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Frutto dello Spirito

Frutto dello Spirito

 

 “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge”. (Gal 5,22)

 

Hai mai aperto un melograno? È un frutto con molti grani dentro! Un’immagine adatta per lo Spirito Santo: il frutto della sua presenza ha molte manifestazioni!

 

INTRODUZIONE

 

Questo versetto fa parte di un discorso di San Paolo sulla libertà del cristiano. Un cristiano è, e deve essere, una persona libera. Nel suo cuore deve abitare la libertà. Anche il cristiano, infatti, può essere tentato di ridursi schiavo: non tanto di altri uomini, il che importerebbe poco, ma del proprio io e delle passioni. Queste, con le loro esigenze superficiali e ingannevoli, potrebbero condurre l’uomo all’impurità, al libertinaggio, all’idolatria, alla stregoneria, alle inimicizie, alle discordie, alle gelosie, ai dissensi, alle invidie, alle ubriachezze (vedi Gal 5,19-21), in una parola, alla propria rovina.

Il cristiano deve poter sperimentare una libertà profonda, la libertà dal proprio io, quello che S. Paolo chiama ‘carne’, la parte più superficiale e materiale dell’io.

Se ne seguisse le pulsioni, cioè se si rendesse ubbidiente alla ‘carne’, arriverebbe inevitabilmente a provocare i disastri elencati sopra.

La libertà del cristiano è, dunque, una libertà dagli impulsi che vengono dalla ‘carne’. Per poterla godere, egli deve sottomettersi allo Spirito. Il suo impegno non sarà cercare la libertà per essere libero; consisterà, invece, nel cercare l’ubbidienza, la sottomissione al Signore. Questa attirerà su di lui lo Spirito Santo, che produrrà i suoi frutti: ‘amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé’.

 

Don Vigilio Covi

 

 

  1. Frutto dello Spirito è amore

 

In greco, lingua usata dagli evangelisti, vi sono tre termini che noi abbiamo tradotto con un’unica parola: amore; tre termini che specificano la sorgente e la qualità dei sentimenti e movimenti interiori per i quali usiamo l’unica parola: amore. I tre termini sono: eros, filìa e agape.

Il termine eros indica quei sentimenti che sorgono nel cuore dell’uomo, quando egli è attratto da una donna. Siamo, qui, a un livello istintivo, quasi sensuale, della carne. Questa attrattiva è dono di Dio e, se orientata bene, rimane dono di Dio. È l’attrattiva che avvertono l’uno per l’altra, in certi momenti, i fidanzati e i coniugi; attrazione che porta al matrimonio o a viverlo rettamente. Qualora, però, questo sentimento, che pure chiamiamo amore, non fosse orientato bene, esso diventerebbe perversione, peccato, e provocherebbe la rovina dei rapporti reciproci.

Il termine: filìa vuole significare un’attrattiva superiore, diversa, che un uomo può provare nei confronti di altre persone; un sentimento che noi chiamiamo anche ‘amicizia’. Questa è condivisione di interessi, di traguardi, di esperienze vissute, di momenti trascorsi insieme, in un gruppo dove ci si è trovati bene.

Anche questo, in italiano, viene detto amore. È l’amore presente nell’amicizia e che è fonte di gratificazione psicologica, ma ha in sé anche un aspetto spirituale. Fanno parte di questo tipo di amore anche le simpatie, che sorgono, ad esempio, per riconoscenza: «Il tale mi ha fatto la tal cosa, mi ha così aiutato, mi ha accompagnato…». Con quella persona ci si trova bene e da essa ci si sente attratti; sorge così l’amicizia: una seconda forma di amore, filìa.

La terza parola greca che noi traduciamo col termine amore, è agape.

Essa indica quel desiderio o movimento interiore, che ci porta a donarci, e a donarci gratuitamente. Vogliamo amare, non perché gli altri ci siano simpatici né perché ci abbiano fatto del bene; neppure vogliamo cercare una gratificazione nel rapporto con loro. Solamente vogliamo donarci a Dio, e di conseguenza ci vogliamo donare agli uomini che Dio ama.

È un movimento d’amore, è un desiderio di donarsi, che non è guidato da nessun interesse materiale né psicologico e nemmeno spirituale. Non ha radici nell’uomo, non nasce da noi: non saremmo mai capaci di produrre questo amore disinteressato. Esso è un dono.

 

Quando mi accorgo di esser seguito e accompagnato, accolto e compreso, ascoltato da Dio, sorge in me una risposta: «Padre, anch’io ti amo. Vedo che tu mi vuoi così bene: ti voglio bene anch’io. Desidero che tutta la mia vita, tutto quello che faccio, tutto quello che sono, tutto quello che ho, sia una risposta al tuo amore».

Dio mi ama, Dio è mio Padre: io attingo la vita da lui, imparo la lui. Egli, come ama me, ama tutti gli uomini. Nasce così un nuovo rapporto con gli altri: poiché il Padre ama e accompagna tutti i suoi figli, anch’io li amo e li cerco, li accolgo, li ascolto, voglio comprenderli. E tutto questo, non perché mi sono simpatici, né perché sono bravi, neppure per ottenere qualche gratificazione da loro, no: solo perché desidero che anch’essi ricevano i doni del Padre, desidero che anch’essi godano, come me, d’essere amati da lui; desidero che entri in loro la ‘vita nuova’.

Sto vivendo un nuovo amore, un amore disinteressato, che ha origine nella paternità di Dio: l’agape. Qui, l’amore per Dio e l’amore per i fratelli non sono distinti, sono uno stesso amore: amando gli uomini amati da Dio, dimostro di amare Dio in maniera vera.

 

Grazie a questo amore la vita acquista dimensioni del tutto nuove.

Proprio perché è del tutto disinteressato, proprio perché viene dall’Alto, – le nostre capacità umane, infatti, la nostra volontà, la nostra carne non riuscirebbero a produrlo -, questo amore può resistere anche ai torti, alle offese, alle persecuzioni. Sappiamo tutti quanto risentimento ci rimane dentro, quando subiamo un torto! Per quanto tempo, pur mettendocela tutta, non riusciamo a perdonare. Ma se dipendiamo dal Padre, se ci mettiamo in contemplazione di lui e viviamo in sua compagnia, allora egli ci dona lo Spirito Santo. Questi ci rende capaci di amare anche i nemici, coloro che ci fanno torto, tanto da riuscire a non tener conto del male da loro ricevuto e a desiderare per loro la salvezza. È l’amore vissuto da Gesù sul Calvario: egli continua ad amare i suoi crocifissori, perché vede che essi, anche se lo stanno crocifiggendo – anzi, proprio per questo! - hanno bisogno di scoprire l’amore di Dio per loro; non lo hanno ancora visto, poveretti! Gesù non odia coloro che lo uccidono, anzi, li ama: il suo è un amore veramente disinteressato, è vero “agape”!

Viene dall’Alto, questo amore: mi mette a tu per tu con il Padre, mi mette a tu per tu con Gesù, quel Gesù che porta in mezzo a noi, nella sua carne, l’agape di Dio. L’amore che Dio ha per noi è così: è un amore che sorpassa ogni nostro limite e ogni nostro peccato. A questo amore potremmo dare un nome personale: Agape è lo Spirito Santo!

Frutto dello Spirito è agape: non è frutto né della mia buona volontà né della mia bravura, né delle mie virtù e neppure delle mie qualità né del mio buon cuore; no, è frutto dello Spirito Santo!

 

Nella Lettera ai Romani San Paolo scrive: “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5).

L’Amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori: non sono, dunque, i nostri cuori a produrlo. Per questo non dovrò preoccuparmi o sforzarmi di essere capace di amare; quanto è bella e liberante questa verità! Addirittura, se io cercassi di amare gli uomini con le mie forze, potrei lasciarmi trascinare da quei sentimenti che abbiamo chiamato Filia o Eros, da simpatie o sentimenti sensuali di attrazione fisica o psicologica: sarebbe davvero pericoloso. Se volessimo amare con le nostre forze, come pure se volessimo accontentare tutti, sempre e comunque, non offriremmo nessun arricchimento spirituale ai fratelli. Non cercherò, dunque, di amare gli uomini; cercherò, invece, di accogliere lo Spirito Santo; con lui verrà a me anche il suo frutto: l’agape, l’amore che Dio ha per gli uomini.

 

Frutto dello Spirito è agape: questo versetto è veramente molto bello, liberante e importante! Per poter amare tutti la via è ricevere lo Spirito Santo. È lui che produce in noi il frutto dell’amore divino per gli altri, per tutti i figli del Padre.

Noi, dunque, cercheremo lo Spirito Santo, cercheremo di restare sempre nello Spirito di Dio, di non lasciarcelo portare via da sentimenti o reazioni interiori suscitate dal comportamento degli altri o da esperienze negative della vita. Se lo Spirito di Dio rimarrà in noi, resterà in noi anche l’amore verso tutti.

Quasi ogni pagina della Sacra Scrittura parla dell’amore di Dio, dell’agape. Se dovessi farne un elenco, non ne sarei capace: bisognerebbe leggere tutta la Bibbia! Cos’è, in fondo, tutta la Scrittura, se non un inno all’agape di Dio? È la descrizione di quello che l’amore di Dio può fare nel cuore e nella storia degli uomini, descrizione fatta ora sotto forma di racconti, ora di parabole, fatta con l’esempio della vita di Gesù, con le esortazioni degli apostoli: tutte espressioni dell’amore di Dio che, secondo le varie circostanze, assume forme diverse.

  1. Giovanni parla ampiamente di questo amore - nella sua prima lettera, in una sola pagina, la parola agape (amore) viene ripetuta 32 volte (1Gv 4,7-5,4)! -. Parlando della fede, egli dice: “L’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio ...” (1Gv 4,7) e ancora: “Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede” (1Gv 5,4). Potremmo tradurre così: “La fede vera in Gesù, che è venuto nella storia degli uomini, si sviluppa nell’agape”.

Chi crede veramente in Gesù, Figlio di Dio incarnato per noi, riceve l’agape, in lui abita l’amore di Dio, perché chi crede in Gesù e resta in rapporto con lui, vive nello Spirito Santo.

Nello stesso tempo possiamo dire anche, in verità, che l’amore divino in noi è prova che siamo nella vera fede. Se non ci fosse in noi questo amore vero, questa fede disinteressata, non potremmo dire di conoscere in verità Gesù venuto nella carne. Questi, infatti, è l’espressione concreta dell’agape di Dio, dell’amore di Dio per gli uomini. Se noi crediamo in Gesù, se ci appoggiamo a lui, in noi nasce lo stesso agape, lo stesso amore, e questo amore diventa il segno che siamo nella vera fede.

L’agape, ripete S. Giovanni, è un dono; lo riceviamo da Dio, perché Dio è amore, Dio è Agape.

Questo dono, però, richiede di venir esercitato, altrimenti sarebbe come non lo possedessimo affatto.

Se uno non esercitasse l’amore di Dio verso il fratello, non potrebbe dire di amare Dio: non gli ubbidirebbe, non farebbe quello che Dio sta facendo verso gli uomini.

 

Noi non vediamo Dio, ma quando tra di noi c’è agape, c’è amore disinteressato, allora Dio abita in noi: e questo è molto più che vedere Dio! Quando noi ci amiamo e Dio è in noi, allora il suo amore in noi è perfetto e porta frutto!

Potremmo ora chiederci da cosa si riconosce che in noi c’è davvero l’amore di Dio. Ci risponde S. Paolo: “L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5): quando in noi è presente lo Spirito Santo, allora portano in noi il vero amore per i fratelli.

 

E l’amore di Dio per noi, dice Giovanni, è Gesù: credere all’amore di Dio per noi vuol dire credere in Gesù. Quando vediamo Gesù nella nostra vita, stiamo vedendo e gustando l’amore di Dio.

Questo, continua Giovanni, si manifesta nell’amore al fratello: “chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1Gv 4,21) e “Ma se uno ha ricchezze in questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?” (1Gv 3,17). Giovanni, poi, spiega anche quando noi stiamo amando veramente i fratelli: non quando li accontentiamo, non quando facciamo tutto quello che ci chiedono, ma quando noi stessi viviamo obbedienti a Dio. Ama veramente i fratelli colui che ascolta Dio e gli ubbidisce. Questa obbedienza può anche essere difficile, costosa e forse incompresa, ma la nostra fede la rende leggera. La fede, infatti, vince il mondo; vince anche quel mondo che è dentro di noi e fa da ostacolo al nostro amare in maniera pura e disinteressata.

 

Anche Gesù, nell’ultima cena, come è illustrato nel Vangelo di Giovanni, parla dell’agape, dell’amore di Dio, che è nel nostro cuore grazie allo Spirito. Gesù fa dell’agape il segno distintivo dei suoi discepoli: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). Questo significa che, se uno è discepolo di Gesù, porta in sé questo tipo di amore; significa pure che questo amore può essere trovato solo nei discepoli di Gesù: è il loro segno distintivo.

È forse presunzione questa?

No, perché l’amore di cui parlava Gesù - non quello che può nascere da simpatie o amicizie, ma quello che ha la sue radici solo in Dio -, è seminato solo nel cuore dei discepoli: questi, infatti, per amore di Gesù, sono capaci di morire a se stessi, di rinnegare se stessi, di camminare con Gesù verso il Calvario.

 

Nell’Ultima Cena, ancora, Gesù prega così: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola...” (Gv 17,21). Quando tra i discepoli ci sarà quell’amore che li fonde in unità, essi potranno essere una cosa sola.

L’amore, dunque, unisce, unifica, rende un cuore solo, un’anima sola. Ed è ancora lo Spirito Santo che, presente, produce questo amore.

“Siano uno perché il mondo creda”: rivolgendosi al Padre così ha pregato Gesù. L’agape, l’amore che unisce i discepoli di Gesù, è, dunque, la vera e unica opera missionaria della Chiesa.

In una Giornata Missionaria ho sentito annunciare: “Non sono le prediche che convertono il mondo, ma la presenza dell’amore; dell’amore divino, disinteressato, che ci porta a rinnegare noi stessi, a donarci a Dio per i fratelli”. Questo amore è la vera predica, la vera opera evangelizzatrice! Gli uomini, infatti, possono arrivare anche in altro modo a credere in un Dio, ma solo se vedono l’amore di Dio, vissuto da noi discepoli, possono giungere a una fede nuova, concreta: giungono a credere che Dio è il Padre che ama il mondo e che ha mandato Gesù per portare a ogni uomo la pienezza della sua vita.

