stato trovato puro nei quaranta giorni di deserto. Là il suo amore al Padre e agli uomini è stato provato. Non c'erano secondi fini in lui. Egli donava quei quaranta giorni al Padre come atto d'amore puro, senza desiderio di gratificazione e contraccambio, senza aspettarrsi nemmeno un pane.

 

Era già stato provato nei trent'anni di nascondimento a Nazareth, e sarà ancora messo alla prova dalla solitudine, pur in mezzo alla folla. E la prova sarà completata e superata del tutto solo sul Calvario.

Per noi il nascondimento, la solitudine, la sofferenza sono strumenti provvidenziali che manifestano, ma anche preparano, un cuore puro.

Il cuore di un amico è puro? Lo vedrai quando egli soffrirà per te e con te. Allora potrai vedere se l’amicizia è pura o mescolata con interessi.

La mia preghiera è pura? Di quanti sottili interessi è costellata la mia preghiera! Finché permane questa «impurità» di cuore non c'è possibilità di vedere Dio, nemmeno quando si trova davanti a noi o in noi.

Com'è facile, pur essendo religiosi, avere un cuore non puro! Marta, sorella di Lazzaro, si dona, si offre, fa fatica per Gesù. Come mai arriva a giudicarlo e a condannare la sorella? Il suo cuore non è puro. La sua fatica per Gesù rimane mescolata con l'attenzione a se stessa, col voler far di testa propria. Se un cuore che dice di amare Gesù non è puro, arriva a mormorare, ad accusare, a lamentarsi ed impazientirsi.

Anche Pietro vuole donarsi a Gesù, e lo proclama a voce alta. Come mai poco dopo lo rinnega? Il suo cuore non è puro. In lui l'amore per Gesù è mescolato all'interesse di... salvarsi.

C'è una via per giungere alla purezza di cuore?

La purezza di cuore è un dono di Dio: «Crea in me, o Dio, un cuore puro», e la strada per ottenerlo è quella del lasciarsi amare.

Maria, sorella di Marta, si lascia amare da Gesù: lascia a lui l’esser protagonista, così lei può obbedire e non s'innervosisce con la sorella. Il suo cuore è puro.

Gesù vuole insegnare questa strada a Pietro quando gli dice: «Se non ti laverò non avrai parte con me» (Gv 13,8).

Pietro deve accettare che Gesù faccia fatica per lui, dovrà accettare che Gesù soffra e muoia anche per lui, per aver comunione con Lui. Lasciarsi amare è la strada per entrare nel cuore puro di Gesù. Come un bambino accetta con gioia che la mamma fatichi e soffra per lui, così deve comportarsi il discepolo di Gesù.

Chi si lascia amare è capace di accettare come amore di Dio tutto, diventa capace di vedere in ogni piccolo e grande evento la presenza del Padre. Chi si lascia amare è in grado di ricevere lo Spirito, e lo Spirito Santo è la luce che permette al cuore dell'uomo di vedere Dio sempre e ovunque.

La purezza richiesta per vedere Dio non è quella esteriore, benché noi siamo sempre tentati da superficialità varie a porci davanti gli idoli della pulizia, dell'igiene, del non sbagliare: gli sbagli e la sporcizia - sempre che non manifestino disordine interiore - non intaccano la purezza del cuore.

 

Che cosa significa «vedere Dio»?

Vedere qualcuno produce la certezza della sua presenza.

Vedere Dio significa avere la certezza della presenza e dell'amore di Dio, avere la consolazione e la pienezza della sua visita.

Vedere Dio è saper riconoscere a Dio tutte le sue qualità e perfezioni, riconoscergli superiorità e autorità.

Vedere Dio significa vedere tutto in riferimento a lui, tutto dipendente da lui; e ancora lasciare che tutto perda la sua importanza e acquisti quel ruolo che Dio gli dà in vista del servizio al suo Regno.

I puri di cuore giungeranno a questa pienezza, a godere di questa luce e della pace conseguente.

