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«ECCOMI, AMEN»

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Deserto di Giuda – (1980 foto fgr)

  

«ECCOMI, AMEN»

Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla!

(Sal 23,1)

Indice

  1. Pastore
  2. Salvezza
  3. Luce del mondo
  4. Via
  5. Figlio di Dio
  6. Agnello di Dio
  7. Pane
  8. Parola
  9. Acqua
  10. Signore

  

Introduzione

- Due parole bastano per una vita, due parole che sanno di eternità. «Eccomi», è la parola che riempie i cieli, da quando il Figlio l’ha fatta diventare la sua vita, cioè da sempre. Dall’eternità, egli dice senza pentimenti e con gioia profonda: «Ecco, io vengo, o Dio, a fare la tua volontà». La stessa Parola è rimbalzata sulla bocca di Maria, quando quel Figlio è diventato suo.

- Questa Parola io la odo come garanzia. Posso dire: Se tu ci sei, io sono al sicuro. Se tu ci sei, non mi mancherà nulla. Se tu la pronunci, potrò imparare anch’io, e allora questa stessa Parola diventa mia. Io non sarò così costante nel dirla, anzi, nel viverla, ma sarà anche la mia Parola, benché con interruzioni, sospensioni, dimenticanze e limitazioni. È il mio desiderio, e la mia lotta, perché diventi la mia natura, se così si può dire, che diventi il mio io, un io che si offre.

- È necessario che sia lui, il Figlio, a pronunciarla ed io l’ascolti: così godrò per la sua presenza nel mio mondo. Quando lui la fa risuonare, io dirò: «Amen». Il mio «Amen» risuona come dicessi: “Proprio così, non c’è altro, me ne sto tranquillo”. Il mio «Amen» è l’eco dell’altro «Amen», quello pronunciato da lui, da Gesù. Anzi, è lui stesso l’«Amen» detto e gridato da Dio Padre. È il Padre che dice: Proprio così, questo mio Figlio è l’unico, non c’è un altro, puoi startene tranquillo quando lui è con te, con voi.

- Due parole ricche, forti, sicure, destinate a realizzare la mia vita, anzi, la vita di tutti: «Eccomi», «Amen». Queste due parole trasformeranno il mondo, lo faranno diventare paradiso. Lo riempiranno di certezze, di gioie, di amore. Chi dice «eccomi», accoglie, dice e dona amore; chi dice «amen», rafforza l’amore che diventi pace. Il mondo, con queste due parole, diventerà eternità beata, paese incantevole, giardino profumato e variopinto, dimora splendida e ricca.

Don Vigilio Covi

  

NB: Leggendo, da qui in avanti troverai il nome dell’abba che ha ascoltato il suo e tuo e mio Signore Gesù, Giovanni. Non ti sarà difficile e farai cosa utile a cambiare il suo nome con il tuo. Perché? Lo scoprirai prima d’arrivare alla fine, e non ti pentirai.

  

Abba Giovanni

Io, abba Giovanni, porto il nome di quel Giovanni che era in silenzio dentro una grotta sull’isola di Patmos. Nemmeno lui sapeva se vedeva o se udiva, se percepiva nel cuore o se nella mente, se era sveglio o se sognava. Ora anch’io nel mio silenzio e nella mia solitudine non so, anzi, sì, so che l’unica realtà non sono io, ma lui, Gesù! È lui che dice sempre «Eccomi», e su di lui riecheggia «Amen!»”.

Abba Giovanni immerso nel silenzio pensava a Gesù, anzi, iniziava a pregare, e si accorgeva che le certezze del suo cuore erano insicure nella sua mente. Diceva: “Gesù, so che sei il pastore, ma non capisco questo tuo compito. So che sei il pane vero, ma che significa? Ti chiamano l’agnello di Dio, ma per me non vuol dir niente. Dicono che sei il salvatore, ma che bisogno ho di essere salvato? Ti dicono redentore, ma per me è parola vuota”.

Abba Giovanni continuava, senza nemmeno accorgersi che le sue domande potevano essere scambiate per bestemmie: “Cantano di te come di luce del mondo, ma fin che c’è il sole, non servi. Ti descrivono come parola, ma di parole ce ne sono già troppe. Han detto che sei la pace, ma al mondo d’oggi questo è incomprensibile. Mi han detto che sei il medico, ma che medicine hai per i miei mali?”.

Ancora Giovanni a Gesù: “Un tale mi dice che sei amico, ma i miei amici mi lasciano solo. Ti sento chiamare fratello, ma i fratelli litigano. Sei chiamato padre addirittura, ma che paternità puoi offrirmi? Il titolo più bello e più forte che ti danno è «Figlio di Dio»: che Dio mi presenti?”. L’abba avrebbe continuato ancora, ma, finalmente, non lo ritenne né utile né doveroso, nemmeno rispettoso. Aspettò.

  

“Esaminiamo a uno a uno i titoli che sono stati dati al Salvatore, e meditiamo con più attenzione il perché e il significato dei singoli attributi. Troverai allora che davvero in lui si è compiaciuta di «abitare corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9)”.  (Origene, sacerdote, Lib. 3,8)

Gesù risponde a Giovanni

Gesù cominciò a rispondere ad abba Giovanni. Gli parlava dentro, ma lui sentiva le parole come venissero da fuori: “Non meravigliarti: io parlo anche a te come parlai all’anziano Giovanni a Patmos. Ti assicuro: non ti dirò nulla di nuovo che non abbia già detto, ma quando io apro bocca, ogni parola sarà nuova per la tua mente e per il tuo cuore.

Non ti rivelerò ciò che riguarda la storia del mondo o la vita delle Chiese, come ho rivelato al presbitero di Patmos: ti dirò invece chi sono io, così che tu mi conosca e mi riconosca, affinché tu goda di me e mi stia vicino in ogni momento e in ogni circostanza, senza dubitare. Così dovrà essere, perché «Io Sono il primo e l’ultimo e il vivente» (Ap 1, 17).

Parlerò sempre io: e non riuscirò a dirti tutto, non riuscirò a finire le parole che potrei dirti; dovrei continuare in eterno! Una sola Parola vale tutte, e tutte sono una sola.

Ti accontenterai anche solo se dico e ti ripeto: «Eccomi». Mi cerchi? «Eccomi», come frutto della tua fatica per cercarmi. Ti dimentichi di cercarmi? «Eccomi», arrivo di sorpresa nella tua distrazione. «Eccomi», io sono l’amore che il Padre tuo dona a te e al mondo che ti circonda.

Ora rispondo alle tue domande, ai tuoi dubbi, alle tue perplessità. Ascoltami con il cuore. Comprenderà meglio persino la tua mente, anche se comprenderà soltanto dopo che avrai ascoltato con fiducia, e dopo che avrai ubbidito. Anche Pietro ha capito dopo che si è lasciato amare, dopo che ha accettato l’umiliazione di lasciarsi lavare i piedi contro la propria volontà (Gv 13,7)”.

  1. Pastore

“«Eccomi», «amen». Io, Gesù, ti parlo senza che tu, Giovanni, debba faticare ad ascoltarmi. Nel tuo intimo risuonerà la mia voce: «Io sono il pastore delle pecore» (Gv 10,2; Eb 13,20). Questo titolo si confà alla mia persona già da quando, profeticamente, sono entrato nella famiglia di Davide. Questi era al pascolo con le pecore di suo padre, mio antenato, quando il profeta Samuele ha versato sul suo capo l’olio per consacrarlo re del popolo. Sono «pastore», discendente di pastori, per questo considero te come una delle mie pecore. Avvicinati, e saprai chi sono io per te: lasciati accarezzare, guidare, istruire da me.

Giovanni, quando non ti mancava nulla per la vita, ero io, Gesù, che ti guidavo e ti accompagnavo a trovare ristoro. Per dissetarti, tu seguivi altri che ti precedevano alle fonti, ma ero io che le riempivo d’acqua. Quand’eri contento e soddisfatto, c’ero io vicino a te, anche se tu non t’accorgevi. Ero io che ti custodivo dai pensieri maligni: non li lasciavo dominare in te. Ponevo nel tuo cuore persino il desiderio di aiutare persone sofferenti, e ti riempivo di quella gioia che sperimentano quelli che amano.

Quando ti trovavi in luoghi pericolosi e bui e avevi paura, ecco, io ti davo coraggio. Sono il «pastore» che ti ha tenuto insieme agli altri con il mio Spirito di umiltà. Non lo sai, ma ero io, Gesù, che ti spingevo a star unito agli altri uomini. Io faccio in modo che tu goda la compagnia delle altre mie pecore. Do loro quell’amore che le rende capaci di sopportarti e aiutarti. Anche a te metto in cuore l’amore, quello per cui sei utile al mondo. Io ti dico «eccomi», e tu, mi risponderai?

Io ti custodisco da chi ti vuole avvicinare per toglierti la vita o venderti, come si uccide o si vende una pecora. Sono io che, quando hai un po’ di amore per me, ti rendo vigilante per sfuggire i pericoli. Faccio per te molte cose di cui nemmeno ti accorgi. Se ti senti libero di dir di no anche a me, è perché io ti ho reso capace di libertà, che voglio rispettare. Mi spiace certo vedere il rifiuto, ma godo che tu ti senta libero. Sarà ancor più bello il tuo sì alle mie proposte. Sarà bello per tutti il tempo in cui sarai tu a dire a me: «Eccomi!».

Sono io, Gesù, il «pastore» che dà un nome ad ogni pecora, un nome e non un numero. Io conosco il tuo nome, e ti chiamo: anche da questo ti accorgi che ti voglio bene. Mi chiamerai anche tu per nome? Mi parrà di udire la voce di mia madre, che mi chiamava per nome quand’ero bambino. Quando anche tu come lei mi chiamerai per nome sarai la gioia di Dio, che vede arrivata a te la salvezza. Il mio nome infatti è «salvezza di Dio».