L’apostolato che porta il mondo a credere, la missione che diffonde la fede è: “che siano uno”. L’agape deve giungere a fondere i cuori. Missione vera, vero amore per il mondo che non crede, è l’amore di Dio in noi, frutto dello Spirito Santo.

 

“Frutto dello Spirito è agape, è amore”. Quando cerchiamo lo Spirito Santo e restiamo uniti a Gesù, senza affannarci nella ricerca di altre cose, nascerà nel nostro cuore il vero ‘agape’. Un semplice paragone: come le piante di fagioli del nostro orto cercano acqua e producono fagioli, così noi cerchiamo solo lo Spirito Santo e produrremo amore vero, disinteressato; amore staccato dai sentimenti, dai risentimenti, dai ragionamenti, perché generato da Dio. Cerchiamo solo lo Spirito Santo!

Possiamo riassumere: Gesù viene dal Padre; egli è l’amore del Padre per noi; da Gesù nasce il nostro amore per i fratelli, e da questo la missione della Chiesa. Essa non può fare a meno di essere missionaria: deve portare Gesù al mondo, perché Gesù è il dono che ella ha ricevuto, è il dono che i cristiani hanno ricevuto.

Gesù ha arricchito la loro vita, la rende vita divina: per questo i cristiani vogliono portare al mondo Gesù.

Anche tra di noi l’amore più vero lo viviamo quando ci doniamo gli uni gli altri Gesù, e ci doniamo Gesù quando, come lui e con lui, siamo disposti a sottometterci, a morire e rinnegare noi stessi, a donare la nostra vita.

San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, ci aiuta a riconoscere dove è presente l’agape (carità), amore di dilezione, che vuole il bene altrui, tanto diverso dall’amore passionale ed egoista: “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,4-7).

Chiediamo lo Spirito Santo, e verrà a noi l’amore di Dio, che si manifesterà con la pazienza, la bontà, l’umiltà, la speranza, la sopportazione, la fede.

“Frutto dello Spirito è amore”.

 

 

  1. Frutto dello Spirito è gioia

 

La vita degli uomini, lo sappiamo tutti per esperienza, conosce dolori e tribolazioni fin dall’inizio. Nella Sacra Scrittura troviamo che l’uomo conosce il dolore fin da quando si è accorto di essere nudo, da quando, cioè, non ha accettato con umiltà la propria situazione di figlio. Volendo ribellarsi e fare a meno del Padre, si è trovato - orgoglioso e superbo - nell’incapacità di accettare la propria situazione di bisogno: bisogno di sapienza con cui regolare la propria vita e bisogno di misericordia. Con una parola possiamo dire che l’uomo ha conosciuto la sofferenza da quando si è trovato peccatore. L’orgoglio è stato, ed è ancora, fonte di sofferenza.

San Paolo dirà: “salario del peccato è la morte ...” (Rm 6,23). Già all’inizio della Bibbia questa situazione è espressa con le parole che Dio stesso rivolge a Eva: “Moltiplicherò i tuoi dolori”; “Vorrai andare verso tuo marito ed egli invece ti dominerà” (Gen 3,16), e ad Adamo: “Con dolore ne (dal suolo) trarrai il cibo ...” (Gen 3,17). Questa parola si realizzerà: sia i rapporti umani, anche i più profondi, come quelli tra madre e figlio, tra marito e moglie, cercati per la gioia, sia la sopravvivenza sulla terra - anche il semplice mantenersi in vita - si svolgeranno nella fatica e nel dolore.

Tutto ciò è volontà di Dio: è la sua parola che sta realizzandosi; Dio sa che ogni uomo deve riflettere sulla propria identità di figlio e accettarsi come tale, smettendo la mormorazione e la disobbedienza, per tornare all’umiltà. Questo è il vero posto dell’uomo, solo qui egli trova la pace e, con la pace, la gioia.

Dio, naturalmente, non vuole far soffrire l’uomo, ma, affinché questi possa tornare a lui e non andare perduto, non ha trovato strada più efficace che disseminare la sua vita di tribolazioni. È quanto viene detto da Isaia: “Signore, nella tribolazione ti abbiamo cercato; a te abbiamo gridato nella prova, che è la tua correzione” (Is 26,16), e che viene ripetuto in varie altre parti della Scrittura.

“Dio non gode della morte del peccatore”; Dio vuole la nostra gioia, ma questa può abitare in noi soltanto quando tra noi e lui, e di conseguenza anche tra di noi, gli uni con gli altri, c’è piena armonia. Ciò si realizza solo attraverso la conversione, alla quale l’uomo spesso non sa giungere se non attraverso il dolore, la prova, la sofferenza.

Sarà Dio stesso a risollevare l’uomo dalla situazione di dolore: egli fa la piaga e la fascia, ferisce e risana: “Farò cicatrizzare la tua ferita e ti guarirò dalle tue piaghe” (Ger 30,17). È Dio che vuole ristabilire l’uomo nella piena armonia: “Io, io sono il tuo consolatore” (Is 51,12). E ancora: Ecco, infatti, io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente, poiché si godrà sempre di quello che sto per creare, e farò di Gerusalemme una gioia, del suo popolo un gaudio. Io esulterò di Gerusalemme, godrò del mio popolo. Non si udranno più in essa voci di pianto, grida di angoscia (Is 65,17-19).

Come nel deserto ha fatto innalzare il serpente per la guarigione dei peccatori, dei mormoratori - chi lo guardava, guariva -, così innalzerà il Figlio Gesù sulla Croce per la guarigione, la vita, la gioia piena di chi alza lo sguardo su di lui.

Dio dà sempre all’uomo la possibilità di tornare alla gioia, però… non gliela tira dietro, non gliela butta addosso, se non la vuole, potremmo dire. Gli insegna, invece, la strada, gli dà la possibilità concreta di trovarla.

 

Torniamo al profeta Isaia: “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce ...; hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia ... poiché un bambino è nato per noi, c’è stato dato un figlio” (Is 9,1-5).

Ecco la concretezza con cui Dio interviene nella storia degli uomini per tirarli fuori dalla situazione di angoscia, di dolore, di morte, e dare loro luce, speranza e gioia!

Dio, non solo istruisce gli uomini, ma si impegna personalmente: darà per loro il suo unico Figlio.

Questa promessa porta alla speranza, alla fiducia; e in questa attesa, in questa speranza e fiducia, è già presente la certezza: Dio, quando promette, mantiene sempre la sua parola; egli è fedele!

Così avverrà certamente! Per questo l’Antico Testamento è pervaso dalla gioia.

Dio ha promesso: i patriarchi, i profeti e i giusti del popolo di Dio godono e si rallegrano; essi hanno la certezza dell’intervento di Dio nella vita degli uomini. Essi potranno cantare: “Mia forza e mio canto è il Signore ... Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza ... Gridate giulivi ed esultate, perché grande in mezzo a voi è il Santo di Israele” (Is 12,2-3-6), “Gioia e felicità li seguiranno, fuggiranno tristezza e pianto”, “Rallegratevi con Gerusalemme ... Sfavillate di gioia con essa voi tutti che avete partecipato al suo lutto.” (Is 66,10). Di espressioni simili abbondano vari salmi e altri passi della Scrittura.

Gioia promessa, che si realizza e diventa stabile e definitiva quando arriva quel Bambino.

 

Nei primi capitoli del vangelo di Luca vengono presentate alcune persone che hanno nel cuore la gioia, e questo grazie all’arrivo di Gesù, il Bambino promesso. Elisabetta, salutando Maria, dice: “il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo” (Lc 1,44): Giovanni Battista, ancora prima di nascere, sperimenta la gioia della presenza di Gesù. E Maria canta: “… il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore” (Lc 1,47).

Troviamo poi, ancora, la gioia dei pastori, dei magi, quella di Simeone e Anna; la troveremo nuovamente in Giovanni Battista, quando, battezzando al Giordano, dichiarerà ai suoi discepoli: “L’amico dello Sposo ... esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta” (Gv 3,29). “Questa mia gioia è compiuta”: la gioia di Giovanni, cioè, è completa, perfetta; a lui non manca più nulla! Il Messia è arrivato! La vita è piena, la presenza di Gesù la realizza perfettamente. È la stessa esperienza vissuta da Simeone, quando diceva: “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace” (Lc 2,29).

Gesù è quell’uomo che viene da Dio, che è Dio, e che cambia la situazione.

Con lui l’uomo non è più un Adamo che deve soffrire nei rapporti con gli altri; non è più un Adamo che deve soffrire a causa del lavoro: ora egli è uno che può godere, continuamente, perché la gioia sta nel suo cuore, e dal suo cuore si riversa nel rapporto con gli altri, nel lavoro, in ogni situazione in cui egli può trovarsi a vivere.

La presenza del Salvatore trasforma ogni realtà. Con Gesù l’uomo può godere pienezza e beatitudine.

Nel Vangelo dell’Infanzia questa gioia appare come possesso di pochi.

Poi Gesù dirà: “Beati i poveri, ... beati i miti ... beati voi ...” (Mt 5,3-11). Egli, così, annuncia la gioia per tutti; e ne dona qualche assaggio quando, ad esempio, guarisce qualcuno o libera dal Maligno o dalla morte qualcun altro.

Gesù porta questa gioia proprio perché porta armonia con gli uomini e con Dio. La porta nella casa dove entra, nella casa di Zaccheo peccatore. E Zaccheo ne rimane influenzato e ristabilisce la sua armonia con gli uomini: “Io do la metà dei miei beni ai poveri ...” (Lc 19,8).

Là dove Gesù entra, porta la gioia! Con lui entra il dono di Dio, entra l’armonia degli uomini con Dio.

 

È questa la gioia vera, quella definitiva? Ciò dipende dal motivo per cui queste persone sono nella gioia.

I nove Giudei guariti dalla lebbra, ad esempio, erano contenti di aver incontrato Gesù, ma la loro era una gioia egoistica.

Incontrando Gesù si può provare una gioia egocentrica, ma si può pure sperimentare una gioia nuova: una gioia che non dipende da ciò che Gesù fa per noi, ma da quel che egli è.

Durante l’Ultima Cena, nella preghiera rivolta al Padre, Gesù pregherà: “Abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia.” (Gv 17,13). Non chiede soltanto: “Abbiano la pienezza della gioia, siano contenti sempre e comunque”, ma: “Abbiano la pienezza della mia gioia”. Vediamo, allora, quale è la gioia di Gesù, quali sono le sue motivazioni.

Nell’Ultima Cena Gesù, parlando ai Suoi, offre un paragone molto significativo: la donna, che soffre nelle doglie del parto, è afflitta, ma, “quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione, per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia.” (Gv 16,21b-23b); ecco, dunque: la gioia di Gesù, quella che egli trasmette ai discepoli e che nessuno può togliere, quella è la gioia definitiva!

E questa è la gioia che nasce dalla Morte di Gesù, dal suo Passaggio, dalla Pasqua; è la gioia pasquale della Risurrezione, che viene a noi attraverso la Croce.

Come la gioia della donna che partorisce il bambino non ci sarebbe, se prima non ci fosse stato il parto con le sue doglie, così la gioia di Gesù: non sgorgherebbe, se prima non ci fosse stata la Croce, la sofferenza della morte.

I discepoli hanno sofferto per la morte di Gesù, ed ora gioiscono al vedere il loro Signore risorto. È questa la gioia che essi custodiscono nel cuore, la gioia che non verrà loro tolta da nessuno, nemmeno dalle persecuzioni.

Pietro e Giovanni, quando saranno flagellati dal sinedrio e poi rimandati, ritorneranno lieti di aver sofferto per Gesù, per suo amore. Nulla ha potuto togliere loro questa gioia!

 

Di questa gioia abbiamo ricca testimonianza nelle Lettere e negli Atti degli Apostoli, dove spesso appare che, nonostante difficoltà, tradimenti, persecuzioni, gli apostoli sono lieti.

San Paolo giunge a scrivere: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi ... a favore del suo corpo (di Cristo) che è la Chiesa” (Col 1,24). Egli parla spesso di questa gioia: chiede ai cristiani di comportarsi in modo da procurargli gioia, altre volte dà loro il ‘comando’ della gioia: “State lieti nel Signore” (Fil 3,1), “Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi” (Fil 4,4).

La gioia è la caratteristica del cristiano, di colui che, con Gesù, è disposto a morire e, grazie a questa morte, sperimenta la pienezza della vita; sperimenta l’armonia con Dio: la gioia.

  1. Pietro pure abbonda di parola riguardo alla gioia: “Siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po’ afflitti ...” (1Pt1,6), “esultate di gioia indicibile ... mentre conseguite la meta della vostra fede” (1Pt 1,8-9), “Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi” (1Pt 4,13). Egli presenta la gioia del cristiano come frutto dell’offerta di sé, come la gioia stessa di Gesù, che è venuto nel mondo e si è offerto pienamente al Padre.

Causa e fonte perenne della gioia è, dunque, la Pasqua: la morte di Gesù, come pienezza dell’amore.

Questa gioia la possiamo vivere anche noi, dal di dentro; la possiamo incarnare, se partecipiamo a tutta la Pasqua, che comincia, appunto, con la morte, intesa come dono di sé.

 

Gesù ci offre una serie di parabole, in cui ci presenta la gioia sotto forma di un banchetto: il banchetto del Figlio del re a cui tutti vengono invitati. Questa stessa immagine ritorna nel libro dell’Apocalisse, in modo particolare quando si parla del banchetto per le nozze dell’Agnello. Anche questa immagine esprime la realtà che abbiamo appena contemplato: vero motivo della gioia del re, cioè di Dio, sono le nozze del Figlio; gioia di Dio, cioè, è l’amore con cui il Figlio ha dato la vita per la Sposa, la Chiesa.

Che meravigliosa realtà: il Figlio è lo Sposo dell’umanità, quello definitivo; è colui che le dà la vita!

L’Agnello ha celebrato le nozze, l’Agnello sgozzato ha dato la sua vita alla Sposa: questo  è il motivo della gioia di Dio!

Il Padre gode, perché Gesù si è offerto, perché Gesù si è fatto Amore; gode perché vede che in Gesù, vero uomo, che si è donato, che ha amato fino alla fine, l’uomo è diventato Amore, è, finalmente, diventato come Dio: è divenuto come egli lo aveva pensato e creato!