Noi abbiamo chiarezza interiore, coscienza della presenza e dell'opera di Dio, «visione» di Dio, quando siamo liberi da attaccamenti a idee, convinzioni, ragioni, abitudini, denaro, cose...

Lasciandoci amare con la semplicità dei bambini, ci riuscirà di scoprire la mano e il cuore di Dio nelle piccole e grandi vicende in cui veniamo coinvolti.

Purezza di cuore comporta e dona vera libertà da tutto.

Il puro di cuore non pretende e non esige (libero dalle cose).

Il puro di cuore non discute (libero dalle idee).

Il puro di cuore non s'arrabbia (libero dalle abitudini).

Il puro di cuore non accusa (libero da se stesso).

 

Il puro di cuore diventa amore: entra in Dio che è amore.

 

«La carità sgorga da un cuore puro» (1 Tm 1, 5), dice Paolo; e s. Giovanni gli fa eco: «Chi ama conosce Dio» (1 Gv 4, 7).

 

Beati i puri di cuore: essi vedono Dio!

Lo vedono non come un estraneo,

lo vedono perché esperimentano in se stessi il suo Amore,

amando!

Sono partecipi del suo essere amore!

Fanno parte di Dio.

Beati i puri di cuore: sanno essere amore,

e così, non solo vivono in Dio,

ma lo danno a vedere a tutti!

I puri di cuore hanno lo sguardo penetrante per riconoscere l'opera di Dio ovunque, anche là dove nessuno la scorge: nel dolore e nella disgrazia, nel povero e nel peccatore.

 

 

Esempi

 

Simeone è un puro di cuore che non cerca nulla per sé, ma solo la gloria di Dio. E i suoi occhi riescono a contemplare nel Bambino la salvezza di Dio.

Maria Santissima, libera da propri disegni, che non cerca nulla per sè nemmeno nel rapporto con Giuseppe, ha la certezza «fisica» della presenza di Dio.

S.Giuseppe, uomo puro di cuore, cerca solo ciò che è giusto per Dio, non vuole nulla per sé: gli viene dato di godere la consolazione di Dio.

Il discepolo Giovanni dimostra purezza di cuore seguendo Gesù legato. È completamente disinteressato. Ed è proprio lui a «vedere» l'uomo sulla spiaggia e a riconoscere il Signore.

 

Crea in me, o Dio, un cuore puro ! (Sal 5 1).

Con questa preghiera nel cuore cercherò di esercitarmi a lasciarmi amare da Dio, a vedere tutto come un dono.

Provo a godere di ogni cosa e di ogni avvenimento, perché proprio in essi si cela e si può manifestare la presenza del Suo Amore!

 

Beati gli operatori di pace,

perché saranno chiamati figli di Dio

 

Pace! Una parola frequente. Spesso esprime solo desideri, e spesso solo desideri superficiali; indica accordi tra gli uomini, tra categorie diverse di persone, tra le nazioni, oppure superamento di contese, di oppressioni, di guerre, di violenze.

Come però si possono evitare queste realtà dal momento che il cuore dell'uomo è legato a interessi egoistici, impregnato di brame economiche, di potere e di ambizioni per le quali sfrutta il mondo e gli altri uomini?

Fino a quando gli uomini si lasceranno dominare da interessi materiali, non potrà esserci tra loro pace sicura e stabile. Gli interessi materiali nascondono in sé sempre lo spirito che un giorno ha posseduto Caino.

Nemmeno il popolo di Dio, la Chiesa, può aspettarsi pace nel mondo. Il mondo le sarà sempre nemico. Gesù stesso, più di tutti cosciente di questa realtà, non nascose, ma dichiarò: «Non sono venuto a portare pace, ma la spada» (Lc 12,51). Chi segue Gesù si mette in una situazione che contrasta il mondo e ne risveglia le negatività, dando ad esso, in se stesso, un bersaglio luminoso.