Io, il «pastore» che non ha paura del lupo. Quando questo arriverà, basterà che tu ti avvicini a me, e rimanga presso di me: non avrai nulla da temere. Io, il «pastore» con gli occhi aperti: non vedo solo quando viene il lupo, ma anche quando tu ti allontani per strade tutte tue, dove io non ti ho mandato e che io non percorro. Ti richiamerò, ti avviserò del pericolo in cui incorre chi vuol far da sé, senza obbedire. Io, il «pastore», avrò cura di te, per salvarti.

Tu vorresti poter dire che sei tu che fai, che sei tu che hai capito, che sei tu che ami, che sei tu capace di aiutare e di sostenere. Sappi che sono le tentazioni di orgoglio che agiscono così, sfruttando i tuoi desideri. Io, Gesù, «il pastore delle pecore», ho realizzato e realizzerò ogni buon desiderio e ogni buona volontà: li realizzo con il tuo «Eccomi». Di questo tuo «eccomi» puoi essere fiero, e nello stesso tempo umile. L’umiltà sarà il terreno fertile per la mia «salvezza».


  1. Salvezza

«Salvezza» è il mio nome, perché «salvezza» sono io, Gesù. Quando ci sono pericoli, il Salvatore sono io. Il popolo ebraico era abituato a questa parola, perché spesso, anzi, sempre, si è trovato in situazioni in cui aveva bisogno di un Salvatore, aveva cioè bisogno di me. Dio Padre mi ha mandato nel mondo per questo, per salvare voi uomini. Da quando Adamo ed Eva si sono nascosti, tutta l’umanità è in condizioni disastrose: ha bisogno di «salvezza», ha bisogno del mio «Eccomi».

I pericoli e le disgrazie peggiori da cui posso e voglio salvarvi sono la tentazione e il peccato. Queste situazioni vi portano lontano da Dio, dal Padre, creano divisione tra voi, sono fonte di malessere che diventerà malattia, se non si risolve. Appena tu, Giovanni, ti accorgerai che si avvicina la tentazione, correrai da me. Appena t’accorgerai di essere caduto nel peccato, ti avvicinerai al mio cuore. Io, Gesù, ci sono sempre, e sempre ti dirò «Eccomi».

Quando una parola di orgoglio o di attrazione al piacere entra nella tua mente, cercherai subito la mia Parola. Essa ti sarà di aiuto: è la spada che fa paura al nemico. Ogni mia Parola ascoltata o pronunciata da te, attira la mia attenzione e la mia forza di pastore: io dirò: «Eccomi». Sarai custodito, sarai salvato dai sentimenti che, come serpenti, si vogliono insinuare nella tua dimora, nei meandri del tuo cuore e della tua mente. Io, Gesù, sono «salvezza» di Dio per te.

Io sono la «salvezza» di Dio. Non solo ti tolgo dal male che ti ha raggiunto o che ti sta ingoiando, ma soprattutto ti dono la bellezza, la bontà, la carità. Devi essere salvato dalla tristezza di non vedere il senso della vita? Quando io, Gesù, entro in te, e ti dico «Eccomi», vedrai la tua vita diventare un dono del Padre per molti. E se ti pare di non vedere la strada, quando ci sarò io in te, avrai luce e correrai con gioia, e sarai locomotiva per i fratelli.

Ti devo dire anche questo: sono la «salvezza» anche dalla tua ignoranza. Non offenderti, l’ignoranza fa parte della vita dell’uomo. Se l’uomo conoscesse i misteri preparati dal Padre per la vita e la «salvezza»! Tu ne conosci soltanto un briciolo, uno solo dei sassolini che formano una montagna. Quando tu mi accogli e vivi in me, entri nei misteri di Dio, vi entri con la vita, anche se non ancora con la mente. Per questo io continuo a ripeterti: «Eccomi», perché si aprano le tue porte.

«Eccomi»; ti troverai nel buio fitto, nelle tenebre senza strada, sarai come una pecora che non sa dove andare perché non vede dove orientarsi. Io sarò allora la tua «salvezza», perché risplenderò e sarò luce ai tuoi passi. Quando io ti chiamerò, aspetterò che tu dica «eccomi», e ti troverò. Ti guiderò ai pascoli insieme a tutte le pecore del mio ovile. Anch’esse, con il loro esempio di ubbidienza e fedeltà e umiltà, saranno adoperate da me per salvare te. Avrai stima di loro, le apprezzerai, le amerai, le aiuterai. Tu pure sarai strumento della mia «salvezza» per illuminare la loro strada: tu sai già che io sono «luce».


  1. Luce

«Io sono la luce del mondo»! Tu conosci la luce diretta del sole e quella riflessa dalla luna. Conosci la luce delle stelle, e quella dei lampioni che ti fanno vedere la strada. Per vedere il volto dei tuoi fratelli, il sole e la luna non bastano. Giovanni, potresti vedere attorno a te soltanto nemici e concorrenti, persone da evitare o da sfruttare, se tu non avessi me, Gesù, come «luce» nel tuo cuore.

Quando io sono nel tuo cuore tu vedi sopra di te un Padre buono, che ti ama, e quando io, Gesù, sono nella tua mente, tu vedrai gli uomini non più come alberi da frutto che camminano, come il cieco - che iniziava a vedere grazie al tocco della mia mano -, ma come fratelli da aiutare. Vedresti che anch’essi sono un dono per te, quando il loro cuore sarà occupato da me. Vedrai il tuo cibo e il tuo vestito, benché povero, come dono di cui ringraziare: questo il frutto della mia «luce» su tutte le cose.

Io, Gesù, sono la «luce» che illumina la notte che viene a ricordare la morte. Ma tu, con la mia «luce», vivrai la morte come la porta che ti introduce al di là, nella vita bella, dove la festa non finisce. E col sonno sperimenti ancora il morire come riposo che fa rinascere a vita nuova. Prima di addormentarti ti bagnerai la fronte e il petto e le spalle con l’acqua su cui sarà invocato il mio nome, la stessa con cui ti bagneranno la tua bara. Così ogni sera ricorderai che sono io quella porta che si apre per farti godere le gioie più libere e sante, traguardo della vita che stai vivendo.

Illuminato da me, anche tu, Giovanni, sarai visibile da lontano, e attirerai a me uomini e donne sofferenti per la solitudine, persone che non mi hanno mai incontrato. Udranno anch’esse il mio «Eccomi». Portando me, «luce del mondo», aiuterai molti a trovare «la via», la via che sono io per tutti coloro che cercano l’amore di un padre. Troveranno l’amore del Padre, e inizieranno a vivere davvero una vita nuova. Sarai benefattore dell’umanità, quando porterai la mia «luce» nei luoghi in cui ti troverai!


  1. La via

Io «la via»! Ti sei accorto che camminando con me e su di me stai arrivando a traguardi nuovi, sempre nuovi, traguardi di libertà, di fedeltà, di pazienza, di radicalità, di carità? Se non te ne sei ancora accorto, non preoccuparti: me ne accorgo io. Ti sei mai chiesto per qual motivo qualcuno ti cerca per avere da te una parola, un minuto di ascolto, un attimo di compagnia? È perché sei sulla «via»! È perché anche tu hai imparato a dire «Eccomi».

Io sono «la via» sicura. Per non uscire né a destra né a sinistra farai attenzione ai paracarri: questi sono l’umiltà e l’obbedienza. Non sono solo paracarri, sono i binari sui quali cammini sicuro. Io infatti sono obbediente e sono umile nel cuore. Sarai ubbidiente non tanto per non sbagliare, per non uscire di strada, bensì perché essere ubbidiente è la ricchezza unica e sicura della vita sulla terra, proprio come in cielo, in quel cielo in cui io ho pronunciato il mio primo e decisivo «Eccomi».

Ti ripeto: io, Gesù, sono «la via». Vuoi arrivare al traguardo? Giovanni, sai qual è il traguardo? È l’abbraccio del Padre. Vi è arrivato il figlio giovane che si era allontanato con orgoglio (Lc 15). Quando è tornato affamato, ma umile, pensava di dover restituire quanto aveva sperperato, e per questo progettava di rimediare facendo il servo. L’abbraccio del Padre lo ha sorpreso. Non gli parve vero di ricevere un vestito profumato al posto del suo lacero e puzzolente, l’anello del figlio e i sandali nuovi: con questi camminerà libero e sicuro: non dovrà restituire. Si è messo sulla mia «via», e il Padre stesso gli ha sussurrato: «Eccomi».

Io, «la via» sicura al Paradiso. Lo sai già che «senza di me non potete far nulla». Non potete arrivare al Paradiso, dove con me è arrivato il malfattore che mi faceva compagnia sulla croce. Là egli ridisse il suo «Eccomi» e io gli dissi il mio «Amen». La sua voce mi ha consolato e mi ha dato speranza: mi diede conferma che il mio sacrificio non era inutile. Vieni anche tu con me: camminerai senza sbandare. Non correrai inutilmente.

Chi cammina senza di me, corre, corre, ma in direzioni sbagliate. Non arriva mai là dove vorrebbe. Sono io «la via». Se cadi, ti rialzo. Se rallenti, ti aspetto. Sono «la via»: sarai sempre in cammino, non guarderai indietro, non ti fermerai a compiacerti del cammino fatto. Sarai come «chi mette mano all’aratro» (Lc 9,62): guarda sempre avanti, perché io sarò sempre con te, ma davanti a te. «La via» non è una panchina. Muoverai i passi, ma non ti stancherai.

Camminando in me, ricupererai le forze ad ogni passo faticoso. Ti parrà persino di volare con ali d’aquila. Tutto il mondo ti parrà tuo. In ogni luogo, in ogni città troverai le mie orme. Giovanni, ti sentirai a casa ovunque. «Io sono la via»: su di me avrai la mia mano a cui aggrapparti, o, se occorre, sarò io a spingerti. Arriveremo insieme al Padre, ed io stesso ti presenterò a lui. Prima che tu ti inginocchi davanti a lui per dire il tuo «Eccomi», egli stesso ti abbraccerà, perché ti riconoscerà mio, e perciò suo figlio, come lo sono io.