Usando un’altra espressione, potremmo dire che il Padre gode del suo Figlio obbediente. Non è senza significato, infatti, che il Padre manifesti la sua gioia per il Figlio proprio in due occasioni nelle quali risplende la sua obbedienza: la prima, quando Gesù entra nell’acqua del Giordano, per “compiere ogni giustizia”, per compiere la volontà del Padre di salvare gli uomini caricandosi dei loro peccati. Questo è l’Amore più grande! Il Padre vede e proclama: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto” (Mt 3, 17); la seconda, quando Gesù, sul monte Tabor, parla con Mosè ed Elia “del proprio esodo”, cioè della propria morte, della propria offerta completa nell’amore (Mt 17,5 + Mc 9,7 + Lc 9,35). In quell’occasione Gesù accetta di morire per amore di tutti gli uomini, e il Padre rinnova la sua manifestazione di gioia, si compiace ancora del Figlio.

Già i profeti parlavano della gioia di Dio, annunciavano che Dio può essere contento. Sofonia, ad esempio, proclama: “Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente. Esulterà di gioia per te, ti rinnoverà con il suo amore, si rallegrerà per te con grida di gioia, come nei giorni di festa” (Sof 3, 17). Dio stesso sa essere contento, possiede la gioia; potremmo dire, egli è la gioia.

 

Lo Spirito Santo, venendo in noi, ci fa partecipi di questa gioia, gioia del Padre per il Figlio che è Amore, come lui. San Paolo, così, potrà dire: “Frutto dello Spirito ... è gioia” (Gal 5,22); lo Spirito, infatti, porta nei nostri cuori questa pienezza di vita, che viene dal Padre, dal cuore di Dio.

La gioia nello Spirito è anche la gioia di Gesù: anche Gesù gode, e gode del Padre: “Ti benedico, o Padre, ... perché hai rivelate queste cose ai piccoli” (Mt 11,25).

Egli insegna e raccomanda ai suoi discepoli di tenere nel cuore solo questa gioia. Quando i discepoli, tornati dalla missione, erano contenti perché avevano predicato e scacciato i demoni nel suo nome, egli quasi li sgrida: “Non rallegratevi, però, perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli” (Lc 10,20).

Gesù voleva insegnare ai Suoi a tenere nel cuore la gioia che dipende da Dio, perché solo questa è la gioia che rimane. Voleva dir loro, e vuol dire anche a noi: “Non confidate nella gioia che dipende da voi, dal vostro lavoro, dalle vostre attività, dalle vostre capacità, ma solo nella gioia che viene dall’amore del Padre, perché solo quella ha garanzia di continuità; essa rimane anche quando c’è sofferenza, anche durante i tempi di martirio, di persecuzione e di Croce. Voi, dunque, custodite solo quella gioia!”.

Gesù è gioia del Padre, che vede il Figlio come l’uomo vero, quale egli lo aveva pensato: sua immagine, capace di donarsi completamente, come lui.

Il Padre è la gioia di Gesù, che vede come il Padre è veramente un papà, un papà che non dimentica.

Lo Spirito Santo porta in noi la gioia del Padre e la gioia del Figlio: noi possiamo custodirle entrambe. Col Padre possiamo godere di Gesù e dire: “Gesù, sono veramente contento di te, perché tu sei l’uomo vero, secondo il disegno di Dio; porti in te l’immagine del Padre. Tu sei vero Dio. Tu sei sempre fedele, ubbidiente al Padre: tu sei sempre Figlio. Io godo di te: tu sei l’amico dell’uomo. Quando ti accolgo, Gesù, io sono l’amico dello Sposo”.

Con Gesù possiamo godere del Padre e dire: “Padre, come Gesù, anch’io sono contento di te! Tu sei sempre presente; sono contento, perché i nostri nomi sono incisi nel tuo cuore: tu sei un vero papà”.

Con questa gioia noi riusciamo a portare avanti la nostra vita di fede, a svolgere i nostri compiti con fedeltà; possiamo continuare con pace la nostra presenza in questo mondo. Si realizza anche per noi la profezia di Neemia: “La gioia del Signore è la vostra forza” (Ne 8,10).

 

Frutto dello Spirito è Gioia: la gioia del Padre e la gioia di Gesù, il Figlio.

Poiché la gioia è frutto dello Spirito Santo, possiamo ripetere anche per essa quanto detto a proposito dell’amore: non cerchiamo innanzitutto la gioia, ma la sua sorgente, cioè lo Spirito Santo.

Nostro impegno sarà di rimanere nello Spirito Santo, e diventeremo amore; cercheremo di rimanere nello Spirito Santo, e resterà nel nostro cuore la gioia.

Quando siamo nello Spirito Santo, infatti, si ristabilisce l’armonia piena con Dio e con gli uomini; la nostra vita entra, allora, nella gioia; la tristezza, conseguenza dell’inimicizia col creato e con gli uomini, scompare. Lo Spirito Santo ci dona, infatti, di perdonare gli uomini e di accettare il creato con i suoi limiti.

La tribolazione di Adamo ha fine, proprio come annuncia la profezia dell’Apocalisse: “In mezzo alla piazza della città ... si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie servono a guarire le nazioni. E non vi sarà più maledizione.” (Ap 22,2-3)

Questa bella immagine esprime come, quando accogliamo lo Spirito del Signore Gesù, la nostra vita entra in questa pace, che è gioia, serenità, pienezza di vita.

Ma tutto questo sgorga dalla vittoria dell’Agnello immolato: quando partecipiamo all’offerta dell’Agnello, quando entriamo nella sua Pasqua, nella sua offerta d’amore al Padre, allora la sua Pasqua diventa la nostra Pasqua.

“Frutto dello Spirito è… gioia”.

 

Ci farà molto bene, se ne abbiamo la possibilità, restare in silenzio per qualche tempo. Potremmo leggere un salmo (ad es. il 138, il 145, il 146…), oppure rimanere semplicemente in contemplazione dell’obbedienza di Gesù, della pienezza del suo amore sulla croce, unendoci al Padre per dirgli: “Sei il Figlio mio prediletto, in cui mi compiaccio: di te sono contento”.

 

 

  1. Frutto dello Spirito è pace

 

Riguardo alla pace, alcune affermazioni di Gesù sembrano contraddittorie: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare…” (Mt 10,34-35); nell’Ultima Cena i suoi odono: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Gv 15,27). A noi è familiare pure la parola che risuona nei vangeli del Natale, il canto degli Angeli: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama” (Lc 2,14).

Sulla terra non c’è pace; questa è una caratteristica dei cieli, una caratteristica di Dio: “Il Dio della pace”, troviamo talvolta nella Scrittura. Il termine ebraico, che noi traduciamo con la parola pace, è ‘shalom’, termine che indica la realtà di chi condivide tutto ciò che possiede. “Io ti do del mio, godi con me”; “Vieni sotto la mia vigna e sotto il mio fico”, direbbero i profeti, cioè: “Vieni a godere delle ricchezze che io ho ricevuto”; “Partecipa anche tu alla mia gioia”.

Comprendiamo, allora, perché Dio venga chiamato il Dio della pace, e come la pace sia una caratteristica costante dei cieli: Dio è condivisione; egli vuole rendere gli uomini partecipi dei suoi beni. Ma anche in se stesso, dentro la propria vita, egli è condivisione.

Gesù proprio così ci fa conoscere Dio: Padre, Figlio, Spirito Santo comunicano tra loro con tutto il loro essere, senza alcuna gelosia. Il Padre mette tutto nelle mani del Figlio, e il Figlio, da parte sua, si offre completamente, liberamente, al Padre. Padre e Figlio vivono questa comunione, e questa comunione è la terza persona divina, lo Spirito Santo, Spirito di unità, Spirito di verità.

Dio non è geloso delle proprie ricchezze: fin dall’inizio della creazione egli dà tutto ad Adamo; partecipa le sue decisioni con Abramo, lo tratta da amico: “Devo io tener nascosto ad Abramo ciò che sto per fare?” (Gen 18,17); consegna a Mosè le sue parole per il popolo, perché vuole renderlo partecipe della sua sapienza. Egli è il Dio della pace, perché la vive: egli, cioè, vive di condivisione, vive ‘partecipando’ continuamente se stesso.

La venuta di Gesù a Betlemme è annunciata come l’avvento della pace sulla terra: “Pace in terra agli uomini che egli (Dio) ama” (Lc 2,14). Gesù è l’amore stesso di Dio per gli uomini venuto sulla terra; egli stesso è la partecipazione della vita di Dio, la ricchezza di Dio comunicata agli uomini. Gesù è la Pace. Con la venuta di Gesù tra gli uomini rinasce la vita, l’abbondanza; è possibile quella vita di comunione, di condivisione che abita in Dio, che è la vita stessa di Dio.

 

Fino alla venuta di Gesù - ma anche finché egli non è accolto pienamente tra gli uomini - sulla terra è in atto, viva e attuale, la vicenda di Caino e Abele: regna la concorrenza, l’invidia del più forte; tra gli uomini rivive ‘Babele’, cioè un’incomprensione reciproca che nasce dalla vanagloria.

Queste sono conseguenze dell’incapacità di Adamo, cioè dell’uomo, di vedere in Dio un amico; egli è portato a farsi un’immagine falsa di Dio, e molto facilmente giunge a vederlo come nemico. Per questo sulla terra non c’è ‘shalom’, non c’è capacità di condivisione. Eppure gli uomini cercano continuamente pace; essi pensano di poterla conquistare, di potersela anche offrire reciprocamente, ma senza riuscirvi. Gesù diceva: “Non come la dà il mondo io la do a voi” (Gv 14,27). Sulla terra si moltiplicano le alleanze, i contratti, le convenzioni. Tutto questo, però, sta a significare che, nei rapporti umani, sotto sotto, rimane sempre il sospetto, la diffidenza; sulla terra è sempre vivo il pericolo di nuovi conflitti. Invece di scambiarsi reciprocamente i propri doni, ci si logora in continui reciproci controlli. I profeti Geremia (6 e 8) Ezechiele (7) esprimevano bene questa situazione: “C’è chi dice «pace, pace», ma pace non c’è”.

C’erano, e sempre ci sono, i falsi profeti, i quali affermano che sulla terra l’uomo da solo può darsi la pace: sono profeti d’inganno, sono i falsi profeti del vuoto, che parlano in difesa degli idoli degli uomini.

Gesù non pensa così. Egli sa che l’uomo, così com’è, non è capace di creare comunione, non è capace di condivisione; non sa vivere la vita che c’è in Dio, per questo non sa neppure, con le proprie forze, capacità e virtù, dare pace. Gesù non vuole, quindi, lasciare spazio e fiducia a una pace puramente umana: sarebbe una pace che dura poco, una pace instabile e insicura; sarebbe solo illusione. Dell’uomo non ci si può fidare! Una pace così, invece di chiamarsi comunione, potrà prendere il nome di ‘comunismo’, ad esempio. Nella mentalità che la sostiene, restano vivi gli atteggiamenti di pretesa, di dominio; restano, cioè, i sentimenti egoistici ed egocentrici dell’uomo.

 

Gesù dà un’altra pace, quella che egli stesso vive. La pace di Gesù è la sua capacità di accogliere il dono del Padre e di donare il dono che ha ricevuto. Gesù riceve tutto dal Padre, riceve la sua ricchezza, e offre al Padre se stesso: riceve la propria vita come dono e si offre, obbediente, a compiere la volontà del Padre, sacrificando se stesso.

Questo movimento interiore, che diventa poi concretezza di vita, che troviamo in Gesù, lo possiamo chiamare ‘Shalom’: è la pace di Gesù.

Questa pace la possiamo chiamare anche Spirito Santo.

Al battesimo nel Giordano, il Padre, dall’Alto, dona a Gesù lo Spirito, quello Spirito che Gesù, sul Calvario, riconsegnerà al Padre: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46).

Questi due momenti segnano il duplice movimento della vita di Gesù, che è tutta ‘Shalom’: ricevere e riconsegnare.

Gesù vuole donare la sua pace ai discepoli e a tutti gli uomini che essi incontreranno; vuole, infatti, che tutti vivano questo movimento, dentro questo circolo d’amore: io ricevo e io dono. Per questo dice ai suoi discepoli: “Vi do la mia pace”: il suo modo di dare la pace è ben diverso da quello del mondo!

“Vi do la mia pace”: è una promessa, che Gesù manterrà dopo la risurrezione, quando si presenterà in mezzo ai discepoli riuniti: “Si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi! ». Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. ... Disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi». Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo»” (Gv 20,19-22).

Dopo la risurrezione i discepoli cominciano a capire qualcosa di più della vita del loro Maestro e del suo messaggio. Dicendo “Pace a voi”, infatti, Gesù non pronuncia solo delle parole, ma fa quello che dice; fa, cioè, entrare i suoi discepoli dentro il suo offrirsi, il suo donarsi.

 

Paolo, parlando agli Efesini, dirà: “Egli infatti è la nostra pace” (Ef 2,14): Cristo Gesù, cioè, è il dono, la ricchezza, il tesoro, che Dio comunica all’uomo; un dono che, se accolto, riempie la vita di Spirito Santo, di vita divina: come se Gesù fosse la fiamma che diffonde la luce o il fiore che dà profumo o il pane che produce energia.

Con Gesù entra nella nostra vita lo Spirito Santo, e con lo Spirito Santo noi possiamo vivere in mezzo agli uomini, continuando questo movimento di accogliere e donare: viviamo la vera pace, la pace di Gesù.

Gesù stesso è la nostra pace: Gesù crocifisso e risorto, risorto proprio perché crocifisso. Noi entriamo nella pace, quando partecipiamo alla sua vita e alla sua gloria. La gloria di Gesù è l’essere innalzato sulla croce. Infatti, proprio sulla croce egli manifesta pienamente l’amore del Padre, cosicché noi, da lontano, lo possiamo contemplare: amore pieno, che dona se stesso. Là, sulla croce, lo possono osservare anche i peccatori, anche quelli che non sanno che cos’è l’amore.

Sulla croce Gesù offre al Padre la gloria più grande: la croce di Gesù è davvero la sua gloria, il luogo dove si può ammirare la pienezza dell’Amore.