Gesù vuol essere operatore di pace, ma sa che la sua opera di vera pace gli attira addosso l'ira e l'inimicizia dell'uomo intestardito nell'egoismo perciò è costretto a dire: «Non sono venuto a portare pace ... ».

In questo caso egli intende la pace così com'è intesa dagli uomini. Egli ha però un altro significato per la parola «pace».

Gli apostoli ne hanno fatto esperienza il giorno della Risurrezione. «Gesù si fermò in mezzo a loro e disse: "Pace a voi!". Detto questo mostrò loro le mani e il costato».

«Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, così io mando voi. E alitò su di loro: ricevete lo Spirito Santo».

Pace non è una parola, ma un dono. Dicendo «pace» Gesù dona quanto ha di più prezioso: l'amore giunto fino alla morte, la sua missione divina, il suo Spirito.

La pace di Gesù - non augurata ma data - è condivisione. «Quanto io ho, lo dono a te. Godi anche tu di ciò di cui io godo! Partecipa della mia pienezza e del mio compito».

 

«Vi lascio la pace, vi do la mia pace».

La «mia» pace! Il termine pace non indica uno stato tranquillo dei sentimenti, una situazione di stasi nei rapporti umani; indica piuttosto il dono dato e ricevuto. La pace donata da Gesù è la sua pienezza di vita e d'amore, è la sua comunione col Padre.

L'apostolo Paolo dice: «Egli è la nostra pace» (Ef 2,17).

Gesù è la ricchezza di Dio Padre, è il dono che Dio comunica e consegna agli uomini. Gesù è il Figlio in cui il Padre si compiace e che egli mette nelle mani e nel cuore degli uomini.

La persona stessa di Gesù è perciò la pace fra cielo e terra, tra uomo e Dio. «Con il sangue della sua croce rappacifica le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli» (Col 1, 20).

Gesù è la pace, il dono che dal cuore di Dio passa nel mio. Se lo ricevo, divento un tutt'uno con Dio, avrò nel cuore ciò che Dio ha nel cuore, potrò donare ciò che Dio dona.

Ed ecco allora chi è l'operatore di pace: è colui che fa in modo che le ricchezze di Dio entrino nei cuori degli uomini.

È troppo poco e poco duraturo il lavoro di chi procura agli uomini suggerimenti per fare accordi: i loro cuori rimangono egoisti. La pace conseguente nasconderà sempre un po' di egoismo, manterrà germi di violenza.

Vera pace non può essere il risultato di accordi umani, essa è frutto della vittoria di Dio.

Operatore di pace è colui che fa sì che le ricchezze di Dio siano accolte dall'uomo: il cuore di quell’uomo godrà pace, perché le ricchezze di Dio danno pienezza e soddisfano ogni desiderio. Ci sarà allora pace tra gli uomini perché essi diverranno capaci di morire gli uni per gli altri.

 

In che modo posso diventare «operatore di pace»?

Se essa è il dono di Dio posso farmi intercessore presso di lui per tutto il mondo. Posso farmi strumento della grazia e della parola di Dio presso l'uomo. Posso farmi portatore di Gesù.

Colui che prega per il mondo, colui che diffonde la parola di Dio, colui che trasmette il nome di Gesù con amore, costui è operatore di pace.

Essere operatore di pace è farsi canale che riceve e porta la vita di Dio sulla terra assetata, è ricevere e donare quanto Dio dona.

Molte volte ci si trova in situazioni ove sembra impossibile la pace: si tratta dei luoghi dove Gesù con la sua Croce è stato rifiutato!

Qui davvero è il caso di mettersi a obbedire con maggior decisione alla parola di Dio: «La pace di Dio - quella che sorpassa ogni intelligenza - custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù» (Fil 4, 7).

Gli operatori di pace saranno chiamati figli di Dio. Saranno figli di Dio! Nascono da Dio, sono come Gesù, il Figlio unigenito venuto a «dirigere i nostri passi sulla via della pace», poiché il nostro Dio è il Dio della pace.

Coloro che comunicano Dio all'uomo sono beati, danno armonia ai singoli e alle convivenze, collaborano all'armonia nel creato.