  1. Figlio di Dio

Io sono il «Figlio di Dio». Per farmi conoscere non uso volentieri questo titolo. Lo faccio con te, che già mi hai conosciuto. Non uso questa parola, perché qualcuno potrebbe pensare che voglio darmi delle arie, oppure che intendo plagiarvi. Per questo non ho mai permesso ai demoni di dire queste parole, che essi sanno essere vere. Che cosa pensi tu, Giovanni quando senti questa espressione? Me lo immagino, anzi voglio dirtelo io cosa tu arrivi a pensare.

Tu puoi pensare che essere «Figlio di Dio» sia una cosa grande, una situazione ammirata da tutti, importante, una fortuna immensa. Non vorrei che tu non pensassi mai alla croce, come invece penso io. Tu non pensi alla croce, perché ragioni come Simone, che io ho chiamato Pietro, quando me lo ha detto mentre eravamo nei dintorni di Cesarea di Filippo (Mt 16,16.22). Dicendomi che io sono «Figlio di Dio» pensava ad una vita senza problemi, allegra, ricca di soddisfazioni e di applausi da parte degli uomini.

Come mai, sapendo che io sono «Figlio di Dio», Simone non pensava alla mia croce? Lo sai? Si rifiutava di pensare alla sua. Chi è mio discepolo cammina sulla stessa strada su cui cammino io. Tu invece non hai paura, perché se io sono su quella strada, su di essa sai di poter camminare anche tu, e lo vuoi, per essere in mia compagnia. Tu sai con sicurezza che dove sono io c’è la benedizione del Padre. Non è così, Giovanni? Tu sai che io continuo a dirti: «Eccomi»! Inoltre Simone non ascoltava i profeti, li dimenticava. Quando udiva le profezie, non le riteneva importanti, né per me né per sé.

Ora ti rivelo che cosa significa «Figlio di Dio». Quale di queste due parole è la più importante secondo te? «Figlio» o «Dio»? Tu ritieni che la parola più importante sia la seconda. Ma che significa per te «Dio»? Qui qualcuno si inganna facilmente, perché arriva a dare a questa parola i significati che le vengono attribuiti dagli uomini, anche da quelli che Dio non lo conoscono affatto. Infatti gli uomini attribuiscono alla parola «Dio» l’idea di grandezza, perfezione, onnipotenza, prestigio, bellezza, compiutezza. Non sbagliano, ma se manca un altro significato, questi diventano inganno.

Se al nome di Dio non si abbina il termine amore, tutte le altre prerogative che gli si attribuiscono saranno sfalsate, ingannevoli. Quando pensi «Dio» devi correre anzitutto a pensare amore. E se pensi amore, pensi al dono di sé, fino al rinnegamento di sé. Per questo a me viene subito in mente la croce. Di questo «Dio» io sono «Figlio»! E quando pensi alla parola «Figlio», che ti viene in mente? Pensi forse all’eredità?

Ti voglio aiutare, Giovanni, figlio mio! Quando, rivolgendoti a me, pronunci la parola «Figlio», dovrai pensare subito che non sei tu il protagonista, il datore di vita: questo è e sarà sempre il Padre. Pronunciando la parola «Figlio», ricorderai chi è il Padre. Il Figlio è colui che esiste perché è voluto, benvoluto, e perciò vuole accordarsi a quella volontà che lo fa esistere, e quindi ubbidisce, ascolta, e impara. «Figlio di Dio» è colui che viene sì da Dio, ma non per prendere il suo posto, bensì per ascoltare, imparare, ubbidire e collaborare con lui!

L’espressione «Figlio di Dio» piace ai demoni, ed essi la usano con facilità, perché facilmente con essa possono imbrogliare, mentire, fuorviare gli uomini, senza che essi se ne accorgano. Infatti proprio Satana per primo ha usato queste parole per tentare di adescare e tendere un tranello persino a me. Sapeva che ero entrato nel deserto animato dallo Spirito sceso su di me come colomba, e pieno di volontà buona, quella divina. Sapeva che avevo nelle orecchie e nel cuore proprio la frase: «Questi è il Figlio mio» (Mt 3,17), pronunciata dalla voce venuta dai cieli aperti.

Nel deserto continuavo a ruminare e rimuginare questa frase potente, «Questi è il Figlio mio», con grande riconoscenza. Ringraziavo il Padre, lo adoravo e lo ascoltavo, per conoscere il suo volere e prepararmi a realizzarlo, per offrirgli il mio «Eccomi». Proprio allora udii anche il bisbiglio fastidioso di colui che voleva introdurre nel mio cuore gelosia, come ad Adamo. Dato che sentivo fame, mi faceva pensare che, essendo «Figlio di Dio», avrei potuto comandare a qualche pietra, che vedevo davanti a me, di diventare pane (Mt 4,3). Dio è colui che ha creato le pietre, e io, «Figlio di Dio», avrei potuto e dovuto dire che diventino pane da mangiare per saziare la mia fame.

Mi accorsi del tranello, molto sottile. Se avessi pensato soltanto che Dio è onnipotente, ci sarei cascato. Ho richiamato alla mia mente invece che Dio è amore, e proprio perché è amore, è mio Padre. E io, essendo suo Figlio, per somigliargli, volli subito essere ubbidiente. Così potei dire al tentatore che io voglio ascoltare, perché la mia vita non viene dal pane, bensì dalle parole che odo dalla voce del Padre mio (Mt 4,4). Quel che dissi al tentatore è scritto anche per te, perché tu non ti lasci coinvolgere nella disobbedienza.

Essere «Figlio di Dio» è essere obbediente, anche nel luogo sacro. Il tentatore mi ha subito prospettato parole divine, quelle di un salmo, e mi ha portato nel luogo più sacro, il tempio di Gerusalemme (Mt 4,5-6). Voleva dirmi: ‘Qui sei a casa tua, casa del Padre tuo. Qui puoi fare quel che vuoi, anche saltare dal pinnacolo in modo che tutto il popolo ti veda. Qui ci sono i tuoi angeli pronti a faticare per te, per proteggerti con le loro mani’. Vedi? Anche nel luogo più sacro può arrivare il pensiero malvagio, che distoglie dall’amore, dall’ascolto, dall’umiltà e dall’obbedienza, e quindi dal Padre.

Cosa pensi tu, Giovanni, quando con tutti i fedeli ti trovi a cantare le lodi di Dio celebrando il suo amore? Pensi che allora puoi far udire la tua bella voce, così che molti ti possono ammirare, lodare, applaudire? No, ricorderai che la lode appartiene a Dio Padre, solo a lui. Ricorderai come io ho risposto al tentatore citando le Scritture: «Non tenterai il Signore Dio tuo». Io sono «Figlio di Dio» per ubbidire e dar gloria a lui, perché egli sia conosciuto e riconosciuto come Padre, e perché egli, tramite me, ami e salvi gli uomini caduti nelle mani di Satana.

Quando tu, Giovanni, ti rivolgi a me per dirmi «Figlio di Dio», ricorderai che io non ho dove posare il capo, che sono pronto a soffrire la fame, e che non intendo farmi ammirare con i prodigi, ma che voglio soltanto essere «Figlio» per ascoltare, per ubbidire e glorificare il Padre mio, e tuo. Ricorderai che in fondo alla strada della mia figliolanza si erge la croce. Proprio là gli uomini mi possono riconoscere vero «Figlio di Dio»: là udranno anche il mio più completo «Eccomi». È proprio là che un soldato, uno di quelli che mi crocifissero, uomini senza Dio, ha confessato che io sono «Figlio di Dio» (Mc 15,39)!

Io sono il «Figlio di Dio»! So che sono in lui e lui in me, so che sono «di Dio», e questo è tutto. Quando io sono «di Dio», lui, vero Padre, mi tratta da «Figlio» donandomi tutto se stesso, mi adopera come sua Salvezza per riversare amore sull’umanità intera, mi rende strumento della sua Onnipotenza per mostrare i prodigi della sua mano. Essendo suo «Figlio», e vedendo che lo ascolto e gli ubbidisco, egli realizza la mia Parola, ogni parola che esce dalla mia bocca.

Sono contento quando tu, Giovanni, mi chiami «Figlio di Dio». Risponderò sempre: «Eccomi». Tu sarai attento con quale cuore pronuncerai queste parole, e anche in quale ambiente le pronuncerai. Non dappertutto va usata questa espressione. Ricorda che io l’ho proibita ai demoni: essi la pronunciavano dappertutto, senza amore e senza umiltà, anzi, con orgoglio: volevano far vedere e far udire che essi sapevano ciò che gli altri non sapevano, che essi sapevano i misteri di Dio, e potevano saperli senza adorarli.

I demoni pronunciavano la mia appartenenza a Dio in luoghi dove sarebbe stata travisata, udita da chi non sa che Dio è amore, ma solo che è onnipotente, come immagina siano gli dèi falsi. Essi non vogliono che la mia strada arrivi al Calvario, né che io realizzi il mio essere «Figlio» del Padre sulla croce, non vogliono che io salvi i peccatori. Da me si aspettano miracoli, senza seguirmi portando la croce, senza dirmi «eccomi». Io invece ci sono per un amore più grande dei miracoli. Giovanni il battezzatore disse il vero significato del mio essere «Figlio di Dio», quando mi indicò «Agnello di Dio».

Io, «Figlio di Dio», mi faccio conoscere come «Figlio dell’uomo». Definendomi «Figlio dell’uomo» tu capisci qual è l’uomo che realizza la tua umanità. E così sarai spronato ad imitarmi. Io sono l’uomo obbediente a Dio, come lui, il Padre, ha sempre desiderato siano gli uomini, creati da lui per riempire il mondo del suo amore e della sua luce. Nessuno, i miei discepoli nemmeno, mi hanno chiamato «Figlio dell’uomo». Non stimano l’uomo, perché tutti gli uomini conosciuti sono peccatori, nemici tra loro, ricchi di invidie e gelosie reciproche, produttori di tristezze e sofferenze: non conoscono l’«eccomi», hanno bisogno di essere sostituiti da un «agnello», come Isacco.