 

“Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” (Gv 20,21): con queste parole, e mostrando le mani e il costato, Gesù fa entrare i discepoli nella sua pace: li rende partecipi della sua gloria. Il Padre ha mandato Gesù in croce per noi, e Gesù dice ai Suoi: “Così io mando voi”. E subito aggiunge: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi.” (Gv 20,22-23).

Come i primi discepoli, anche noi entriamo nella pace, quando partecipiamo a questa gloria di Gesù, la gloria che egli dà al Padre.

Comprendiamo, allora, che la pace di Gesù, che è Gesù stesso, non è un godimento egoistico: “Io mi godo la mia pace, me ne sto tranquillo, chiuso in casa, seduto in poltrona in pantofole”. Questa è una falsa pace, quella che vorrebbe dare il mondo (quella che oggi proclamano, ad esempio le religioni indiane…).

La pace di Gesù è il viaggio di un dono, è il passaggio dell’amore, da Dio al mondo, attraverso di me. Io accolgo l’amore che ricevo da Dio e lo comunico ad altri. Questo dono, che passa attraverso di me, mi dà pace, mi fa vivere in armonia con Dio, con gli uomini e anche con la mia stessa vita: col mio passato e con il mio futuro.

E anche quando gli uomini si facessero miei crocifissori, questa pace, questa armonia, mi rimarrebbe; essa mi accompagnerebbe, mentre, attraverso la mia vita, il dono di Dio, il suo perdono, continuerebbe a passare agli uomini. Croce, servizio, perdono: realtà che sempre accompagnano la vera pace, la pace di Gesù!

Essa, dono che ricevo lasciandomi continuamente battezzare, lasciandomi, cioè, completamente immergere e macerare nella vita del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; vita che ricevo da Dio con abbondanza, io la trasmetto, ne divento portatore: è un impegno forte, la pace di Gesù! Ed è attraverso quest’impegno, questo movimento, che il cristiano diventa operatore di pace, e gode la beatitudine, la pienezza di vita, proclamata da Gesù: “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”.

Quando Gesù manda i Suoi, fa dire loro, prima di entrare in ogni casa: “Pace a voi”. Comprendiamo, ora, che queste parole non sono un semplice saluto, non sono solo parole: è la vita di Dio, è lo Spirito Santo, che deve essere portato agli uomini, attraverso il dono di colui che è ‘il recipiente’, potremmo dire, dello Spirito Santo: il Figlio Gesù.

Infatti, quando Gesù manda i discepoli, darà loro il compito di preparare il suo arrivo.

“Pace a voi”, ossia: giunge a voi il dono di Dio, la vita che viene dall’Alto, la ricchezza interiore, l’amore che è dono di sé, che crea comunione e fraternità fra gli uomini.

 

I profeti, in particolare Isaia, annunciavano il Principe della Pace. Il Messia sarà davvero colui che fa vera pace sulla terra: egli è l’Agnello. “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello” (Is 11,6): per lupo ed agnello non dobbiamo intendere le bestie della foresta o della campagna, ma l’uomo violento e l’uomo mite, Caino e Abele.

Questi, alla venuta del Messia, il Principe della Pace, potranno vivere insieme. Quando gli uomini accolgono Gesù, il forte e il debole, il carattere impetuoso e il carattere mite, diventano dono l’uno per l’altro; il primo diventa forza, sostegno per il secondo, il secondo diventa dolcezza per il primo. Gli uomini possono finalmente scambiarsi i loro doni, le loro capacità: Gesù è la Pace!

Egli può davvero essere chiamato Principe della Pace, perché è lui che la offre, che la stabilisce là dove può piantare la croce; ed è la croce il luogo d’incontro del lupo con l’agnello.

 

Anche i pagani, le genti - nel linguaggio biblico il termine ‘genti’ indica i pagani - ricevono l’annuncio di pace, la possibilità della vita nuova: “Annunzierà la pace alle genti: il suo dominio da mare a mare”. Quando i popoli, anche i pagani, smettendo di obbedire agli idoli, obbediranno a Gesù, entrerà anche in loro la vita di comunione, di condivisione, di fraternità: la pace.

Questa è la caratteristica del regno di Gesù: finché egli non sarà accolto e non riceverà obbedienza, non potrà essere Re di Pace, e fra quegli uomini non ci potrà essere comunione.

 

La pace accompagna la venuta di Gesù sulla terra. Questa venuta, mentre viene accolta da qualcuno, viene ostacolata da altri. Per questo Gesù ripete: “Vi do la mia pace” (Gv 15, 27) e, contemporaneamente, dice: “Non sono venuto a portare pace” (Mt 10,34).

Il cristiano, che accoglie il dono di Dio, riceve la capacità di vivere la pace, ma viene sbranato come agnello dai lupi. E i lupi, bevendo il sangue degli agnelli, dagli agnelli ricevono vita: è quello che è accaduto e che sempre accade. A costo di morire, i cristiani si fanno operatori di pace; e anche nel loro morire trasmettono la vita del Dio - Amore: così i martiri, antichi e contemporanei.

La capacità di partecipare gli uni agli altri i propri doni è frutto dello Spirito Santo, non del ragionamento o dello sforzo, né tanto meno dei compromessi.

Anche per la pace, dunque, diremo: ““Non cercare la pace, non cercare d’essere capace di comunione, ma cerca lo Spirito Santo. Fatti ‘recipiente’ di Gesù, perché il suo Spirito dimori in te. Potrai così godere l’unità con Dio, la pienezza della sua vita; potrai godere comunione con i fratelli ed essere tu stesso operatore di comunione; potrai avere la forza di trasmettere al mondo, in qualunque situazione, l’amore del Padre””.

“Frutto dello Spirito è … pace”.

 

  1. Frutto dello Spirito è pazienza

 

La parola ‘pazienza’ potrebbe essere tradotta anche con ‘longanimità’. Poiché noi vogliamo osservare questo atteggiamento come frutto dello Spirito Santo, cercheremo di contemplarlo prima di tutto in Dio.

Nella Sacra Scrittura, più nell’Antico Testamento che nel Nuovo, in diverse occasioni, la pazienza viene presentata come una particolare qualità di Dio. Nel Libro dell’Esodo Dio, quando consegna a Mosè per la seconda volta le tavole della Legge, si presenta così: “Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione ...” (Es 34,6-7). Dio è lento all’ira, ricco di grazia e di fedeltà, conserva il favore, perdona la colpa, però non lascia senza punizione; la pazienza di Dio è così: non è lasciar correre, lasciar andare, essere irresponsabile, come invece qualche volta succede fra di noi. Ancora, quasi sempre la nostra pazienza è limitata, invece di Dio si dice: “Dio è ricco di grazia e conserva il suo favore per mille generazioni”.

Ma perché Dio è paziente con l’uomo? Nel Libro del Siracide leggiamo: “Che è l’uomo?” (Sir 18, 7-13). Il Signore ci guarda con amore: egli vede che la nostra vita è molto breve; ci vede poveri e pieni di miserie, e si muove a compassione. La pazienza, dunque, è un aspetto del suo amore.

Dio ama l’uomo anche quando questi è peccatore; anzi, è soprattutto allora che si manifesta questo aspetto dell’amore di Dio: se anche l’uomo fosse perfetto nell’amore, non avrebbe senso parlare di pazienza.

La pazienza di Dio è però un amore che sa richiamare e che arriva anche a castigare, ma appena sorge nell’uomo la conversione, Dio ritira il castigo. Il Libro di Giona, con un bel racconto, ci mostra concretamente in cosa consista la pazienza di Dio. Il profeta Giona è mandato ad annunciare alla città di Ninive la distruzione: i Niniviti, infatti, erano caduti in peccati molto gravi. Dapprima il profeta non accetta il compito affidatogli e fugge lontano, al di là del mare. Poi, nel modo che sappiamo, torna indietro e finalmente va a Ninive. Percorre in lungo e in largo la città annunciando: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta” (Gn 3,4). Sale poi su una collina per assistere alla distruzione della città. Ma Dio non la distrugge, perché i Niniviti hanno creduto alla parola del profeta e si sono convertiti. Giona ne prova grande dispiacere ed è indispettito a tal punto che prega il Signore: “Signore, non era forse questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Perciò mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato” (Gn 4,2). Giona non riflette la pazienza di Dio; vorrebbe vedere la distruzione della città, perché l’ha annunciata; si arrabbia, ma Dio lo redarguisce dicendo: “E io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?” (Gn 4,11). Dio è paziente con gli uomini, ne accetta la conversione e distoglie la mano dal castigo (Cfr anche Gioele 2,12-14).

 

La pazienza di Dio non si esprime verso tutti allo steso modo, ma secondo le necessità e i compiti di ciascuno.

Il popolo di Israele sperimenta da parte di Dio un tipo di pazienza diverso dagli altri popoli. Infatti esso ha un compito, una missione nei loro riguardi: far conoscere loro la volontà e la parola di Dio. Deve, quindi, essere formato secondo la pazienza di Dio, per questo Dio lo corregge subito, appena sbaglia, e per correggerlo adopera le sventure.

Con gli altri popoli Dio attende pazientemente prima di punirli, dà loro il tempo di convertirsi.

È ciò che leggiamo nel Secondo Libro dei Maccabei: “Poiché il Signore non si propone di agire con noi come fa con gli altri popoli ... ma correggendoci con le sventure” (2Mac 6, 14.16).

Questa realtà può dar luce a quelli che pensano: “Ma guarda: a me, che sono del Signore, quante ne capitano! A quelli là, invece, che ne combinano di tutti i colori, va tutto bene!”.

Ecco, appunto, la risposta: ““Tu sei di Dio, un po’ già lo conosci e lo ami, quindi devi essere corretto, devi essere formato secondo la sua sapienza, per questo egli interviene prontamente con te. Con gli altri, invece, egli attende, finché la tua vita diventi parola di Dio per loro””.

 

Anche San Paolo parla di questo modo ‘ineguale’ di Dio nell’esercitare la sua pazienza: “Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché, mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio ...” (Rm 2,1-5).

Non c’è affatto parzialità in Dio, anche se egli tratta ciascuno in modo diverso. Egli sa che è la sua bontà a spingere l’uomo a conversione: quando questi si accorge che Dio è buono e lo ama, allora cambia vita, proprio come dice il salmo: “La tua bontà mi ha fatto crescere” (Sal 18, 36); la tua bontà, non i tuoi castighi. Se, dunque, Dio è buono con il peccatore, con chi fa il male, tu non giudicare né il peccatore, né Dio!

Dio è paziente, perché è buono e sapiente; attende finché l’uomo si accorge di essere amato, finché si accorge di avere un papà.

 

Anche Gesù parla della pazienza di Dio: pensiamo, ad esempio, alla parabola del servo iniquo.

Un servo ha un debito di diecimila talenti – una somma sbalorditiva! - verso il suo padrone; non avendo il denaro da restituire, lo prega: “Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito” (Mt 18,26-27). Il padrone, non solo ha la pazienza di aspettare, ma addirittura condona tutto il debito: la pazienza di Dio supera le nostre aspettative! Egli condona, perdona, rimette tutto il debito, e pensa che chi è così da lui beneficato, imiti la stessa sua capacità di rimettere i debiti. Davvero, il dono più grande che l’uomo possa ricevere da Dio, non è tanto venir perdonato, ma ricevere la stessa capacità che ha Dio di perdonare: così, infatti, egli non riceve solo un beneficio da tenere per sé, ma la vita stessa di Dio, lo stesso Spirito di Dio, e diviene così capace di fare quello che Dio stesso fa!

Torniamo alla parabola: il servo, a cui è stato condonato tutto, è creditore di cento denari nei confronti di un altro servo. La somma è molto piccola, insignificante, soprattutto se paragonata a quella che gli è stata condonata. Eppure quel servo non è capace di condonarla! Questo significa che il suo rapporto col padrone era solo egoista: egli ha voluto ricevere un beneficio, ma poi non è stato capace di darne nemmeno una minima parte a chi era nel bisogno. Quel servo non ha saputo imitare il suo padrone neanche con un briciolo di amore! Ha tenuto il cuore chiuso. Proprio per questo il suo padrone lo fa mettere in prigione: non tanto per riavere i suoi soldi, ma perché là egli impari ad essere generoso, ad amare, a vincere il proprio egoismo e ad accogliere lo Spirito d’amore di colui che l’ha perdonato.

La pazienza di Dio è una pazienza infinita, ma responsabile; e vuole rendere responsabile anche l’uomo.

 

Non solo con le sue parabole, anche con la sua vita, con azioni concrete, Gesù ci mostra e ci fa gustare la pazienza di Dio.

Innanzitutto egli esercita pazienza verso le folle, verso chi vive immerso nell’ignoranza: non pretende che tutti capiscano, che diano ciò che non hanno ricevuto. Dirà:“Chi ha orecchi per intendere, intenda!” (Mc 4,9).

Un episodio, in particolare, mette alla luce la pazienza di Gesù (Lc 9,51-55): un villaggio rifiuta di accoglierlo e i discepoli Giovanni e Giacomo vorrebbero invocare su di esso il fuoco divino. Gesù li sgrida: egli è paziente; se quegli uomini oggi non lo accolgono, chissà, potrebbero accoglierlo domani!

Il desiderio dei discepoli di invocare il fuoco su chi rifiuta Gesù manifesta un po’ la tentazione continua dell’uomo di farsi giudice degli altri, e ci mostra come anche per i discepoli di Gesù sia difficile essere pazienti.

Quando, dopo la moltiplicazione dei pani, sulla barca, i discepoli si lamentano di avere solo un pane, Gesù dirà loro: “Non intendete e non capite ancora?” (Mc 8,17). Egli è deluso, e questa delusione la sperimenterà fino alla fine, fino all’Orto degli Ulivi. Egli è paziente, anche con i suoi discepoli, e attende che si convertano, attende fin dopo la propria morte. Non avrà la grazia di vederli credenti, abbandonati a lui, nemmeno sul Calvario!

Da che cosa scaturisce e in che cosa consiste questa grande pazienza di Gesù?

Essa nasce e si nutre della fiducia in Dio.

Gesù, dopo aver fatto tutto quello che il Padre gli ha manifestato riguardo i suoi discepoli, li rimette al Padre: non li rimprovera, non li castiga, ma ha pazienza, ha grande longanimità. Ha fiducia in Dio, si abbandona a lui. Ha fiducia nello Spirito Santo, che guiderà i suoi discepoli alla verità tutta intera, che interverrà nel loro cuore al momento giusto.