Dov'è comunione con Dio non è più l'egoismo a muovere i rapporti umani; là non solo non si parla più di guerre, ma nemmeno si alza la voce, né si discute. Là regna vita nuova, fatta d'amore, a somiglianza della ss. Trinità, dove Padre e Figlio e Spirito Santo sono attenzione reciproca e gara continua nel donarsi reciprocamente senza alcuna pretesa.

«Vi lascio la pace, vi dò la mia pace!».

 

Esempi

 

Riconosciuto da tutti operatore di pace è s. Francesco d'Assisi. Che cos'ha fatto? Si è fatto preghiera per il mondo, annunciatore di Gesù sulla piazza di Siena dove uomini di diverse fazioni si stavano uccidendo, portatore del Vangelo al sultano. Ha vissuto l'obbedienza esplicita alla parola di Dio volendo glorificare Gesù: la sua vita ha portato pace, e ancora la riversa in coloro che lo avvicinano, perché avvicinandosi a lui ricevono i riflessi della vita di Gesù, nostra pace.

 

S. Nicola di Flüe, con la sua vita eremitica in obbedienza a Dio, diviene fondatore della nazione svizzera e della sua neutralità: anche la pace politica è frutto della sua preghiera.

 

Altri grandi santi, più o meno conosciuti, portando nel cuore un grande amore a Gesù diffondono attorno a sé pace del cuore, pace tra famiglie e tra popoli, soprattutto pace con Dio.

 

 

Beati i perseguitati per causa della giustizia,

perché di essi è il Regno dei cieli

 

I poveri di Dio e coloro che amano la sua volontà sono accomunati nella persecuzione: i primi da parte dei violenti, egoisti ed avari che sfruttano la mitezza del povero in spirito; i secondi da parte di chi ha in odio Dio stesso e lo vede come avversario.

Questa tremenda realtà non sfugge all'attenzione di Gesù, ed egli non la nasconde a coloro che ama.

Chi cerca il Regno, chi vuol fare in pienezza la volontà del Padre e quindi accoglie Gesù nella propria vita, costui va incontro a persecuzione.

Chi segue Gesù fa ciò che piace al Padre, ma proprio questo dispiace a qualche uomo, che non sopporterà.

«Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati» (2 Tm 3,12). S. Paolo aveva sperimentato molte volte e in molti modi la verità di questa affermazione: proprio lui, uno dei primi, più accaniti persecutori della Chiesa nascente (1 Cor 15, 9). Persecutore, Paolo credeva di essere in obbedienza a Dio (At 26,9-11); una conoscenza errata di Dio era la causa del suo agire.

Appena convertito, non ancora battezzato, il Signore rivela ad Anania riguardo a lui: «Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9, 16): da persecutore a perseguitato, subito.

Il nome di Gesù, in cui sta la salvezza di ogni uomo, attira l'odio del maligno. E se questo nome riveste una persona, quell'odio si abbatte contro di essa: «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (Mt 10, 22).

«Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire, per divorare il bambino appena nato» (Ap 12,4); e siccome non gli riesce, si avventa contro la donna insidiandola e facendola soffrire.

Questa «donna» che genera continuamente figli a Dio è la Chiesa. Satana vuol impedire che la Chiesa viva, che sia presente ed efficace nel mondo.

 

Satana è l'unico persecutore dei discepoli di Gesù. È lui che è entrato nel cuore di Giuda per il tradimento. È lui, e lui solo; egli però cerca strumenti attraenti e seducenti tra gli uomini stessi.

Con Gesù egli ha agito così.

Ha tentato di sottrarre Gesù dalla «giustizia» coi ragionamenti riguardanti il benessere, i miracoli, il potere politico.

È stata poi la volta dei parenti: «I suoi uscirono per andare a prenderlo, perché dicevano "È fuori di sé"» (Mc 3,21).

Neppure i suoi fratelli, infatti, credevano in lui (cf. Gv 7, 5).