  1. Agnello di Dio

Per me essere «Figlio di Dio» o «Figlio dell’uomo» è essere ciò che ha rivelato Giovanni, il figlio di Zaccaria, quando stava battezzando i peccatori per prepararli ad incontrarmi. Egli mi ha indicato come «l’Agnello di Dio». Per il Padre mio le due espressioni si equivalgono. Quando egli si rivolgeva a me chiamandomi «Figlio», intendeva lo stesso che dire «Agnello». Io sono il suo «agnello», come Isacco sul monte del sacrificio. Io sono «l’agnello» che egli offre agli uomini perché mi mangino, e io sono «l’agnello» che essi offrono a lui perché li perdoni.

«Agnello di Dio»! Godo di questo titolo, non solo perché me lo ha attribuito per primo il figlio di Elisabetta e di Zaccaria, ma perché attraverso di esso io sono presente in tutte le Sacre Scritture. Quando contempli il sacrificio offerto da Abele al suo Dio, dovrai pensare a me. Quando segui Abramo nel suo salire sul monte per offrire il figlio Isacco, e al suo posto gli viene indicato un «agnello», sei invitato a vedere me. Quando Mosè l’ultima notte trascorsa dal popolo in Egitto fa uccidere da ogni famiglia un «agnello», ancora arrivi a me.

«Eccomi», Giovanni: io sono l’unico sacrificio che tu potrai offrire al Padre. Quando offri me a lui, stai offrendo il suo «agnello», e lui è impegnato ad accettarlo. Lo accetta non perché lo offri tu, ma perché sono io che mi offro. Osserva con attenzione tutti gli agnelli. Comincia da quello di Abele: porta in sé l’umiltà e la mitezza del fratello di Caino. Il sacrificio di quell’«agnello» è completato dall’offerta della propria vita per mano del fratello, per ottenere a lui una vita nuova, santa.

Contempli Isacco mentre porta sulle sue spalle la legna sul monte? È «l’agnello», che viene sostituito nelle mani di Abramo, perché lui, il figlio amato, compirà le promesse già rivolte a suo padre. Per essere «Agnello di Dio», io morirò. Sono «Agnello di Dio»: tu lo puoi dire, perché sono sulla croce, in campagna come Abele, sul monte portando il legno come Isacco. La fiamma che mi avvolge è il fuoco dell’amore che ho vissuto e portato con me fin lassù.

Contempli poi Mosè, e vedi non solo lui, ma tutto il suo popolo, che tinge le porte con il sangue dell’«agnello» per salvare dalla morte i primogeniti, e cuoce la sua carne per nutrirsi in modo da affrontare il cammino per quarant’anni nel deserto, dopo aver passato il Mare Rosso. È un «agnello» il cui sangue è versato per salvare dal castigo, un «agnello» che riunisce tutte le famiglie attorno al fuoco che cuoce la sua carne. Mangiandola viene alimentata la comunione e vien donata forza per affrontare la fatica.

Nella celebrazione eucaristica per cinque volte prima della Comunione è ripetuta l’espressione «Agnello di Dio»: tre volte nella preghiera litanica dell’Agnus Dei, e due volte quando il sacerdote mostra al popolo il mio Corpo! E quando cantate il Gloria, ancora una volta. «Agnello di Dio» sono io, il tuo Gesù. Fai bene a dirlo, a chiamarmi così. Il mio sangue versato, infatti, è salvezza per quanti meriterebbero la morte per il loro peccato. Il mio corpo è nutrimento che dà forza per vivere nel mondo dei peccatori senza lasciarsi coinvolgere nella disobbedienza al Padre mio. Ed è comunione tra di voi, cosicché arrivi in voi la gioia e tra voi la pace. Nutrimento e comunione, come il «pane», che anche tu ogni giorno prendi e mangi: e proprio di esso canti che è l’«Agnello di Dio». È un «agnello» davanti al quale avrai sempre gioia a pronunciare il tuo «Eccomi».


  1. Pane

Quando mangi il mio «pane», tu canti di esso che è l’«Agnello di Dio», e lo canti perché io davvero tolgo il peccato dal mondo: lo tolgo perché esso non pesi più sul mondo e sulle spalle di quelli stessi che lo commettono. Lo tolgo perché nel mondo ci sia la festa che si vive continuamente nel regno dei cieli mangiando il mio «pane». Tolgo il peccato del mondo e lo tolgo dal mondo perché in esso torni l’obbedienza al Padre mio, quell’obbedienza che rende gli uomini conformi a me, Figlio dell’Altissimo.

Eccomi a te, sono il tuo «pane». Tu mi hai mangiato molte volte. Tu, Giovanni, come il discepolo da me amato, desideri nutrirti di me, per essere trasformato, per diventare anche tu mio corpo, presenza di Dio nel mondo, per diventare Figlio di Dio e Agnello di Dio. Io Sono «il pane della vita», «pane» vero, «pane» del cielo. L’ho detto ai discepoli e anche ai Giudei (Gv 6). Proprio per queste parole questi si sono allontanati da me. Non le accettavano e perciò non le capivano.

«Eccomi», sono a tua disposizione. Essere «pane» significa proprio questo: essere a disposizione, come un servo fedele, come un padre che ama, come una mamma attenta. Tu sai cos’è il «pane»: un alimento quotidiano, necessario alla vita biologica dell’uomo che vive insieme agli uomini. Il mio essere «pane», oltre la vita biologica, nutre anche la loro vita spirituale, quella che, venendo da Dio, si manifesta e si sviluppa nelle relazioni con gli altri uomini.

Ho raccontato la parabola degli amici. In mezzo, tra loro, dono richiesto, accolto e donato, che unisce i tre amici è il «pane» (Lc 11,5). Sono io il «pane» che l’amico chiede ad un amico per donarlo all’altro amico. È quello il «pane» che va richiesto con molta insistenza, disturbando nella notte senza luce. Strumento di amicizia è il «pane». Senza di me non ci sarà vera amicizia. Le amicizie non unite da me, si riveleranno fragili, deboli, incapaci di sostenere e accompagnare nelle sofferenze e nelle difficoltà.

Io sono anche il «pane» desiderato dal figlio peccatore, quello che s’è allontanato dal padre (Lc 15,17). Sono io il «pane» che ogni vero padre dona a tutti i suoi figli e anche ai servitori. Sono il «pane» che attira, che fa ricordare a chi è andato lontano, che può ritornare, e può ritornare senza vergognarsi. Dove c’è questo «pane» infatti c’è vita, comunione, festa, libertà.

Sono io poi il «pane», sorpresa per il profeta Elia, là dove egli, affamato e senza forze, desiderava per sé soltanto la morte (1Re 17,10). Un angelo l’aveva preparato insieme con l’acqua. Quel «pane» lo ha sostenuto nel cammino di quaranta giorni fino al monte di Dio, all’incontro con lui. Con me, mangiato da te, avrai anche tu il sostegno necessario per arrivare là dove sei atteso per ricevere nuovi compiti divini per il popolo senza vita.

Io sono il «pane» della povertà, quella nutrita dalla fede in Dio. A Sarepta, vicino a Sidone, il profeta Elia ha chiesto alla vedova povera il «pane» per la sua fame (1Re 19,6). Aveva l’ultimo, l’unica e ultima speranza di vita per lei e per suo figlio: è diventato dono per il profeta. Io, vero «pane», sono il dono necessario, sostegno e frutto della carità dei poveri. E sostengo la speranza a chi annuncia la fede nell’unico vero Dio a tutto il popolo.

Eravamo sulla barca, i discepoli con me (Mc 8,13). Questi parlottavano tra loro, lamentandosi perché avevano dimenticato il «pane»; avevano un pane solo con sé, troppo poco, dicevano. Erano tristi. Talvolta vedo che anche tu, con i tuoi fratelli, ti comporti così: ti lamenti e mormori con loro, invece che parlare con me, invece di manifestare a me le tue apprensioni e dirmi: «Eccomi». Essi dimenticavano che c’ero io con loro, io, il solo «pane» necessario, l’unico «pane» che nutre e dà vita, l’unico «pane» che non si può e non si deve acquistare. Dove sono io, che cosa può mancare?

«Io sono il pane» vivo, il «pane» della vita. Sono un «pane» che viene dal cielo da quando io stesso ho detto, tenendolo in mano spezzato, «Questo è il mio corpo». Da allora io sono ancora di più «pane», non solo in senso figurato, ma reale, come mistero. Chi mangia quel «Pane», «mio Corpo», viene saziato interiormente. Riceve energia per essere figlio di Dio, e per vivere effondendo la bellezza della divinità nel mondo.

Gli angeli non sono capaci di invidiare: solo per questo non invidiano gli uomini. Godono invece per la vostra gioia, perché voi avete questo Dono di cui essi non possono godere, benché voi lo chiamiate «pane degli angeli». Mangiare il «pane», e con esso nutrirsi del Corpo di Cristo, è un mistero. È un mistero reale, concreto, divino; rende celestiale il vostro vivere. Lo chiamate «mistero della fede», infatti è il nucleo, il cuore e la testimonianza della fede santa e potente.

Quando mangi il «pane» della vita, la tua vita non è più terrena, corporale, biologica. Esso ti nutre l’anima, e la apre a ricevere lo Spirito Santo del Dio vivente. Tu sei spesso distratto e hai difficoltà a credere, a renderti conto della ricchezza di questo dono che viene dal cielo, dal cuore di Dio. Esso alimenta la comunione con me e col Padre mio, rende viva la comunione con quelli che, come te, mangiano lo stesso «Pane», tanto che li senti come veri fratelli.

Giovanni, il «Pane» che io ho spezzato e distribuito ai discepoli, ti rende partecipe di me, della mia vita di risorto. Mangiandolo, t’avvii alla vita futura, eterna. Quando io divento tuo corpo, tramite il «Pane» della vita, tu non sei più di questo mondo. Allora tu cominci a vedere e godere il futuro. Il passato non ti dominerà più, né il tuo né quello degli altri. Nutrito da me, entri nel mondo di Dio, al di là di questo mondo.