La pazienza di Gesù verso i suoi discepoli è fiducia in Dio, è fiducia nell’intervento dello Spirito Santo.

 

C’è, però, una categoria di persone verso le quali Gesù non usa pazienza: sono i farisei, gli scribi, le persone incaricate di trasmettere al popolo la Parola di Dio e di preparare i cuori alla sua opera. Verso queste persone Gesù interviene subito, con parole dure: in loro, infatti, è evidente l’opera del maligno. In un’occasione dirà:“Voi che avete per padre il diavolo” (Gv 8,44); e col diavolo Gesù non pazienta, lo manda via subito. Lo scaccia dagli indemoniati e, quando incontra gente che, invece, lo segue o che, in maniera cosciente, coltiva il rifiuto del mandato di Dio, Gesù sa essere severo e rimproverare: “Guai a voi!” (Lc 11,42ss).

Il Signore vuole mettere anche nei nostri cuori la pazienza; essa sarà della stessa natura della sua: frutto e segno della nostra fede, della nostra fiducia nell’intervento del Padre.

In due campi, principalmente, siamo chiamati a vivere ed esercitare la pazienza. Il primo è quello indicato da San Paolo nella Lettera ai Tessalonicesi: “Siate pazienti con tutti” (1Ts 5,14). Possiamo intendere così queste parole: accettate, sopportare i vostri limiti! Noi non siamo onnipotenti. Nelle nostre giornate possono verificarsi contrattempi, possono avvenire fatti che ci fanno soffrire; possono capitarci delle malattie, delle avversità, come è successo a Giobbe o a Tobia.

Potremmo tradurre anche così questo versetto: “Siate pazienti in tutto”, cioè, in tutte le circostanze. Ciò significa saper attendere e accogliere dal Padre tutto quello che egli prepara per noi.

 

Nella Scrittura abbiamo esempi significativi riguardo a questo atteggiamento. Davide, pur essendo già stato consacrato re da Samuele, non si ribella contro Saul, che lo perseguita e lo vuole uccidere, ma mostra pieno rispetto verso di lui. Ancora, quando, fuggendo dal figlio Assalonne che congiura contro di lui, sale l’erta del Monte degli Ulivi e Simei, insultandolo, gli lancia addosso polvere e sassi, non permette ai suoi soldati di ucciderlo: forse è Dio, dice, che glielo ha ordinato, perché io possa esercitare pazienza e accettare questa umiliazione (Cfr 2Sam 16,10-11).

Tobia viene accecato da un uccello che vola proprio sopra di lui, mentre riposa. Sua moglie lo provoca: “Ecco la ricompensa per tutto quello che hai fatto; tu seppellivi i morti del nostro popolo, andavi incontro ai bisognosi, ti comportavi con giustizia e bontà: ecco la ricompensa!”. Tobia la corregge: “Queste tue parole sono sciocche, prive di sapienza. Se Dio vuole questo da me, noi lo dobbiamo accettare”. Noi accogliamo da Dio sia il bene che il male; “Dio ha dato, Dio ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”, diceva Giobbe, altro bell’esempio di pazienza che troviamo nella Sacra Scrittura.

“Siate pazienti in tutto”: significa accogliere anche il male che ci capita, accoglierlo come dalle mani di Dio, come una sua scuola di purificazione, un aiuto, una grazia per noi. San Paolo non sopporterebbe di sentirci lamentare del caldo, del freddo, delle malattie, delle contraddittorietà, dei contrattempi, dei ritardi, degli anticipi, della mancanza di qualcosa o di nessun’altra contrarietà che potesse accaderci!

 

San Paolo ci indica, poi, un altro aspetto della pazienza, un altro campo in cui esercitarla: essa è quell’amore che sopporta i limiti altrui:“Siate pazienti con tutti” (Ts 5,14). Gli altri, poco o tanto, sono tutti peccatori ed hanno dei difetti: anche chi vive con noi, anche le persone che il Signore ci ha messo accanto. “Siate pazienti con tutti”.

Siamo pazienti con gli altri prima di tutto perché anche Dio è paziente con loro, perché la sua misericordia copre tutto, attende e sopporta i loro difetti. Ancora, lo siamo, perché il Padre ci chiama a vivere la sua stessa pazienza, a mostrarla, a realizzarla, a esserne strumento; egli desidera che noi riveliamo al mondo il suo cuore, che è paziente. La pazienza, dunque, fa parte della nostra vocazione, della nostra chiamata ad essere figli di Dio. San Paolo lo esprime così: “Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi” (Col 3,12-14). “Rivestitevi”: noi lasciate veder altro che questi sentimenti! Ed esorterà: “Comportatevi in maniera degna, - anzi - Io prego, perché possiate comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore” (Ef 4,1-2).

Chi non sa essere paziente, dimostra di portare in sé spiriti contrari all’amore. Qoelet direbbe che il contrario della pazienza è la superbia: “È meglio la pazienza della superbia” (Qo 7, 8); letteralmente si dovrebbe tradurre così: “Meglio uno spirito lungo, che uno spirito alto”.

Non saper essere pazienti significa, infatti, volere qualcosa di più dagli altri o da Dio: questo è superbia; significa non accettare la situazione di difficoltà o il difetto del fratello, volerlo cambiare: questo è spirito di dominio; significa, ancora, voler stare al di sopra delle situazioni, al di sopra degli altri; voler comandare agli uomini e alle cose: questo è mancare di umiltà nel rapporto con Dio e con i fratelli. È superbia, l’opposto della pazienza.

Si potrebbe dire, dunque, anche, che la pazienza è la manifestazione dell’umiltà.

Mentre la superbia porta l’uomo all’ira, alla precipitazione e alla fretta, la pazienza, lo spirito largo, porta a manifestare il cuore misericordioso di Dio. Essa è frutto dello Spirito Santo, Spirito di Verità.

 

Cercheremo, allora, ancora una volta, di accogliere lo Spirito Santo, di vivere in compagnia di Gesù, che ce lo dona, e, senza bisogno di sforzi o ragionamenti particolari, quasi senza nemmeno accorgercene, diverremo pazienti, longanimi, capaci di fidarci del Padre in ogni circostanza, come Gesù.

“Frutto dello Spirito è … pazienza”.

 

 

  1. FRUTTO DELLO SPIRITO È BENEVOLENZA

 

“Frutto dello Spirito è… benevolenza”; qualche altra traduzione dice ‘benignità’.

Per capire in cosa consista questo dono dello Spirito Santo, dobbiamo contemplare Dio, Padre e Figlio, perché lo Spirito Santo porta in noi, quasi come attraverso una varietà di raggi, solo l’amore che è in Dio.

Dio è buono, è misericordioso; vuole il bene del peccatore, cioè dell’uomo che gli disubbidisce, che gli volta le spalle: questo è l’aspetto del suo amore che viene espresso dalla parola ‘benevolenza’.

È, questo, un amore che ci impressiona e ci sconvolge; capiamo molto bene, infatti, che i nostri comportamenti e pensieri, i nostri modi di essere talvolta meriterebbero condanna. È proprio in quelle situazioni che possiamo vedere quanto il cuore di Dio sia dolce e buono. Egli è amico dell’uomo, realmente; sa mantenere l’amicizia verso la sua creatura.

La benevolenza di Dio pervade tutta la storia biblica, dove risplende nelle varie vicende del popolo d’Israele. La stessa benevolenza di Dio, però, potremmo osservarla anche nella storia di tutti gli altri popoli, anche in quella del nostro popolo; non solo: la possiamo contemplare anche nella nostra storia individuale. Ogni persona, infatti, nella propria vita, ha avuto esperienza della benevolenza di Dio.

Tutta la Sacra Scrittura è un narrare la bontà di Dio verso un popolo testardo e ribelle, un popolo di peccatori. Basterebbe leggere i capitoli che riguardano l’uscita del popolo dall’Egitto e il suo cammino nel deserto: storia dove la benevolenza di Dio esce sempre vittoriosa; oppure consideriamo la storia di Davide: quando questi pecca, e pecca molto gravemente, Dio non ritira la sua grazia dalla sua casa, rimane fedele alla sua parola, nonostante il suo eletto sia peccatore.

Il fatto stesso che esista nella storia un popolo di Dio, quasi sperduto in mezzo a tanti popoli pagani, è segno della benevolenza di Dio verso tutti i popoli: Dio dà loro, come suo dono, un piccolo popolo, che è suo, ed è destinato a portare loro l’annuncio della presenza di un Dio che è Padre.

Il profeta Giona, ad esempio, è mandato agli abitanti di Ninive, che non è una città di Israele: Dio esercita la sua benevolenza anche verso quegli uomini, vuol bene anche a loro. Venendo più vicini a noi, solo per fare un esempio, guardiamo il popolo italiano: nonostante i gravi peccati commessi lungo la sua storia, nonostante le sue gravi disobbedienze a Dio - non solo quelle del passato, ma anche quelle attuali -, Dio non lo distrugge, anzi, continua a suscitare in esso movimenti di salvezza, che portino nuovamente tutti a guardare a Dio con amore.

 

C’è, poi, l’esperienza personale della benevolenza di Dio, così come è narrata nella vicenda di Adamo, che descrive la vicenda di ogni uomo.

Dopo il peccato, Adamo si nasconde, e Dio gli chiede: “Adamo, dove sei?” (Gen 3,9). Osserviamo come non gli chieda: ““Adamo, che cosa hai fatto?””. Dio non guarda l’azione, il male che l’uomo ha operato, ma vuole incontrare l’uomo stesso, per lui nutre ancora speranza. La sua benevolenza si esprime nel voler tirar fuori Adamo dal nascondiglio, dall’oscurità, dalla tenebra, in cui egli si è ficcato.

Questa benevolenza tutti noi l’abbiamo sperimentata, e ancora la sperimenteremo, nella nostra vita: il fatto stesso che siamo vivi è segno che Dio ha avuto tanta bontà nei nostri confronti!

Quando a una persona giovane capita una malattia, è facile sentirla dire: “Cosa ho fatto per meritarla?”; ella pensa, probabilmente, di essere santa! Quando, invece, uno gode buona salute, normalmente non gli viene da chiedersi: “Cosa ho fatto per meritare la salute, la vita?”. Davvero noi non abbiamo fatto proprio niente; è tutto dono di Dio che gratuitamente ci mostra la sua benevolenza!

La concretizzazione più grande, più perfetta della benevolenza di Dio per l’uomo, è Gesù.

A Betlemme gli angeli hanno cantato: “Pace in terra agli uomini che egli ama” (Lc 2,14) o, come forse siamo più abituati a sentire: “Pace in terra agli uomini di buona volontà”. Qui non bisogna intendere che avranno pace solo quelli che ci mettono tanta volontà: la buona volontà è quella di Dio! Intenderemo, dunque, così: “Pace agli uomini che Dio vuole amare”. Dio vuole pace per tutti gli uomini e questa pace è annunciata sopra la grotta di Betlemme, questo dono viene elargito con la venuta di Gesù: è lui la benevolenza di Dio. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16).

Gesù che muore in croce è l’espressione concreta, pratica, più eloquente dell’amore del Padre per i peccatori; tutta la sua vita è stata la via più bella, più adatta, potremmo dire, per mostrare agli uomini la verità, cioè che Dio è Amore. Lo dirà Egli stesso: “Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18, 37).

Il termine greco tradotto con ‘benevolenza’ o ‘benignità’, letteralmente significherebbe proprio: qualcosa che è adatto per ...

Ora Gesù è la persona più ‘adatta’ per manifestare il volto di Dio, il suo Amore. In questo senso Gesù è buono. Egli stesso è la benevolenza eterna di Dio: “Sono venuto per rendere testimonianza alla verità”. E Gesù è adatto non solo a mostrare, ma anche a donare la benevolenza del Padre.

 

Con alcune parabole, soprattutto con le tre raccolte da San Luca: la parabola della pecora smarrita (Lc 15,4-7), della dracma perduta (Lc 15,8-10) e del padre fedele - più nota come del figliol prodigo - (Lc 15,11-32), Gesù ‘racconta’ la benevolenza di Dio. Ci fa capire che Dio vuole veramente il bene dell’uomo, vuol donargli quella vita, quella pace, quella gioia che egli non ha; vuole donarla anche a chi l’ha rifiutata, come il figliol prodigo.

Quando Gesù dirà che il Padre fa sorgere il suo sole sui giusti e sugli ingiusti, vuole insegnarci come egli sia buono, dolce ed abbia pensieri di salvezza, proprio come annunciavano i profeti: i pensieri di Dio non sono pensieri di sventura, ma di pace e di bontà.

Durante l’Ultima Cena, ai discepoli, Gesù dirà in maniera ancora più chiara: “Non vi dico che pregherò il Padre per voi” - come dire: non è necessario, perché “il Padre stesso vi ama” (Gv 16,26-27). Poco dopo, nella sua preghiera al Padre, dirà: “Padre, glorifica il Figlio tuo ... Tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato” (Gv 17, 2).

Gesù è, dunque, la benevolenza di Dio, è l’Amore di Dio concreto, attraverso il quale Dio dà la vita eterna agli uomini: agli uomini peccatori, perché tutti gli uomini lo sono. Ecco come Dio vuole il bene degli uomini!

E Gesù non solo racconta o insegna la benevolenza del Padre, ma la realizza. Se guardiamo quanto avviene sul Calvario, quanto succede al ladrone o al centurione, poi ciò che è avvenuto a San Paolo, e poi, di tempo in tempo, fino a noi, comprendiamo come l’effetto della buona volontà del Padre, della sua benevolenza, lo riceviamo grazie a Gesù, attraverso lo Spirito Santo.

Frutto dello Spirito è benevolenza.

 

Quando riceviamo lo Spirito Santo, diventiamo anche noi persone ‘adatte’, diventiamo ‘buoni’. Persino nel nostro dialetto, dire ‘sono buono’, significa ‘sono capace, sono adatto’. Questo è ciò che produce in noi lo Spirito Santo: rende la nostra vita adatta – non per nostra capacità, ma solo per suo dono - a manifestare e a donare l’amore, la bontà, la benevolenza del Padre.