La volontà di Dio può creare divisione dai legami più profondi che l'anima dell'uomo ha, e ritiene dono di Dio.

Nei parenti non c'è odio, ci sono sentimenti che appaiono come amore e che perciò hanno molta forza nel distogliere dal fare la volontà di Dio. «Il fratello darà alla morte il fratello, e il padre il figlio» (Mt 10, 21).

Le scelte che l'amore di Gesù comporta sono incomprese dai parenti, e questo crea sofferenze molto grandi.

 

Una terza forma di «persecuzione» ha colpito Gesù: la diffidenza e l'incomprensione da parte dei capi, soprattutto religiosi, quelli che avrebbero potuto e dovuto riconoscerlo ed aiutarlo. «Chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio» (Gv 16,2).

Noi soffriamo volentieri per la Chiesa, nella Chiesa e con la Chiesa. La sofferenza più dolorosa è però quella che viene «dalla Chiesa», diceva un santo che l'aveva sperimentata.

 

Un'altra forma di persecuzione che ha colpito Gesù è la sofferenza di vedere uno di quelli che egli stesso aveva scelto diventare suo traditore, ed un altro suo rinnegatore.

«Se mi avesse insultato un nemico, l'avrei sopportato,

ma sei tu, mio compagno, mio amico e confidente;

ci legava una dolce amicizia,

verso la casa di Dio camminavamo in festa» (Sal 55, 13-15).

Anche s.Paolo ha sperimentato questa sofferenza (cf 2 Tm 4, 14).

 

Infine Gesù è stato perseguitato da uomini mossi da interessi di denaro e di potere: i Geraseni lo mandano via perché ritengono la sua presenza negativa per i loro interessi economici; Pilato lo lascia in balia dell'odio dei capi ebrei per timore di perdere di reputazione a Roma.

 

Paolo sarà messo in prigione per aver scacciato uno spirito indovino da una ragazza schiava: i padroni di questa hanno perso una fonte di guadagno (Atti 16,18-20). La predicazione dell’Apostolo comprometteva il commercio dei tempietti e delle statuette di Artemide ad Efeso: ciò ha procurato persecuzioni ai cristiani di quella città (Atti 19,24).

È sempre e solo Satana il persecutore.

Gesù non se l'è presa coi parenti, né con l'amico traditore, né con Pilato, né coi Geraseni, né coi carnefici. Gli unici verso cui ha avuto parole dure sono stati i capi religiosi, perché in essi l'inganno demoniaco veniva camuffato con l'amore e il servizio di Dio.

È sempre Satana il persecutore e sempre Gesù il perseguitato. «Io sono Gesù che tu perseguiti», disse il Signore a Paolo che perseguitava i cristiani...

 

«Credevo mio dovere lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno, come in realtà feci a Gerusalemme» (Atti 26,9s). Non c’è lotta del male contro il bene, ma sempre e solo di Satana contro Gesù.

 

Gesù vuol donare agli uomini una vita interiore, vuol riportarli a godere l'amicizia col Padre, e Satana lo vuole impedire.

Come può il discepolo di Gesù uscire vittorioso da una lotta che si presenta continua e tremenda?

«Attingi forza dalla grazia che è in Cristo Gesù» (2 Tm 2, 1).

«Soffri anche tu, insieme con me, per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio» (ivi, 8). S. Pietro mette davanti allo sguardo dei cristiani perseguitati l'esempio di Gesù: contemplando lui avremo anche noi vita e forza: «Patì lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme» (1 Pt 2,21).

«Se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori» (3,14).

Amore e adorazione di Gesù sono l'arma che custodisce nel cristiano l'integrità della fede e dell'amore. In tal modo egli rimane capace di amare i persecutori stessi, perché riesce a discernere in essi l'opera di Satana.

«Beati voi se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria e lo Spirito di Dio riposa su di voi» (4,14).