Quando avrai mangiato il mio «pane», sarai entrato nel mio mondo, nella vita celestiale, quella che godono già i santi, cantori della mia redenzione e della mia salvezza. Gusterai già la vita di chi è risorto, perché il mio «Pane» è il mio Corpo risorto. Anche tu vivrai la pienezza della vita che attendi, godrai di essere partecipe del banchetto di nozze dell’Agnello immolato. Non peserà più su di te il peccato tuo e quello del mondo. Io l’ho tolto grazie a tutti i miei «Eccomi».

Io ti invito a sostare davanti a me per osservare il «Pane», mio Corpo. Lo osserverai in silenzio. Lo contemplerai, fermandoti a lungo: attraverso di esso io ti parlerò, ti guarderò, e ascolterò i gemiti del tuo cuore. Attraverso di esso io sono presente a te, e, senza che tu sappia come, aliterò su di te e in te il mio Spirito. Potrai ascoltarmi o guardarmi prima di mangiarmi, oppure dopo avermi mangiato: prima non esaurirai, e dopo non avrai esaurito la mia presenza in te.

Quando ti poni in silenzio davanti al «Pane», mio Corpo, io sono là, sono presente a te e a tutta la Chiesa santa. Sentirai tutto il peso del mio «Eccomi»! È quel «Pane» la santificazione tua e della Chiesa intera. Se io non fossi quel «Pane», non ci sarebbe santità né in te né nella Chiesa. Se io non fossi quel «Pane», i tuoi occhi sarebbero ciechi, la tua vista tutta offuscata, e il tuo udito assordato. Ma io sono quel «Pane», e tu sai che sono davvero presente per ascoltarti e parlarti.

Se io non fossi quel «Pane», non ci sarebbe unità nella Chiesa santa. La Chiesa è unita perché mangia il mio «Pane», si nutre del mio Corpo, e diventa il mio Corpo. La Chiesa è una, non perché voi fedeli volete essere uniti e vi sforzate di andar d’accordo, ma solo perché mangiate lo stesso «Pane» che io spezzo per voi. L’unità della Chiesa è gloria di Dio, gloria mia e del mio Spirito Santo, non è gloria vostra. Voi cedete facilmente al divisore, che cerca molte strade per mettere tra voi discordia. Il mio «Pane» è salvezza.

Quando mi vedrai guardando il «Pane», rimarrai stupito. Come fa ad esserci il «pane»? Da dove viene? Esso è la parabola della vita dell’uomo, di tutti gli uomini. Viene seminato il grano con fatica, cresce poi da solo, senza che nessuno di voi sappia come. Viene irrigato dalla pioggia, matura riscaldato dal sole, lo raccogliete voi uomini. Lavorate molto, e molti, prima che la farina sia impastata. E poi ancora…

La farina è bagnata, impastata e infornata fino a diventare «pane». E poi altri uomini e donne faticano perché arrivi qui. Uomini e donne alimentati da altro «pane», frutto della benedizione del Padre, che tutti osserva con amore e benevolenza. Dirai: sono tutti peccatori! Il «pane» che prendo e spezzo con le mie mani è frutto del lavoro di peccatori, molti dei quali non mi hanno mai conosciuto e non mi conoscono, ma tutti sono benedetti dall’amore misericordioso e fedele del Padre mio.

Contemplando il mio «Pane», ormai mio Corpo, anche tu benedirai tutti gli uomini, tutti i peccatori nelle cui mani sono passato per essere qui, in questo silenzio. Vedi com’è eloquente il mio silenzio. Immergendoti in esso riceverai il mio amore per i peccatori, anche qualora il loro peccato avesse graffiato la tua anima. Essi lavorano per me, spesso senza nemmeno saperlo o sospettarlo. Lo so io però. E ora lo sai tu.

Quando vedi gli uomini lavorare, ricorda che stanno lavorando per questo «Pane», per il mio Corpo, per la vita che tu riceverai quando mi mangerai. E allora ringrazierai il Padre mio per tutti, per ciascuno. E avrai un grazie per ogni uomo che incontri, che vedi, che sai presente in ogni ambiente di lavoro. Il tempo della tua adorazione davanti al «Pane», mio Corpo, diventa amore per ogni persona che conosci e che non conosci. Non è tempo buttato, anzi, è nutrimento e grazia per il mio amore al mondo intero.

Anche quando tu lavorerai, ricorderai che il tuo lavoro si completerà quando diventa il mio «Pane». Il tuo lavoro è prezioso per questo, solo per questo. È prezioso sì perché è un servizio, sì perché porta frutto di collaborazione, sì perché allieta la compagnia di uomini che lavorano. Ma è soprattutto prezioso perché è inserito in quella catena in fondo alla quale apparirà il «Pane» che io spezzerò per la salvezza e la gioia di tutti.

Io godo quando ti vedo in ginocchio davanti al mio «Pane», quello che ho spezzato ai due discepoli arrivati ad Emmaus privi di speranza (Lc 24,30). Non è stata la fatica del mio camminare, non è stata l’attenzione al loro discorrere, non sono state le mie parole a cambiare la loro vita. È stato il mio gesto di prendere in mano il «pane», spezzarlo, e darne un pezzo a ciascuno di loro: allora in essi si è sciolta la delusione, è sparita la tristezza dal volto e dal cuore, hanno saputo che ero io, e sono risorti, ricevendo forza e gioia per camminare ancora anche se notte.

Riceverai anche tu ciò che non hai mai immaginato e quindi nemmeno desiderato. Come quei due, riceverai la spinta a tornare per incontrare coloro che hai lasciato, a ripercorrere la strada comodamente percorsa in discesa verso Emmaus, divenuta più bella ora, anche se faticosa e in salita e nel buio, fin su a Gerusalemme. Riceverai la luce a comprendere le parole che non comprendevi, mentre le pronunciavo. Riceverai comunione nuova con l’amico con cui hai condiviso la tristezza e la delusione. Tutto grazie al «Pane» divenuto mio, mentre lo spezzavo.

Il «Pane» che mangi tu, Giovanni, è il mio Corpo di Figlio di Dio crocifisso, morto e risorto. Ogni volta che mi mangi, ricevi la forza di rinnegare te stesso e morire con me per amare e salvare gli uomini, e ricevi la pienezza della mia vita di risorto, vita eterna. E quando sarai davanti a me, anche insieme ad altre persone, il tuo canto mi rallegrerà.

Riceverete grazia e grazia, tanto da non sapere dove siete. Sarete infatti già in Paradiso, dove io sono presente nello stesso modo, crocifisso, risorto e glorioso. Sarai in estasi, fuori del mondo tenebroso, ti troverai nella luce che il mio corpo e il mio vestito diffondeva sul monte alto dove Pietro avrebbe voluto rimanere (Mt 17,4). Qui in terra, in più di quanto avrete poi in Paradiso, avete il segno del «Pane» che attira il vostro sguardo e vi fa gustare la stessa comunione che troverete nel Cielo eterno.

Quando ti fermerai a contemplare il mio «Pane», non vedrai «pane», ma vedrai la vita, la fonte della comunione con gli uomini, la forza per vivere in pace con essi, benché peccatori. Vedrai il Dono di Dio, dono ineguagliabile. Non ne desidererai altro. Mi mangerai con un desiderio rinnovato e sempre vivo, e riceverai luce per comprendere ogni parola che avrai udito o udrai dalla mia bocca.

Quando tu, Giovanni, sei davanti a me, «Pane» vero, ti vedo occupato a riempire il tuo tempo di belle parole, di lodi splendide al mio Nome e al mio agire. Apprezzo il tuo desiderio e la tua fatica, ma ti devo dire che ciò mi ostacola. Lo sforzo cui ti sottoponi per cercare parole, mi impedisce di operare nel tuo cuore e nella tua mente con libertà. Il tuo silenzio e il tuo riposo sono più adatti al mio lavoro in te: voglio arricchirti infatti, riempirti del mio santo Spirito, renderti umile e coraggioso, farti simile a me.

Tu sei nel tempo, e ti pare che passi inutilmente se non mi rivolgi parole. Io sono nell’eternità del Padre, e vedo perciò diversamente la tua presenza vicino a me, «Pane» vivo. Ti vedo già nella mia eternità, adagiato nel riposo dei santi! Se tu, Giovanni, ti addormentassi, vedrei comunque la tua presenza come un essere immerso in me, nel mio tempo eterno e santo. E godrei di poterti togliere una costola, per creare il dono con cui il Padre renderebbe la tua vita perfetta.

Il tempo che passi davanti a me, «Pane» del cielo, è dono prezioso. Non è dono fatto a me, ma è il dono con cui arricchisci il mondo. Quel tempo è amore, amore gratuito, è carità perfetta. È il dono pregiato che il Padre mio e tuo adopera per confezionare miracoli, per preparare le pietre vive che edificano il regno dei cieli. Quel tempo, fatto di minuti molto brevi, nelle mani del Padre vien plasmato per diventare chiamate di operai del Regno, operai che si donino, che uniscano i credenti per offrirsi con gioia ad allargare la tenda della Chiesa santa per accogliere nuovi popoli.

Giovanni, non dimenticare che il mio «Pane» è nutrimento, l’unico vero, non avvelenato, che fortifica l’anima e anche il corpo degli uomini. Io mi meraviglio che i miei fedeli lo ignorino per giorni e mesi. Tu lo cercherai, anche costasse fatica. È fatica più fruttuosa di quella impegnata per il lavoro, anzi è proprio questa fatica che rende bello, utile e degno anche ogni lavoro che occupa le ore e gli anni dei miei amici. Il mio «Pane» è il mio «Eccomi» quotidiano, quell’«Eccomi» che riempie di significato la tua vita e la vita di ogni fratello e sorella.