Il termine greco per indicare la benevolenza, nel senso di essere capaci di qualcosa, è ‘crestos’ o ‘crestotes’, termine che assomiglia molto al nome ‘Cristo’. Non è senza importanza che ad Antiochia i discepoli furono chiamati per la prima volta ‘cristiani’, ‘cristianoi’. In uno dei codici antichi questo nome non è ‘cristianoi’, ma ‘crestianoi’. Questo termine sarà usato anche da vari Padri della Chiesa; in particolare, in alcuni antichissimi documenti della Chiesa di Siria, il termine ‘crestos’ è più usato che non quello ‘cristos’, Cristo.

Gesù Cristo è davvero colui che è buono, che è ‘adatto’ per trasmetterci la vita del Padre; i suoi discepoli, che da lui hanno ricevuto lo Spirito Santo, sono anch’essi ‘crestianoi’, cioè persone adatte, capaci di manifestare la bontà di Dio. Questo sarà dunque il loro compito: essere un Vangelo vivente, annunciare e far gustare a tutti l’amore di Dio, far conoscere che egli è buono con i peccatori. I martiri saranno pienamente fedeli a questa missione.

La vita del cristiano in mezzo al mondo è sale e luce; diventa utile, ‘buona’ per tutti, che fa nascere realtà belle e gradite a tutti. Pensiamo solo alla vita di tanti santi, che in situazioni di disagio, di disperazione, di necessità grandi, sono stati veramente manifestazione chiara d’amore. Molti di loro hanno fondato ospedali, orfanotrofi, case di cura, case di accoglienza, scuole per tutti i bisognosi, della nostra società. I cristiani, che vivono nello Spirito Santo, diventano adatti a mostrare e portare nel mondo l’amore che Dio ha per tutti i peccatori, l’amore fedele del Padre del figliol prodigo.

 

Il cristiano che riceve lo Spirito Santo è proprio quello che ci vuole per l’umanità. Non importa se questa, o una parte di essa, lo rifiuta: egli è proprio quello che ci vuole, ciò di cui il mondo ha bisogno. Se non ci fossero i cristiani, l’umanità o la società non conoscerebbe la bontà, l’amore, la misericordia di Dio. Oggi, forse, lo vediamo ancora più che nei tempi passati: se, sparsi in mezzo alla società, non ci fossero i cristiani, sulla terra si sentirebbe parlare solo e sempre di vendetta, di colpe, di lotte…

Il cristiano è proprio la persona adatta, quello che ci vuole, per mostrare a tutti che Dio è capace di avere misericordia e che la mette in atto. Se nel mondo non ci fossero i cristiani, l’uomo potrebbe pensare che Dio sia un nemico, uno di cui non ci si può fidare. È quello che, purtroppo, avviene e che si manifesta col sorgere di numerose sette e gruppi religiosi, che presentano un Dio distante dall’uomo; esse insegnano che l’uomo deve costruirsi da sé la salvezza, perché di Dio non c’è da fidarsi. Se nel mondo non ci fossero i cristiani, vivremmo tutti in questa situazione: disperati, cercando di costruirci da noi la nostra salvezza.

Rendiamo grazie al Signore per la vita di ogni cristiano: egli è quello che ci vuole per conoscere Dio così come egli è veramente!

Vorrei – se non oso troppo – chiamare il cristiano, che ha ricevuto lo Spirito Santo, il terzo ‘paraclito’ (il termine greco ‘paraclitos’ significa ‘chiamato vicino’); terzo dopo il primo, Gesù, e il secondo, quello che Gesù ha promesso di mandare dopo il suo ritorno al Padre (Cfr Gv 16,7-15): anche il cristiano, con lo Spirito Santo nel cuore, diventa consolatore, rivelatore di Dio, uno che guida alla verità. Diventa un assistente, un aiuto per l’uomo di oggi, che non conosce, non vede il vero volto del Padre. Per questo il cristiano, consapevole della sua missione, non può rinunciare a stare vicino all’uomo, non può rinunciare a stare nel mondo.

Gesù, pregando per i discepoli, aveva detto: “Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno” (Gv 17,15). I discepoli, dunque, possono e devono restare nel mondo, perché ne sono il sale e la luce; nel mondo essi sono la manifestazione del volto di Dio.

“Vi mando come pecore in mezzo ai lupi” (Mt 10,16),“Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” (Gv 20, 21); è come se Gesù dicesse: “Voi, cristiani, siete ‘buoni’ a realizzare la salvezza di Dio, siete adatti a portare la grande, bella notizia che Dio vuol bene ai peccatori”.

 

È lo Spirito Santo, che rende adatti gli uomini a risplendere dello splendore di Dio. Non basta, dunque, credere con la nostra mente, ma dobbiamo ricevere nel nostro cuore il soffio di Gesù, vivere in intimità con lui, lasciarci da lui trasformare.

Dovrebbe essere veramente fonte di grande gioia per noi sapere che lo Spirito Santo ci rende capaci e adatti a manifestare il Padre. Gesù aveva chiamato proprio così lo Spirito Santo: “Spirito di Verità” (Gv 16,13), colui che mette alla luce quello che è nascosto, il volto del Padre.

Lo Spirito Santo ci rende verità, ci rende testimoni dell’invisibile; fa di noi luce, manifestazione di Dio. In noi, nella nostra vita, si manifesta il Padre: diventiamo ‘sacramento’, cioè segno e strumento dell’amore di Dio per gli uomini, presenza del Dio buono, amico degli uomini; diventiamo pane per la forza e per la vita dell’uomo, vino per la sua gioia, acqua per la sua sete. Noi, ‘crestianoi’, adatti ad essere Dio nel mondo: una parola grossa, ma vera! Questo, naturalmente non per prendere il posto di Dio, ma perché attraverso di noi il mondo veda qualcosa di lui, ascolti la sua voce, gusti la sua dolcezza.

Il salmo canta: “Gustate e vedete quanto è buono il Signore” (Sal 34,9): quel ‘buono’ dall’ebraico è stato tradotto in greco proprio col termine ‘crestos’.

Ancora una volta: quale sarà il nostro compito?

Quello di ricevere lo Spirito Santo. Non dobbiamo fare niente altro, non dobbiamo cercare di essere buoni o di essere adatti, ma solo di ricevere lo Spirito Santo, allora diventeremo ‘adatti’ a manifestare il volto di Dio, capaci sempre di volere il bene dei nostri fratelli.

Noi sappiamo che colui che dona lo Spirito Santo è Gesù; è lui che lo soffia sui discepoli.

Cercheremo, allora, che la nostra vita sia tutta uno stare con lui; riceveremo il suo ‘soffio’, che ci trasforma e ci rende ‘adatti’ a quello che Dio vuole fare nel mondo, a guarire e salvare tutti gli uomini.

“Frutto dello Spirito è … benevolenza”.

 

  1. FRUTTO DELLO SPIRITO È BONTA’

 

“Frutto dello Spirito è…bontà” Questa parola, come le altre ad essa collegate: buono - bene, raccoglie diversi significati; può applicarsi alle persone, alle cose, ai fatti, alle intenzioni.

Dio ha creato tutto buono; nelle prime pagine della Bibbia leggiamo: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto buona” (Gen 2,31).

Tutto quello che è uscito dalle mani di Dio, cioè dal suo cuore, è molto buono, però l’uomo, allontanandosi da Dio, ha usato ciò che è buono con intenzioni, scopi, metodi egoistici, egocentrici. Così alcune realtà, che erano buone, perché Dio ce le ha date così, sono diventate strumento di male, di morte, di sofferenza.

Il concetto di buono, quindi, dopo il peccato, è diventato un concetto relativo a ciò che si cerca, a ciò che si desidera, a ciò che si vuol fare, a ciò che si crede di essere o di poter diventare.

Un esempio banale: il ladro ritiene buono il fatto di non venire scoperto; la guardia ritiene buono ogni indizio per scoprire il ladro. Così l’uomo materialista ritiene buono il contrario di ciò che ritiene buono l’uomo spirituale; chi vuol fare la volontà di Dio ritiene buone certe cose, mentre chi vuole vivere secondo i propri desideri e le proprie passioni, ritiene buono qualcos’altro: l’ateo ritiene buone certe realtà, che sono il contrario di ciò che ritiene buono il credente.

Le parole buono, bontà, bene, possono essere, dunque, termini ambigui, possono divenire un luogo di contraddizione e, qualche volta, causa di inganno; potremmo chiederci seriamente se non sia il caso di non adoperarle neppure…

 

Nelle prime pagine della storia biblica vediamo come Eva ritenne ‘buono da mangiarsi’ il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, di cui Dio aveva detto ad Adamo: “Non ne devi mangiare” (Gen 2,16): Dio non aveva detto che quel frutto non era buono, ma aveva dato chiara indicazione a suo riguardo. Eva lo ritiene ‘buono a mangiarsi’: per lei la parola ‘buono’ è stata un tranello. Anche noi, usandola, dovremmo prestare sempre molta attenzione; dovremmo sempre metterla in relazione a qualcosa o a qualcuno, su cui non si possa equivocare; qualche cosa o qualcuno che sia accolto con chiarezza come riferimento effettivo, un riferimento stabile e sicuro: ad esempio, buono agli occhi di Dio!

L’aiuto ci viene da Gesù.

Tre degli Evangelisti raccontano di un tale che gli pone una domanda; secondo Matteo è un giovane, secondo Marco semplicemente un tale, secondo Luca un notabile.

“Cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?” (Mt 19,16);

“Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?” (Mc 10,17);

“Maestro buono, che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?” (Lc 18,18).

Gesù non lascia passare il termine buono: vuole chiarire quale significato gli venga dato. Risponde: “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono” (Mt 19,17); “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo” (Mc 10,18); “Perché mi dici buono? Nessuno è buono, se non uno solo, Dio” (Lc 18,19).

È grave questa affermazione: “Nessuno è buono, se non Dio solo”. Significa che il termine buono, in senso assoluto, lo si può attribuire solo a Dio; e non a un dio qualunque, ma a quello dell’Alleanza, al Dio che ha parlato a Mosè, al Dio che ha dato i comandamenti. Per questo Gesù, rispondendo, dirà subito: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti” (Mt 19,17), e ne offre un elenco: proprio perché sia chiaro e preciso il punto di riferimento. Gesù, prima di dire a quel tale cosa debba fare per avere la vita eterna, vuole orientarlo a Dio, a quel Dio preciso che è entrato nella storia dell’uomo. Gesù non nega di essere buono, ma precisa: egli è buono, perché è in rapporto con Dio. A lui si può dare il titolo di buono, perché proviene da quel Dio che è entrato nella storia degli uomini per amarli.

Se, dunque, ‘quel tale’ dà a Gesù il titolo di ‘buono’, deve essere cosciente delle conseguenze che ne derivano.

Se lo chiama: “Maestro buono”, vuol dire che crede che Gesù viene da Dio, e che perciò ha parole, insegnamenti - è maestro - che sono di Dio. Dovrà, allora, essere pronto a prendere sul serio le parole di Gesù, ad obbedire ad esse, con fiducia e abbandono, proprio come a parole di Dio.

Gesù non rifiuta il titolo di buono, ma lo accetta nella sua pienezza: ““Se sono buono, è perché sono unito a Dio, quindi tu sarai disposto a fare quello che ti propongo””.

 

Dio solo è buono; la bontà è la qualità di Dio. Anche qui dobbiamo fare attenzione, chiarezza.

Dio è buono, perché è Dio, cioè Dio è la bontà: qualunque cosa egli dica, qualunque cosa egli faccia, essa è buona, perché la fa lui, perché la dice lui.

Se dicessi: “Dio è buono, perché perdona, perché ama, perché compatisce”, io riterrei buono il perdono, la compassione, l’amore; in questo caso sarei io a giudicare Dio come buono, perché trovo in lui le qualità che mi sono gradite. In questo modo io mi farei giudice di Dio. Naturalmente sarei gravemente fuori strada, potrei arrivare addirittura a dire: “Ah no, oggi Dio non è buono, perché non ha fatto quello che pensavo io”.

È importante l’affermazione di Gesù: “Dio solo è buono”; non spetta a me giudicare la bontà di Dio, ma è la bontà di Dio, che giudica i miei pensieri, i miei sentimenti, la mia volontà.

Dio è buono, perché è Dio, non perché mi piace, non perché fa quello che mi è gradito.

Tutto ciò che è di Dio, e di questo Dio particolare, reale, che è entrato nella storia, a colloquio con gli uomini, attraverso Mosè, tutto ciò che è di Dio è buono; ed anche Gesù, in quanto viene da lui ed è la sua manifestazione, è buono.

Ciò ha delle conseguenze importanti e serie: l’uomo non potrà andare in cerca di ciò che è buono, perché rischierebbe di confrontare le cose, le persone, le situazioni con se stesso, con i propri desideri, giungendo così anche ad ingannarsi ed allontanarsi da Dio. È appunto quello che è accaduto a Eva: ella cercava “ciò che è bene e buono a vedersi, ciò che è bello a vedersi e buono a mangiarsi” e così, appunto cercando ciò che è buono, si è allontanata da Dio, dal Padre.

 

Noi, dunque, dovremmo cercare sempre ciò che viene da Dio.

Ed egli è intervenuto nella nostra storia, proprio perché potessimo riferirci a lui in maniera immediata e concreta. Noi, così, possiamo conoscere ciò che è di Dio, ciò che viene da lui ed è sua manifestazione ancora di più di quanto lo sia stato Mosè; cercherò ciò che viene dal Padre di Gesù.

Da qui la necessità della contemplazione come attenzione amorosa ai movimenti di Dio, alle sue azioni, ai suoi gesti, ai suoi interventi nella storia; di qui, ancora, la necessità dell’ascolto della Parola di Dio come anche Gesù l’ha proposto a ‘quel tale’: “Conosci i comandamenti?”. E, infine, la necessità del confronto coi fratelli, perché l’ascolto sia più preciso, la contemplazione più netta e, in esse, io non corra il rischio di ingannarmi, giungendo addirittura a giudicare Dio. Sarà lui, la sua Parola, il suo modo di fare, a guidarmi, a giudicare me stesso, le mie parole, le mie azioni.

Gesù, chiedendo a quel tale “Tu conosci i comandamenti?”, lo ha subito orientato alla Parola di Dio.

Anche noi dobbiamo metterci decisamente alla ricerca della Parola di Dio, del regno di Dio, della volontà di Dio, perché questo è buono, questo è il bene.

Tutto ciò che Dio ha fatto è buono; noi, quindi, resteremo con lo sguardo rivolto a lui.