Siamo sempre davanti ad una realtà che sa di mistero, sempre presente dall'inizio alla fine della Bibbia, dall'inizio alla fine della storia, dall'inizio alla fine della nostra vita cristiana:

 

«L'empio spia il giusto e cerca di farlo morire,

il Signore non lo abbandonerà» (Sal 37, 52).

«Ecco, Satana ha cercato di vagliarvi come il grano,

ma io ho pregato per te» (Lc 22,31s).

La vita di Gesù, già prefigurata in Giuseppe, figlio amato di Giacobbe ma odiato e venduto dai fratelli, preannunziata dai profeti come vita di sofferenza, è un mistero di morte e risurrezione, un mistero di luce che appare nelle tenebre che resistono.

La vita del cristiano è partecipe di questo mistero: egli non se ne meraviglierà, ma cercherà di rafforzarsi nello spirito. La sua carne potrà soccombere nella morte, ma il suo amore che ha origine in Dio non verrà meno. «Le grandi acque non possono spegnere l'amore, né i fiumi travolgerlo» (Cant 8,7).

Il premio promesso è grande:

«Di essi è il Regno dei cieli»!

«Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita» (Ap 2, 10).

«Il vincitore lo farò sedere presso di me sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono» (3,21).

«Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove: e io preparo per voi un Regno» (Lc 22,28-30).

La sofferenza è il prezzo da pagare per poter amare Colui che ci ha amati ed essere testimoni della sua salvezza.

Siamo abituati a vivere in un mondo ritenuto cristiano e perciò ci riteniamo cristiani nel fare come fanno tutti.

Questa è la persecuzione blanda, la più pericolosa!

Se qualcuno fa sul serio col praticare il Vangelo, troverà subito vero quel che dice s. Paolo: «Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù, saranno perseguitati». Quando la sofferenza è frutto di amore e dimostrazione d'amore non è pesante: dentro di essa e al di sopra di essa c'è già la gioia!

«Siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po' afflitti da varie prove» (1Pt 1, 6).

 

«Se ne andarono lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù» (Atti 5,41).

 

Esempi

 

La storia è costellata di esempi che lasciano trapelare la verità di questa beatitudine: la storia dei patriarchi, dei profeti, degli apostoli e della Chiesa; e forse già la tua storia.

Ricordo qualcuno:

Tobia (2,14) e Giobbe (2,9) "perseguitati" dalla moglie per la loro perseveranza nella fedeltà a Dio in tempi di prova: vengono premiati!

Lo scriba Eleazaro e i sette fratelli con la loro madre (2Macc 6,18; 7) sono perseguitati per la loro fedeltà alle leggi religiose, nel rifiuto della idolatria, come i tre ragazzi salvati dalla fornace ardente (Dan 3). L'odio del Maligno verso Gesù si è abbattuto sugli Apostoli fin dai primi giorni del loro apparire in pubblico (Atti). La storia della Chiesa è la storia della testimonianza a Gesù e quindi della "martyrìa"! Storia di persecuzioni è la storia della Chiesa antica, ma lo è anche la storia della Chiesa moderna: in tutto il mondo, in modi diversi.

Ogni persecuzione fa rifiorire la giovinezza della Chiesa, la purifica e la rafforza!

Nel martirologio (libro che elenca giorno per giorno i nomi dei martiri) c'è posto anche per te! E per me!

Con la nostra fedeltà al Vangelo nonostante incomprensioni, derisioni, accuse, calunnie, diffamazioni, esclusioni e vere e proprie persecuzioni, oltre che con la fatica quotidiana a mantenere mentalità cristiana dentro le correnti di pensiero pagane che formano l'atmosfera normale, siamo martiri: siamo cioè testimoni di Gesù, che egli è la nostra gioia e pace interiore, nonostante la sofferenza esteriore che incontriamo! Proprio questa gioia e questa pace del cuore sono vere e non hanno prezzo!

Con Gesù nel cuore, nonostante tutto, siamo beati!

 

 

Nulla osta: don Iginio Rogger, cens. eccl. - Trento, 26 febbraio 1990