Io ti aspetto ogni Ottavo giorno, giorno della mia misericordia. È il giorno in cui ho incontrato gli apostoli per la seconda volta, in cui mi rivelai all’incredulo Tommaso (Gv 20,27). Davanti al segno delle mie mani ferite e del mio fianco aperto, egli proruppe nella grande professione di fede: «Mio Signore e mio Dio!». Io ti aspetto per farti gustare il mio «Pane», che nutre la tua fede e realizza la speranza dei credenti.

So che vorresti sentire qualcosa di emozionante quel giorno, ma non ti voglio ingannare. Non è il sentire che ti fa maturare. Gli apostoli non sentivano nulla, ma sapevano che io diventavo il loro corpo, la loro vita. A Maria di Magdala, che voleva abbracciarmi i piedi per trattenermi, non lo permisi. Le chiesi invece un’obbedienza. Le chiesi di ripetere il suo «eccomi» alla mia richiesta. Giovanni, non sono risorto per darti emozioni, ma per chiederti obbedienza fiduciosa.

La Chiesa, mio Corpo santo, è la comunione di quelli che mi obbediscono. Essa vive grazie al mio «Pane». Senza di esso, tu lo sai, la Chiesa non sarebbe luogo di eternità, regno di santità, madre generatrice di Santi e di Sante, di martiri e di vergini, di chi vive solitario e di quelli uniti in famiglie fondate sul mio amore. Chi mangia il mio «Pane» tiene viva la Chiesa, chi non lo mangia la danneggia: diventerà pietra che fa inciampare e cadere. Io desidero vedere tutti i miei amici radunati spesso attorno al tavolo dove viene spezzato il mio Corpo, il «Pane» che crea comunione santa, e dove viene donata con abbondanza la mia «Parola».


  1. Parola

Giovanni, tu hai udito che io, Gesù, sono la «Parola». A dir il vero ti hanno detto che io sono «il Verbo». Questo, affinché tu comprenda che io non sono una «parola» come le altre parole, una delle tante che odi ogni giorno dalla bocca di tutti gli uomini. Io sono la «Parola» unica, l’unica pronunciata da Dio. Anzi, nemmeno pronunciata, perché Dio non ha bocca o labbra come quelle degli uomini che si muovono per far uscire i suoni: io vengo da lui come acqua dalla sorgente.

Io, «Parola» di Dio, o «il Verbo», non sono qualcosa che Dio estrae da sé e dona a te. Sono il tutto del Padre che si comunica al tutto di te. La parola dell’uomo è un suo pensiero comunicato ad un altro uomo: può essere vero, potrebbe essere ingannevole; può comunicare amore oppure odio. La «Parola» di Dio è sempre tutto il suo amore, che egli vuole trasmettere a te, perché sa che può essere ricevuto da te, per rimanere in te e renderti come lui è: amore donato. Ebbene, io, Gesù, sono questo amore ricevuto e donato.

Io sono la «Parola» del «Dio mio e Dio vostro, Padre mio e Padre vostro» (Gv 20,17). È lui che vuole che io sia tutto dentro di te per renderti divino, per trasformarti, in modo che il tuo vivere diventi novità bella e attraente in questo mondo, che il peccato, vissuto da Adamo e da Eva, ha rovinato e reso squallido. Il peccato ha privato il mondo della sapienza del Padre, della sua scienza, della sua fortezza, del suo consiglio, della sua santità: in pratica, lo ha privato di me.

Il peccato ha rovinato anche le parole degli uomini. Il tentatore è riuscito a privarle della loro ricchezza di comunione. Ha voluto persino usare la «Parola» del mio Dio per tentare di generare in me gelosia e invidia (Mt 4,3.6), come è riuscito nell’ascolto di Eva e Adamo (Gen 3,4-5). Sarai attento e vigilante a discernere con quale scopo ti viene donata la «Parola» del Padre, e la mia. Se non ti invita all’obbedienza umile, la rifiuterai.

Io, «Parola» del Padre, e lui, siamo uno, un unico amore che, tramite me, si dona indistintamente a tutti: chi vuole lo accoglie e lo riceve. Chi accoglie me accoglie il Padre mio. I peccatori, partecipi della sofferenza e deficienza di Adamo, mi ricevono più facilmente di coloro che si ritengono vicini a Dio grazie alle loro buone opere, e di coloro che presumono di essere osservanti di leggi e norme, sante sì, ma non fruttuose, se non vissute con amore e nell’amore santo e misericordioso.

Io sono la «Parola»: mi riceverai anche tu, e ascolterai la mia voce. Essa ha autorità, da quando la voce del Padre stesso si è fatta udire a Pietro, a Giovanni e a Giacomo, saliti con me sul monte santo per pregare. Egli ha detto loro con forza: «Ascoltatelo» (Lc 9,35). Ora, per ubbidire a Dio Padre, ascolterete me (Lc 10,16). Da allora, io che sono la «Parola», pronuncio Parole che vi danno vita, vi purificano, vi riuniscono in un unico gregge.

Io, la «Parola»! Tu conosci e leggi le Scritture sante: ebbene esse non solo parlano di me, mi fanno conoscere a te, mi fanno incontrare con te: esse sono il mio vestito. Di più, esse sono me. «Parola» di Dio sono io, e non c’è altra parola viva. E quando io sono in te, nascosto nel tuo cuore, diventi anche tu «Parola» divina, suono della voce del Padre, rivelazione del suo amore santo e fedele. Non temere; godi e rallegrati invece, esulta, anche quando il mondo cerca di tenerti lontano da sé. La tua gioia parlerà a tutti e attirerà a me chi deve essere salvato.

Lo sai che la mia «Parola» purifica (Gv 15,3)? Chi ascolta la mia parola e la custodisce nella mente e nel cuore, costui porta in sé la mia vita stessa. La mia vita è pura e santa, è la verità di Dio. Quando essa è in te, tu sei puro e santo. Quando essa è in te, tu sei partecipe della verità, cioè dell’amore purissimo del Padre nostro. La mia «Parola» infatti ti allontana da ogni idolatria e dai suoi inganni.

Uso le parole anche come le usano gli uomini. Le ho usate con i genitori che mi hanno cercato a Gerusalemme: con quelle parole li ho aiutati a diventare veri genitori, lieti del mio rimanere nelle cose e nella casa di Dio, del Padre mio. Ho usato poi parole umane per raccontare alle folle dei piccoli e dei peccatori parabole semplici, ricche di luce e di sapienza. Ho usate le parole per dare salute del corpo ai malati, per assicurare del perdono i peccatori, per rialzare chi era già privo di vita.

Io, Gesù, ho usato le parole degli uomini per accompagnare i due uomini verso Emmaus. Li accompagnavo mentre si allontanavano dalla loro Chiesa, abbandonavano il loro luogo più sicuro, iniziavano a formulare bestemmie contro le promesse di Dio. Essi dicevano: «Noi speravamo…», ma non speravano nulla. Era una speranza, la loro, non radicata nella «Parola». Era radicata e fondata sulle loro idee e negli egoismi delle tradizioni umane. Le mie parole…

Le mie parole erano fuoco che scaldava e infiammava il loro cuore arido e incredulo. Erano parole appoggiate e radicate in quelle sicure e sante dei profeti, libere dai sentimenti umani e dalle umane comprensioni, limitate, seducenti e ingannevoli. Le mie parole erano ricche di speranza, che cresceva a vista d’occhio in loro. Tu lo sai, Giovanni, che le mie parole non sono parole, ma tesori e perle preziose, cibo nutriente come il pane più squisito. Anche tu le hai assaporate. E finalmente…

Finalmente, le mie parole non servirono più ai due quando le mie mani hanno spezzato il pane. Allora i loro occhi videro solo le mani e il pane, i loro orecchi non udirono più la voce del viandante che li aveva accompagnati, ma in loro iniziarono a riecheggiare le parole da essi fino allora incomprese e dimenticate: «Beati i puri di cuore… Beati i perseguitati per il mio nome… Io sono la verità e la vita, Io sono la risurrezione, Saprete che Io Sono». Mi ascolti, Giovanni? Le mie parole rifioriscono anche nella tua memoria?

La mia «Parola» perdona e purifica. Quando io ti parlo, tu, che mi ascolti, ricevi vita e, visto che ne hai sempre bisogno, ricevi pure riconciliazione con il Padre mio e Padre tuo. Le mie parole divengono la base di ogni tuo discernimento, la chiave per ogni tua scelta di vita e di lavoro. Non deciderai mai nulla che non spunti, come un fungo, da qualche mia «Parola». So che mi ascolti volentieri, e che vuoi ciò che ti dico, perché sai che è conforme al volere d’amore del Padre tuo. Grazie alle mie parole il peccato sta lontano da te: per esso non riusciresti a pronunciare con gioia l’«Eccomi» e l’«Amen» a Dio.

Io, Gesù, ti dico «Eccomi», per ascoltare le parole che tu, Giovanni, mi rivolgi. Esse sono preghiera, perciò le ritengo preziose. Sono parole di un figlio di Dio, non le posso ignorare. Sono parole di umiltà, parole di uno che sa di non essere solo e di non potersi arrangiare. Somigliano alle parole con cui io mi rivolgo al Padre.

Quando tu preghi sto molto attento. Talora devo correggere il tuo tono di voce, o qualche desiderio inquinato espresso dalle tue parole, prima di porgerle al Padre. Ma tu continua: io sono attento, e godo di ogni minuto che tu riempi di parole rivolte a me, o direttamente al Padre, o alla mia generosa e misericordiosa Madre.

Quando tu parli con gli uomini tenendo presente la mia «Parola» per dare senso e significato e nutrimento alle tue parole, allora tu stesso diventi dono divino. Le parole degli uomini somigliano alle parole che sgorgano dalle mie labbra. Per questo le amo e le ascolto: non mi sfuggono. Spesso sono degne di me, e risultano gradite al Padre. Quando rasentano la bestemmia invece, io cerco il modo di risanarle, e di seminare tra esse il buon seme.