In questo atteggiamento sta il segreto della nostra conversione. Quando, infatti, noi cerchiamo il bene, corriamo il rischio di seguire ciò che ci piace, ciò che soddisfa le nostre passioni, il nostro egoismo, la nostra disobbedienza, come ha fatto Eva; restiamo rivolti a noi stessi, in un atteggiamento egocentrico, e così ci costruiamo la nostra infelicità. Quando, invece, cerchiamo solo ciò che è di Dio, ciò che viene da lui, stando nell’ascolto, nella contemplazione, non possiamo essere ingannati: troveremo la sua volontà, la sua Parola.

La troveremo in Gesù, il Figlio mandato dal Padre per farcela conoscere, per donarcela. E Gesù lo vediamo crocifisso. Guardando Gesù in croce, non potremo rimanere ingannati: sulla croce, infatti, contempliamo la manifestazione di Dio in modo così concreto, così chiaro e immediato; vediamo tanto chiaramente quale sia la natura del nostro Dio, da non poter più lasciar spazio ad altre immagini di lui. Gesù in croce toglie all’uomo ogni possibilità di deviare verso il dio della ragione o verso il dio dei poteri magici, verso il bene egoistico.

Gesù in croce resta il punto di riferimento sicuro per la contemplazione di Dio che è bontà.

Per questo San Paolo insiste nelle sue lettere: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristi” (Gal 6,14), “Noi predichiamo Cristo crocifisso” (1Cor 1,23).

Gesù è il Maestro Buono, perché non porta a cose buone, ma porta al Padre.

 

Potremo ancora usare i termini: buono, bontà, bene, ma con attenzione. Anche gli apostoli, nelle loro Lettere, li usano spesso, sapendo che sono riferiti alla volontà di Dio Padre, alla volontà di Gesù, al suo Regno, e sapendo che anche chi le legge li comprende in tal senso.

Ogni epoca e ogni ambiente ha i suoi rischi e i suoi pericoli; a me sembra che la mentalità secolarizzata in cui viviamo oggi, mentalità egocentrica, spesso anche gnostica - mentalità individualistica, che si diffonde insieme all’ignoranza del Vangelo - deve farci attenti: non solo il termine bene e bontà, ma addirittura il termine Dio può venir frainteso. Per qualcuno, o per qualche gruppo - gli gnostici appunto - Dio è il dio della ragione.

Gesù fa chiarezza. La fede cristiana non è fede in Dio; non è sufficiente, per il cristiano, dire: credo in Dio. Nella sua preghiera al Padre, infatti, Gesù non dice semplicemente: “Perché credano in Dio o credano in te”, ma: “conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato.” (Gv 17, 3).

La fede cristiana è credere nel rapporto che c’è fra Gesù e il Padre, credere che Gesù è il mandato da Dio; guardando Gesù, uomo concreto, la conoscenza di Dio è sicura.

A causa, dunque, della mentalità diffusa e di questa confusione riguardo al termine Dio, io non userei i termini ‘buono, bontà e bene’, se non in riferimento preciso a Dio Padre, a Gesù e allo Spirito Santo; un riferimento esplicito, non sottinteso. Dando tutto per sottinteso, anche Dio, per molti, ha perso il suo volto: non è più il Dio Padre di Gesù.

Bol termine ‘bene’, dunque, intenderemo sempre l’obbedienza a Dio Padre, l’attenzione alle sue Parole. Porremo attenzione che anche chi ci ascolta intenda così, e non ritenga, invece, di poter giudicare il bene con la propria intelligenza, e quindi con la propria esperienza, egoista ed egocentrica.

 

Bontà, dunque, è Dio stesso, ma quel Dio che è il Padre di Gesù. Possiamo allora dire, che frutto dello Spirito Santo, frutto della sua presenza in noi e nella comunità cristiana, è ‘bontà’; è, cioè, la vita stessa di Dio Padre che si fa presente dentro l’uomo, dentro la comunità.

Quando lasciamo operare in noi lo Spirito Santo, diventiamo bontà: abbiamo, verso gli uomini e verso il creato, gli stessi atteggiamenti, gli stessi modi di fare del Padre.

La nostra bontà sarà la vita di Dio in noi, il suo amore che si esprime nei vari aspetti di misericordia, fermezza, dolcezza, serietà… Sapremo valutare e usare le varie realtà e avvenimenti in vista del Regno di Dio, e non solo di una vita puramente materialistica.

“Frutto dello Spirito è bontà”: grazie a questo frutto dello Spirito divento partecipe di Dio, che vive in me.

In maniera ancora più completo sarebbe da dire: ‘“Lo Spirito Santo mi rende partecipe del Corpo di Cristo crocifisso, manifestazione dell’unico Dio, del Dio vivente’”.

Portando la bontà di Dio, cioè la vita di Dio in me, lo Spirito Santo mi comunica anche la sua luce, lo sguardo del Padre e del Figlio; mi rende, così, capace di discernere il bene dal male, cioè ciò che è da Dio da ciò che non lo è; di discernere ciò che è bene e male, non per me, ma “ai suoi occhi”.

Questo discernimento diventa, poi, fare ciò che a lui è gradito, come dice San Paolo: “Fate ciò che è gradito al Signore”; ci porta a evitare ciò che rattrista lo Spirito Santo, perché questo è ‘il male’.

Ciò che Dio ha creato, ciò che è uscito dalle sue mani è tutto buono, ma, se viene afferrato dal maligno, se viene usato dal diavolo, cioè da colui che divide, allora cessa di essere buono: ecco perché si fa così necessario esercitare il discernimento dello Spirito.

Potremo riassumere così: io sono buono, quando sono orientato dal Padre, quando le mie azioni e i miei pensieri vengono da lui oppure quando sono orientato al Padre di Gesù, quando le mie azioni e i miei pensieri portano a lui.

Gesù rimane sempre il riferimento di ogni bontà, l’unico riferimento sicuro, e lo Spirito Santo la fonte della bontà e della luce per discernere ciò che è da Dio da ciò che non è da lui.

 

Noi, dunque, non cercheremo la bontà, non cercheremo di essere buoni; come abbiamo già fatto riguardo agli altri frutti, cercheremo lo Spirito Santo, cercheremo di restare in lui, nello Spirito di Gesù crocifisso.

Così, naturalmente, come suo frutto, ecco la bontà, ecco, cioè, la nostra immedesimazione nel Dio dell’amore, in tutti i suoi aspetti di misericordia, comprensione…

Potremo leggere il salmo 34: “Gustate e vedete quanto è buono il Signore” (Sal 34,9); saremo aiutati a rimanere riferiti a Dio e a vedere lui solo come sorgente della bontà, del bene, di ciò che è buono. Egli, infatti, è buono, in ogni circostanza, sempre, qualunque cosa faccia o dica.

“Frutto dello Spirito è … bontà”.

 

 

  1. Frutto dello Spirito è fedeltà

 

Il termine greco ‘fedeltà’ è lo stesso che si usa per ‘fede’; nell’elenco dei frutti dello Spirito che stiamo considerando, però, pare più adatto tradurlo con: ‘fedeltà’. “Frutto dello Spirito è fedeltà”. La parole ‘fedeltà’ e ‘fede’, comunque, le troveremo spesso connesse: la radice spirituale da cui provengono è la stessa.

Il termine greco comprende una molteplicità di significati, di sfumature, di atteggiamenti; questo perché indica un modo di vivere dell’uomo, e la vita, a seconda delle situazioni, presenta aspetti diversi.

Il modo di vivere del cristiano è diverso da quello dell’uomo non cristiano. L’uomo non ancora evangelizzato, che, cioè, non conosce ancora Dio Padre e non conosce Gesù, vive orientato alle realtà create, diremmo che è materialista. Veramente anche noi cristiani siamo inclini a vivere in questo modo, immersi nel mondo materiale; siamo portati ad appoggiarci sulle sicurezze che noi stessi ci procuriamo o crediamo di doverci procurare, ed essere anche in grado di procurarci. Ci appoggiamo sulle amicizie, e ne cerchiamo sempre di nuove e più profonde; ci appoggiamo su contratti, patti, alleanze, ed anche su ricchezze, denaro, beni. Tutto questo perché sentiamo che la nostra vita è precaria ed avvertiamo il bisogno di qualcosa fuori di noi – cose, persone, situazioni o abitudini – che ci doni sicurezza. Sperimentiamo, però, che tutte queste realtà, essendo passeggere o limitate, ci tengono sempre un po’ sospesi, nell’incertezza. Le ricchezze, i contratti e anche le amicizie possono finire; nonostante ciò, però, noi continuiamo a cercarne, e sempre di più… direi quasi in maniera insaziabile.

Perché questo? Perché l’uomo vive in questa continua incertezza e insicurezza?

Perché ha lasciato ‘la sicurezza di Dio’.

E quando l’ha lasciata?

Adamo… Noi diamo la colpa ad Adamo, ma, in realtà, anche noi continuiamo a lasciare ‘la sicurezza di Dio’, quella che viene dalla sua persona, dalla sua parola, dalla fiducia in lui.

L’uomo naturale non vede Dio, soprattutto non vede che Dio è papà, non vede il Padre, perciò non riesce a fidarsi. Potremmo dire così: noi siamo infedeli alla presenza invisibile di Dio. Anche se sappiamo che Dio esiste, abbiamo difficoltà ad appoggiarci su di lui, a fidarci di lui. Al contrario, Dio è sempre, costantemente, rivolto all’uomo. Come diciamo nei salmi, egli “Si china dal cielo per vedere se c’è un uomo saggio che cerchi Dio”, “Segue con amore il tuo cammino”. Con una parola potremmo dire: Dio è fedele alla sua creatura. È fedele a me, è fedele a ogni uomo; il suo sguardo ci segue sempre con la sua tenerezza. Egli è sempre attento alla nostra vita, potremmo dire persino così: il Padre ci tiene sempre in braccio.

Pensiamo a un papà o a una mamma con il loro bambino in braccio: quando questo si dimena, e vorrebbe scappare, il papà, la mamma lo tiene con maggiore forza e maggiore attenzione.

Dio Padre lo possiamo vedere proprio così: fedele alla nostra vita, alla nostra esistenza, frutto e dono del suo amore. Egli vuole attirare il nostro sguardo per far sì che noi possiamo ancora riposare, trovare pace; vuole che giungiamo ad uno stato di serenità, di benessere interiore. Vuole attirarci continuamente a sé, vuole che ci appoggiamo su di lui, perché possiamo trovare la nostra vita, in pienezza. Vuole salvarci dall’inganno in cui siamo caduti, cioè dalla ricerca di sicurezze passeggere e limitate; usando un’unica parola, Dio vuole la nostra salvezza.

 

La risposta che noi diamo a queste sollecitazioni di Dio, a questo suo amore, la chiamiamo fede: essa è un prendere sul serio la fedeltà di Dio.

Fedeltà e fede: unico frutto dello Spirito Santo! Il termine greco raccoglieva il significato di ambedue queste parole.

La fede è prendere sul serio l’amore del Padre, è appoggiarsi alla sua fedeltà, e così giungere al riposo. Fede non è, dunque, un qualcosa che noi possiamo tenere in tasca o in qualche parte nel nostro cervello; è una vita nuova, che nasce in noi, quando ci accorgiamo di Dio, e che Dio è papà, e lo prendiamo sul serio. La fede è una vita nuova!

L’uomo che si fida della fedeltà di Dio comincia davvero a vivere in un modo diverso; e la diversità la vive innanzitutto nel proprio cuore, che trova finalmente pace, riposo.

Fede, ancora, non è soltanto credere che Dio c’è, che Dio esiste - questo lo credono anche i demoni! -. Vera fede è credere che Dio c’è per me, che esiste per me: io lo accolgo, tengo conto di lui; tengo conto di quello che egli fa per me.

La fede, potremmo dire allora, non esiste, nessuno l’ha mai incontrata! Esiste l’uomo fedele, l’uomo che crede, che si appoggia sulla fedeltà di Dio.

 

Come ogni vita, l’atteggiamento di fede conosce una crescita: può coinvolgere sempre maggiormente le situazioni della vita dell’uomo. La crescita può essere lenta o più veloce; ha delle conseguenze pratiche, che la manifestano anche esteriormente: come ti accorgi che un bambino cresce, perché devi allungargli i pantaloni, così ti accorgi che la fede cresce: una fede sperimentata, avanzata, riesce a compiere atti diversi da quelli di una fede ‘bambina’, appena iniziata.

La fede, cioè questa vita dell’uomo fedele, può incontrare degli ostacoli, dei pericoli; essi vengono chiamati ‘scandali’: cercano di impedire il nostro appoggiarci al Padre, per farci nuovamente ripiegare sulle nostre false sicurezze. Ancora, la fede può subire dei rallentamenti, può avere dei cedimenti o delle incertezze, delle debolezze, dei momenti di crisi.

Questa vita ‘di fede in fedeltà’ necessita di esercizio: occorre esercitarla praticamente, altrimenti… sarebbe come se non ci fosse! Ha bisogno di perseveranza; ha bisogno di una certa forza interiore; necessita di aiuti, che possono venire anche dall’esterno, da altri, da esempi, da incoraggiamenti.

È una vita che si concluderà con la nostra morte - speriamo non prima! -, quando ormai non avremo più bisogno di credere, perché saremo nelle braccia di Dio!

La fede è, dunque, il cammino dell’uomo che, conosciuta la fedeltà del Padre, comincia a fidarsi di lui, e cresce in questa fiducia; è una vita poggiata sull’amore di Dio, con perseveranza, con continui atti di abbandono e di fiducia, con fedeltà!

 

Come possiamo riconoscere se stiamo vivendo una vita di fede? Lo riconosciamo dal nostro saperci abbandonare a Dio; dal nostro non cercare più la nostra vita, la nostra pace, la nostra salvezza in noi stessi, nelle nostre opere, nelle nostre forze, nemmeno nelle nostre conoscenze.

Se nella nostra vita avvertissimo ancora il bisogno di qualcosa, ciò significherebbe che non siamo ancora giunti alla salvezza.

Ma cosa è ‘salvezza’?

È vita, è vivere veramente; è vivere come uomo vero, come figlio di Dio. Sono uomo vero, infatti, quando sono figlio di Dio. Il figlio di Dio non cerca più la vita in sé stesso, ma in quel Dio che continua a venirgli incontro, in quel Dio che ha già agito nella sua vita, e che continua ad operare per lui.