Ogni parola degli uomini è come un seme. La loro parola talora è seme di grano buono, con cui fare pane, e talora invece seme della zizzania velenosa. Questa non si può estirpare senza creare danno al buon grano. Farai attenzione alle tue parole, che non siano zizzania: per quelle verresti giudicato. Delle mie ti puoi fidare sempre: esse sono grano buono e affidabile, anche quando cadessero in un terreno infruttuoso, sterile, o già occupato da altre piante.

Io sono la «Parola» sparsa come seme nel mondo: lo trasforma, lo cambia, lo rende vivibile. Dice già l’antico profeta che la «Parola» che esce dalla bocca di Dio tornerà a lui dopo aver portato frutto (Is 55,10-11). Sono io quella «Parola», e il mio frutto è amore, compassione, umiltà, vittoria sulle tentazioni del nemico, pace tra le persone e tra i popoli. Dove arrivo io, morto e risorto, sorgono molti a ripetere e continuare il mio servizio a chi soffre il peccato del mondo. Tra essi ci sei pure tu, Giovanni. Ogni tuo «Eccomi» infatti è dono di Dio per tutti: ad ogni tuo «Eccomi» il Padre stesso risponde con il suo «Amen».

Io sono la «Parola»: sono la «Parola» che genera silenzio, un silenzio che diventa per te fonte di Spirito Santo, ambiente sicuro di vita e di pace. Io, «Parola», riempirò il silenzio che tu mi offrirai. Il tuo silenzio diventerà deserto nel quale sgorgheranno sorgenti d’acqua zampillante, e terreno fertile ricco di frutti. Nel tuo silenzio prenderanno vita parole nuove, risonanza delle mie, e nel tuo cuore e nella tua mente spunterà come fiore variopinto il mio nome.

Tu mi chiamerai per nome, e sarà la «Parola» più bella, la «Parola» più vera, la «Parola» più santa, la «Parola» eterna. Non riuscirai mai a pronunciare una «Parola» più ricca del mio nome, generatrice di comunione, datrice di forza e di luce. Le tue labbra, quando pronunceranno il mio nome, diverranno miniera di tesori. Il mio nome è ‘la’ «Parola» di Dio, l’unica che risuona nel suo mondo dall’eternità e per tutta l’eternità.

Gli uomini che parlano di me non diranno nulla di sicuro se non pronunciano il mio nome: saranno muti come pesci, e il loro parlare un fiume vano senza vita. Il mio nome impegna la Potenza d’amore di Dio, che salva tutti da ogni pericolo e da ogni nemico. Ogni discorrere privo del mio nome è torrente di acqua insapore, dal cui scorrere fuggono persino i pesci, che non vi trovano né cibo né riposo.

Con le mie parole nel tuo cuore, parole incollate sul mio nome, tu diventerai luce nelle tenebre di questo mondo corrotto, forza e sapienza caritatevole per chi geme per il peccato di Adamo che continua a creare catene e chiodi. Le mie parole gustate da te diventeranno guida e salvezza: saranno piantate in te con radici profonde e solide. Ogni mia «Parola», anche quando sarà pronunciata dalla tua bocca, sarà acqua che disseta e vivifica. Essa dal mio nome è resa sorgente luminosa.

Ho detto ai farisei (Mt 12,34) e ai miei discepoli (Lc 6,45): «la bocca parla dalla pienezza del cuore». E allora, sai che ti dico? Ascolta con attenzione mia Madre. La pienezza del suo cuore sono io: non ti dirà mai nulla che non sia gradito a me, che non sia fedele al mio Spirito, che non sia dono di salvezza. Anzi, riceverai dalle sue parole grazia su grazia, gioia continua, sapienza fedele, «acqua» che ristora: il frutto della mia presenza sicura e forte. Nelle sue parole risuona sempre il mio «Eccomi»!


  1. Acqua

Io, «acqua» che disseta, «acqua» che purifica, «acqua» che dona vita. A Cana ho risposto a Maria, Madre mia, attenta e sapiente. Chiedeva il vino per le nozze (Gv 2,3): tutte le nozze sono segno dell’amore di Dio per gli uomini. Questi però non potevano gioire di quell’amore: senza di me l’amore degli uomini non è pieno, non è completo. Se manco io, ogni amore è instabile e senza purezza, è «acqua» che può solo tentare di lavare l’impurità.

A Cana c’era soltanto l’acqua usata per purificare mani e piedi dalle disobbedienze alla Legge. Io l’ho data da bere: la Legge va tenuta nel cuore, amata e desiderata. Ed ecco, la vita è diventata nuova, ricca di gioia ed esultanza. La Legge nell’intimo del cuore rallegra l’anima. Ora anche tu gioisci quando incontri l’amore del Padre, quando bevi quell’«acqua», che sono io. Tutti gli sposi godono quando io sono la loro unità, quando io completo il loro vivere e il loro sognare.

Alle nozze ho fatto intervenire i servi: non sapevano e non capivano quello che facevano. Sapevano solo di essere ubbidienti, ubbidienti a me, grazie a mia Madre. Hanno attinto l’«acqua» al pozzo per riempire i recipienti, hanno attinto di nuovo per portare quell’«acqua» in tavola. Io sono l’«acqua», e i servi, solo chi si fa servo obbediente a mia Madre, sono in grado di portare me a rallegrare le nozze divine.

A Sichem ho chiesto un po’ d’«acqua» ad una donna assetata che attingeva dal pozzo (Gv 4,7). Non avrebbe voluto darmela: era prevenuta. Infatti mi considerava uno dei nemici del suo popolo. Ma parlando io con lei, ella ha scoperto d’aver bisogno di purificazione, e si è convinta che le mancava quella vita nuova e vera che non avrebbe ricevuto dall’acqua del pozzo, ma soltanto da me. Sono io l’«acqua» che vivifica.

Come quella donna di Samaria, così anche tu potrai attingere da me come da un pozzo profondo. Potrai bere pace, libertà, fortezza, pazienza e serenità, fino a dissetarti. Tutte le persone da cui hai cercato consolazione e affetto non ti hanno soddisfatto. Non è colpa loro: avresti dovuto tu cercare e attendere solo da me la vita vera. Vieni, chiedimi pure tutto ciò che vuoi, dimmi anche tu, come quella donna, i tuoi dubbi e la tua situazione stressata e stressante: da me riceverai l’«acqua» che ti ristora.

Un tale, cieco dalla nascita, mi ha incontrato. Ovviamente non mi vedeva: io ho visto la sua sofferenza (Gv 9,1). Con la mia saliva ho fatto del fango per spalmarlo sui suoi occhi. Poi l’ho mandato a lavarsi all’«acqua» chiamata Siloe, cioè Inviata. Quello ha cominciato a vedere tutto ciò che lo circondava, ma soprattutto ha visto me come l’inviato dal Padre, da Dio. L’«acqua» che apre gli occhi, anche quelli dell’anima, sono io. Non cercherai altri, verrai solo da me, anche tu.

Un uomo paralizzato, sofferente da trentotto anni (Gv 5,5), stava nei pressi del tempio, vicino ad una piscina, in mezzo ad altri malati. Tutti speravano di scendere in quell’acqua per guarire dalle loro infermità. Mi sono commosso: era già in quella condizione quand’io nacqui a Betlemme. Gli rivolsi la parola, ed egli ha ubbidito: si è alzato. Ha scoperto che l’«acqua» che dà vita sono io, non quella in cui, per molto tempo, inutilmente gli uomini pongono la speranza.

Io, «acqua» viva che disseta e dona vita! Lo gridai, stando nel tempio a Gerusalemme, invitando tutti a venire a me per bere e per purificarsi. Lo grido anche a te: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me» (Gv 7,37). Non solo sarai dissetato tu, ma da te «scaturiranno fiumi di acqua viva» per dissetare altri. Riceverai il mio Spirito, ed esso sarà luce e consolazione e forza per cambiare il mondo.

Ero sceso nel fiume Giordano, vicino a Giovanni. Egli versava l’acqua sul corpo dei peccatori. Gli ho chiesto di versarla anche su di me. Mi ha ubbidito (Mt 3,15). Da allora l’«acqua», tutta l’«acqua» versata nel mio nome, può lavare e purificare. Da allora sono davvero «l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29): lo tolgo dal cuore, dalle mani, dai piedi, dalle orecchie e dagli occhi di chi mi avvicina fiducioso.

Ogni volta che vedi l’«acqua», ogni volta che la tocchi, ogni volta che bevi «acqua», sei costretto a ricordarti di me. Lo farai, Giovanni? Anche l’«acqua» è una di quelle realtà che sono create dal Padre mio per mezzo di me e in vista di me. L’«acqua» ti ha immerso dentro il mio nome, e tu sei ancora impregnato del nome mio e del Padre e dello Spirito. Dall’«acqua» battesimale non esci più: in essa la tua vita continua ad assorbire l’amore divino e santo, l’amore che è Dio stesso.

L’acqua ricopre gli abissi del mare, e scende dal cielo. Io sono quest’«acqua» che nasconde gli abissi di peccato, quello del mondo che contiene anche il tuo peccato. Non abbatterti mai per il tuo peccato e non vergognarti di esso: deve vergognarsi il diavolo che te l’ha suggerito e ti ha convinto a peccare. Lasciati coprire dal mio amore, e il peccato non ti brucerà più il cuore. Quando ti lascerai perdonare da me, diventerai di nuovo strumento adatto per formare il mio Regno! Io, Gesù, sono l’«acqua» che scende dal cielo come dono: dirai sempre grazie al Padre ogni volta che m’incontrerai. È lui che mi manda perché io disseti la tua vita, e sia per te il «Signore» che ti difende e ti protegge e ti salva, e ti dona la gioia di ripetere il tuo «eccomi»..


Signore

«Signore»: una parola molto significativa. Perché? Perché sono io il «Signore». Io, Gesù, sono l’unico «Signore», signore degli uomini e signore del creato. «Signore», a dir il vero, è una parola amata e bistrattata. È usata con frequenza dagli uomini. La usano per alcuni uomini, ma soprattutto per Dio, mio Padre. La usano anche quelli che non lo conoscono, e la usano per chiamare me, sia quelli che mi conoscono che, talvolta, quelli che di me non sanno nulla più del nome.

Questa parola «Signore» ricorre più di settemila volte nelle Sacre Scritture. In esse è indirizzata al Padre, ovviamente, e poi anche a me: io infatti sono unito a lui, essendo suo Figlio amato da lui. Condivido con lui perciò questo titolo. Alcuni, quando lo pronunciano, sono confusi: non sanno se si riferiscono a me o al Padre; e quando pregano non sanno se sono rivolti verso il Padre o verso di me. Non ti devi preoccupare: quando ti rivolgi a me, il Padre è felice: è segno che hai preso sul serio la sua esortazione sul monte: «Ascoltatelo». Se ti rivolgi a lui, io esulto: hai imparato da me, che ho detto: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra» (Mt 11,25).

La parola «Signore» tu la rivolgi a Dio Padre e a me con amore e riverenza: l’adoperi per l’adorazione, per la lode, per il ringraziamento e la benedizione, per chiedere perdono, e anche per la domanda accorata e sofferente. Ricordi la donna Cananea (Mt 15,21-28), pagana, la cui figlia era tormentata da un demonio? L’ha rivolta a me tre volte. La prima volta solo perché l’aveva sentita da altri, la seconda con fede convinta, la terza volta perché aveva cominciato ad amarmi con umiltà.

Qualcuno ha usato la parola «Signore» per farsi bello ai miei occhi, come se io non vedessi l’intimo del suo cuore. Anche se bella, la parola non mi dice nulla, quando non è accompagnata dall’obbedienza. Anzi, diventa ripugnante, come quella di chi la ripete: «Signore, Signore», e continua a disobbedire al Padre mio, senza intenzione e decisione di prendere sul serio quello che io direi, se gli rispondessi.

La parola «Signore» è anche rivolta a Dio, il creatore del cielo e della terra, Padre mio e Padre tuo, Padre vostro, cioè il Dio da cui tutti provenite e a cui tutti arriverete, un Dio che è amore vero, giusto e fedele, amore dal quale sei e ti senti protetto, nel quale cresci fino ad una statura piena e ricca di gioia. Tu a lui, al Padre, dirai «Signore» per assicurarlo che intendi obbedirgli sempre, con amore e riconoscenza.

Proprio Dio, il Padre, ha mandato me, che sono da lui generato fin dall’eternità senza tempo, per essere il suo occhio e la sua mano sulla terra. Così posso vedere e tenere in mano te, la tua storia passata e quella futura. Tengo in mano il mondo intero, lo spazio e il tempo. La mia mano è sicura: è umana, in modo che tu la possa percepire, ed è divina, così non ne potrai dubitare. Rivolgendo a me la parola «Signore», tu dichiari che sei nelle mie mani, e perciò non hai paura di nulla, nulla ti turba, nulla ti fa disperare.

Sono il «Signore». Tengo in mano persino la morte. Lo sapevi? Per gli uomini è difficile pensare e ammettere che qualcuno possa tenere in mano la loro morte, dominarla, comandarla. Ebbene, io sono «Signore» anche della morte. L’hai visto a Nain, lo hai contemplato in casa di Giairo a Cafarnao, lo hai ammirato a Betania, quando le sorelle di Lazzaro hanno aperto il suo sepolcro al quarto giorno. Puoi dubitare? Ma no, tu credi anche a quanto ti ha rivelato Maria di Magdala.

Maria di Magdala non voleva credere ai propri occhi. Quando mi ha visto, aveva già rimosso dalla sua memoria l’immagine del mio volto, e non mi ha riconosciuto. Senza volerlo, mi ha persino rivolto parole d’accusa: mi ha incolpato di aver io stesso trafugato il mio cadavere. Per lei era troppo difficile ritenere che io possa tenere in mano la morte fino a renderla serva della mia volontà. Anche tu, Giovanni, spesso dubiti a tal punto di me, da perdere la speranza: ti preoccupi, sei sconsolato, e ancor più, arrivi ad arrabbiarti. Imparerai da quell’episodio a trattenerti dal giudicare e incolpare qualcuno: potrebbe essere servo della mia volontà.

Ebbene, finalmente, quando chiamai Maria per nome, ella ha riconosciuto la mia voce, ha percepito in essa il mio amore tenero e fedele. Avrebbe voluto trattenermi, ma io la mandai a compiere una missione difficile e ingrata: la mandai dagli altri discepoli a dire loro che io sono vivo, perché la morte è vinta, è serva del mio volere. Arrivata dai «miei fratelli», è stata trattata malamente. Ha cominciato a soffrire una nuova sofferenza per me. Era la Chiesa stessa che la faceva soffrire.

Anche il tuo nome mi è familiare, come il nome di Maria; e io ti chiamo con gioia, e con la speranza che tu lo oda e risponda, così che io possa affidare anche a te una missione. Giovanni, mi dirai «Eccomi»? Ti offrirai per esaudirmi? Non ti accontenterai di dire «Signore, Signore», solo per metterti in mostra, o perché io esaudisca i tuoi desideri anche quando non sono divini?

Anche Pietro mi chiamò «Signore»: fu quando nella notte mi chiese di chiamarlo a camminare sull’acqua come facevo io. Aveva un po’ d’invidia, e anche desiderio di farsi notare dagli altri: nonostante ciò lo chiamai. Ed ecco, camminò sull’acqua. Ma bastò un colpo di vento, e si accorse che non l’acqua lo aveva sostenuto per alcuni passi, ma la fede in me. Umiliato e già bagnato, dal profondo dell’umiltà gridò verso di me: «Signore!», (Mt 14,28.30) e mi chiese salvezza. Dovetti esaudirlo, perché impari il vero significato di «Signore»!

Un’altra volta Simone si rivolse a me col titolo: «Signore», e fu quando io l’avevo chiamato «Pietro». Lo fece per dirmi: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai» (Mt 16,22). Ha adoperato il mio titolo con astuzia, per raggirarmi: non accoglieva il mio insegnamento, voleva darmi il suo, come se egli fosse divenuto il mio maestro. Per lui non ero «Signore» in quel momento, bensì uno che disobbedisce a Dio. Fui costretto a rimproverarlo con forza, anche perché gli altri non imparassero ad usare con menzogna una parola santa, e perché con lui fossero attenti e obbedienti nel leggere le Sante Scritture.

Io stesso misi in bocca il grido «Signore» alle vergini che andavano incontro allo sposo con le lampade: lo misi in bocca alle cinque stolte (Mt 25,11) che, arrivate in ritardo, pretendevano essere accolte da me, lo sposo che viene. Il titolo che ripetevano bussando, era adulatorio: non avevano pensato allo sposo durante tutta la giornata, e quindi non erano mosse da amore per lui, non avevano preparato l’incontro, egli non era stato il «Signore» del loro tempo. Poteva dir loro «Eccomi»? Rimasero fuori nelle tenebre.

Lo sai: gli apostoli (Mt 26,22) mi hanno chiamato «Signore» quando ognuno di loro desiderava sapere se era quello che mi avrebbe consegnato. Giuda l’Iscariota, invece, non riuscì a pronunciare questa parola. Egli mi chiamò «Rabbi». Rivelò così che io non ero per lui «Signore». Lo fece poco prima di uscire nella notte per accordarsi con chi aveva deciso la mia morte. Era tra i miei discepoli, per me «amico». Almeno non ha usato con menzogna il mio titolo: sarebbe suonato blasfemo.

Finalmente voglio rivelarti da chi puoi imparare a pronunciare la parola «Signore» per rivolgerti a me. Te lo immagineresti? È un uomo che ho dovuto rimproverare per l’incredulità. È Tommaso, cocciuto e orgoglioso pur essendo uno dei miei apostoli. Quando mi vide, si ricredette, con grande umiltà. Egli allora diede alla parola il significato più vero, stabile nell’eternità. Mi disse, con amore profondo e sentito: «Mio Signore, e mio Dio» (Gv 20,28). Imparerai da lui. Così impari da lui anche a non giudicare e condannare nessuno prima che m’abbia incontrato!

Imparerai da Tommaso a esclamare «Mio Signore, e mio Dio», ma continuerai a imparare da me e da mia Madre a ripetere «Eccomi», e a completarlo col tuo «Amen». Sarai mia gloria quando, cosciente del tuo peccato, t’abbasserai con umiltà a ripetere la confessione di Tommaso, peccatore. Sarai nella gioia eterna quando farai risuonare l’«Amen» che riecheggia nel canto dei testimoni vestiti di bianco, degli anziani e dei «quattro esseri viventi» (Ap 3,14; 5,14; 7,12; 19,4).

Ti ho detto che sono «Signore» anche della morte. È il passaggio per arrivare all’abbraccio del Padre mio, cioè per vivere la vera vita. Per me è stata necessaria per avere te insieme con me, come per avere insieme a me per sempre colui che era appeso alla croce al mio fianco. Nemmeno a te farà più paura il morire, dal momento che bevi la mia acqua di vita e mangi il Pane, mio Corpo risorto.

Quando io sono in te, tu sei vivo di vita eterna. La mia risurrezione è già nella tua esistenza: prova è che ami i fratelli con l’amore del Padre mio: infatti «Siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli» (1Gv 3,14). E tu, per amarli, stai rinnegando te stesso, cosicché si avvera anche la Parola: «Se moriamo con lui, con lui anche vivremo» (2Tm 2,11). Quando per te arriverà la morte, canterai il tuo definitivo «Eccomi», accompagnato dall’eterno «alleluia» degli angeli e dei Santi.

***

Giovanni è nella gioia:

gode che il suo Gesù, ora in silenzio, si sia intrattenuto con lui.

Spera di godere di nuovo della voce del suo Signore,

che gli presenterà altri titoli con cui è stato ed è conosciuto, amato e adorato.

  

Nihil obstat: Mons. Lorenzo Zani, cens. Eccl., Trento, 23 maggio 2025

(stampato giugno 2025)