Ecco, dunque, un’altra caratteristica della vita di fede: essa è sempre nuova. Io mi fido del Padre, di quello che egli ha già fatto e di quello che continuerà a fare: sono sempre aperto a quello che viene, al Dio che viene, a ciò che egli prepara per me. Dio si era presentato proprio così, come: “Colui che era, che è e che viene”.

Egli è colui che continua a venire, perciò io non mi appoggio su ciò che egli ha già fatto, ma su di lui, su Dio stesso, che sta continuamente venendo. Sarò sempre pronto, e sarà pronto sempre alla sorpresa! Sì, perché il Dio che è venuto posso conoscerlo, ma il Dio che viene può avere delle novità da portare nella mia esistenza.

Fede è anche questa fedeltà al Dio che viene. Mi appoggio su di lui, che è Padre. Ho fiducia in lui. Mi abbandono a lui. Fede è sicurezza, perché già conosco ciò che Dio ha fatto per me; fede è anche fiducia per ciò che il Dio che viene potrà dirmi o chiedermi.

Ecco, appoggiarsi sul Padre, aver fiducia in lui è l’atteggiamento vero dell’uomo: egli è stato creato per essere così.

E quando giunge a ciò, è nella pace.

 

“Tutto ciò che non proviene dalla fede è peccato” (Rm 14,23): questa espressione di S. Paolo risuona piuttosto forte, almeno per la nostra mentalità. Come dobbiamo comprenderla?

Il termine ‘peccato’, nel modo in cui lo usa qui San Paolo, non indica semplicemente una ‘colpa’, ma vuol intendere tutta una situazione: l’essere fuori strada, non vivere ancora in quella pienezza per la quale Dio ci ha creati; trovarsi ancora nella tenebra, in una situazione di insicurezza, e quindi di non pace. Tutto ciò che non proviene dalla fede, tutto ciò che non è affidamento al Padre, vita abbandonata a lui; tutto ciò che non è appoggiato su di lui, è peccato; è, cioè, un trovarsi ancora fuori dalla strada, fuori dalla pienezza, che il Padre ha preparato per noi; è manifestazione di una vita monca, non piena, morta; è, quindi, inganno, ritorno alla tenebra; porta lontano dal Padre: non è verità.

 

Il Dio fedele, su cui possiamo appoggiarci, al quale noi possiamo essere fedeli, non è un Dio sconosciuto, ma è colui che ha agito nella vita, nella morte e nella risurrezione di Gesù.

È un Dio di cui conosciamo molto mai potremmo dire tutto! perché, come dice Gesù, “Chi vede me vede il Padre”.

La nostra fedeltà, la nostra vita di fede, frutto che lo Spirito Santo porta e fa crescere in noi, è basata sulla conoscenza dell’opera di Dio, di quello che Dio ha fatto. Essa è, dunque, un atto della nostra intelligenza, ma non è solamente questo.

Noi crediamo, perché vediamo l’opera di Dio nella vita di Gesù. È il conoscere Gesù, la nostra fede!

Noi ci possiamo fidare di Dio Padre, perché lo abbiamo visto operare, lo abbiamo visto esser fedele nella vita di Gesù. Abbiamo visto il suo volto nella vita, passione, morte e risurrezione di Gesù.

San Paolo chiama “deposito della fede” i fatti avvenuti nella vita di Gesù: sono i fatti che manifestano l’amore, la realtà, la presenza e la fedeltà del Padre e, ancora, sono i fatti che ci comunicano il suo Spirito.

Li chiamiamo: deposito della fede; per questo noi diciamo che ci fidiamo di Dio Padre, ci fidiamo di quel Dio che ha agito nella vita e nella storia di Gesù. Questo deposito della fede è il materiale concreto su cui si fonda la nostra fedeltà a Dio. La conoscenza di questo deposito della fede, l’accoglienza di esso, è credere, è fede.

Per questo noi chiamiamo il Credo - con il quale proclamiamo questi fatti -, professione della nostra fede.

Ora, quando accogliamo la vita di Gesù, cresce in noi la fiducia nel Padre, l’abbandono a lui; inizia addirittura il nostro inserimento nell’offerta di Gesù. Anche la nostra vita entra, allora, a far parte di quel deposito della fede, perché anche nella nostra vita, offerta come quella di Gesù, si manifesta l’opera del Padre.

La nostra fede, cioè la nostra vita che continua ad appoggiarsi sul Padre, diventa, così, perseveranza, fedeltà o, usando l’espressione di Gesù, diventa “rimanere in lui”.

Ed è proprio in questo rimanere in Gesù, nell’osservare la sua Parola, che la nostra fede si rivela autentica

Essa diventa obbedienza - San Paolo userà proprio questa particolare espressione: “L’obbedienza della fede”.

Tutta questa vita è avvolta dalla gioia, perché la fede fa nascere speranza; una speranza che è certezza che quel Dio, sul quale ci appoggiamo, ci sta portando alla pienezza della vita.

E questa certezza, già questo fidarmi di lui oggi, mi dà pace, una pace che è caparra di quella pace piena, che mi sarà data quando il mio fidarmi e il mio abbandonarmi al Padre sarà completo.

 

Frutto dello Spirito è fede ed è fedeltà; non so più quale parola adoperare: frutto dello Spirito è fede, fiducia nella fedeltà di Dio, e diventa mia fedeltà dentro la mia fede, dentro la mia fiducia in lui.

Dio è fedele alle sue promesse, al suo essere Dio-Amore. È fedele al suo voler dare la propria vita alla sua creatura, anche a chi, purtroppo, è uscito dalla relazione d’amore con lui.

Egli è fedele sempre, e mostra e realizza la sua fedeltà in Gesù, il Salvatore.

 

Riassumendo potremo ora contemplare, dentro la nostra stessa vita, l’opera dello Spirito Santo.

Egli, Spirito del Padre, Spirito che viene a noi dalla bocca di Gesù, porta frutto anche in me, anche in noi. Ci porta a una fede fedele, porta fedeltà nella fede, porta fede nella fedeltà di Dio.

Per opera dello Spirito Santo incontriamo continuamente il Padre, sulla Via che è Gesù incarnato, crocifisso e risorto. La vita, la morte e la risurrezione di Gesù sono l’oggetto della nostra fede, del nostro credere; ci manifestano la fedeltà di Dio e sono sostegno alla nostra fedeltà. Per opera dello Spirito Santo rimaniamo stabili, perseveranti nel cammino di Gesù; crediamo in lui come Via sicura, come Pastore vero, come guida fedele, che ci porta alla meta, che ci porta al Padre. Per opera dello Spirito Santo riusciamo a superare le difficoltà che si incontrano nella vita: la fatica, la malattia, l’invecchiamento, la morte.

Queste situazioni possono rendere difficile il nostro credere, perché tentano di portarci ad appoggiarci nuovamente a noi stessi, a quello che siamo noi o alle cose di questo mondo.

Queste difficoltà, per opera dello Spirito Santo, non diventano ostacolo, scandalo, ma si trasformano in prove in cui possiamo esercitare la fedeltà della nostra fede in Gesù, oppure diventano occasioni per crescere nella fede, nella fedeltà o, ancora, ci arrecheranno la grazia di percorrere anche noi la stessa strada di Gesù, la strada dell’umiliazione, dell’abbassamento, del servizio; la strada dell’offerta di sé, della croce, dell’abbandono al Padre.

Se in queste difficoltà sapremo rimanere fedeli al Signore, egli potrà fare anche della nostra vita un segno del suo amore fedele. E quando la fedeltà di Gesù ci coinvolgerà totalmente, noi stessi potremo diventare splendore della croce di Gesù, luce della sua Gloria. La fedeltà di Dio all’uomo, agli uomini di oggi, potrà concretizzarsi anche nella nostra storia, e noi diventeremo un dono per i fratelli, per i peccatori - peccatori non nel senso che abbiano combinato chissà che cosa, ma nel senso che non vedono ancora la strada che porta al Padre. Saremo per loro un aiuto, affinché possano trovare la strada che li conduce ad appoggiarsi sul Padre, e quindi alla vita, alla pace: alla salvezza.

 

“Frutto dello Spirito è fedeltà”. Ringrazieremo sempre il Padre e Gesù per lo Spirito Santo e, oltre a ringraziare, sempre lo cercheremo. Il modo sarà semplice: rimarremo sotto l’influsso di Gesù; egli, infatti, è colui che, risorto, continua ad alitare lo Spirito su di noi. Cercheremo tutti i giorni un momento di silenzio per stare alla sua presenza; non avremo neppure bisogno di parole: basterà anche rimanere davanti a lui nella quieta consapevolezza che egli sta soffiando su di noi lo Spirito Santo, il suo amore. Sperimenteremo, così, che in noi cresce la fedeltà; crescono la nostra fede e la consapevolezza della fedeltà di Dio. Sperimenteremo che egli si serve di noi per farci segno, dono per i fratelli: attraverso questo nostro ricevere lo Spirito Santo, infatti, diverremo sempre più Corpo di Cristo, verremo sempre più uniti, inseriti in lui, che ha detto: “Chi rimane in me porta molto frutto”, anche il frutto della fedeltà!

“Frutto dello Spirito è … fedeltà”.

 

  1. Frutto dello Spirito è mitezza

 

Vi sono persone miti di natura; esse manifestano anche un po’ di timidezza, un certo timore o incapacità di reagire, una costante arrendevolezza. Al contrario ve ne sono altre che si sentono superiori a tutto quello che viene fatto o detto. Ci sono, poi, persone che sanno prendere tutto con filosofia; la loro mitezza è solo apparente, potrebbe essere anche frutto di orgoglio. La mitezza è dote naturale o conquista dell’uomo? Sarebbe una mitezza alquanto dubbia, facile anche a venir meno.

La parola ‘mite’, ‘mitezza’, nell’Antico Testamento e nel linguaggio dei pagani religiosi, non è mai attribuita a Dio. È difficile che la mente umana si raffiguri un Dio mite; pensa, piuttosto, un Dio potente, un Dio che sta sempre sopra a tutti. Cos’è, dunque, la vera mitezza, quella che è frutto dello Spirito? Il termine greco usato da San Paolo si potrebbe tradurre anche con ‘dolcezza’.

Non è né una dote di natura né una virtù umana, ma è la conseguenza di un giusto rapporto con Dio.

Essa è un modo di vivere conseguente alla fede, conseguente al credere che Dio c’è, che Dio c’è per me, che Dio è mio Padre; ed è sempre accompagnata dalla speranza e dalla carità.

La persona che crede alla presenza del Padre, di Dio come papà, così come Gesù ce lo fa conoscere, vive nella pace, perché sa che tutto ciò che succede è nelle Sue mani. Anche agli occhi degli uomini appare una persona tranquilla, che non se la prende per nulla, che non perde la pace, non reagisce con violenza: sa di non doversi difendere da sé, di non dover conquistare tutto con le proprie forze; sa di essere nelle mani di un Padre. Il suo vivere con mitezza ha origine da questa fede.

Vivere così qualche volta costa; può, infatti, riuscire difficile e molto faticoso dominare l’istinto naturale che ci porta a difenderci o a preoccuparci. La fede nella presenza e nell’amore del Padre, però, ci aiuta: è questa che ci tiene miti, mansueti, dolci. Un monaco – sappiamo quanto questo atteggiamento sia loro caro! – scrive: “La preghiera – il nostro rapporto con il Padre - è germoglio di mitezza e di dolcezza”.

 

Nel nostro passato, recente e remoto, troviamo sempre qualcosa di non adeguato a Dio, al suo amore; qualcosa che ci porterebbe, e talvolta ci porta, ad essere inquieti. Chi, però, crede nell’amore di Gesù per il Padre e nell’amore del Padre per Gesù, chi accoglie veramente l’amore del Padre nel dono del suo Figlio Gesù, sa che questi è morto per lui, sa di essere redento dal suo sangue, il cui valore, davanti al Padre, è infinito: questa fede gli dà serenità anche riguardo al suo passato, e questa serenità gli dà dolcezza anche nel suo rapporto verso gli altri.

La redenzione di Gesù, naturalmente, vale anche per i peccati dei nostri fratelli. Sapendo questo, noi non ci mettiamo sopra di loro, neppure li giudichiamo né li condanniamo né gli schiacciamo.

Chi crede nello Spirito Santo, il Paraclito, il Consolatore, colui che ci sta vicino e ci assiste, nutre fiducia anche riguardo al futuro; non si preoccupa, non si turba per ciò che avverrà domani.

Da questa fede nella presenza del Padre, nell’opera redentrice di Gesù e nell’assistenza dello Spirito Santo, nasce quell’atteggiamento di fiducia, di pace, di non violenza, di non dominio degli altri; quell’atteggiamento di dolcezza, atteggiamento di umiltà, che chiamiamo mitezza o mansuetudine.

 

L’uomo mite lascia agli altri la loro libertà, lascia spazio alla presenza dei fratelli: sa che quel Dio, che esiste per lui, esiste anche per loro; sa che il Padre può adoperare la presenza dei fratelli anche per sé: per santificarlo, per correggerlo, per amarlo o per chiedere amore; rimane, quindi, umile davanti ai fratelli, non li vuole in nessun modo dominare.

Se qualche volta non interviene, non è perché non sappia intervenire, ma è perché sa lasciare posto a Dio. È presente, disponibile, sveglio, ma lascia il posto principale a Dio, lascia agire lui nei rapporti con i fratelli. La mitezza è, quindi, frutto della fede nella presenza del Signore, è opera dello Spirito Santo in noi. Non è conquista, non è frutto del nostro sforzo; questo, anzi, metterebbe in noi tensione, che comunicheremmo anche agli altri.

A qualcuno questo atteggiamento potrebbe apparire indifferenza, come un non essere presenti, oppure un essere eccessivamente arrendevoli… Chi vive così, invece, e si rapporta a Dio continuamente, deve esercitare grande energia, per dominare gli impulsi che vorrebbero portarlo a preoccuparsi o mettersi al di sopra degli eventi o a condurli.

Papa Giovanni XXIII, a questo riguardo, ha detto una frase molto eloquente: “Mi prendono per un minchione, ma invece...”. Davvero, quando si guarda una persona mite, non si immagina nemmeno quanto lavoro le costi permettere a questo frutto dello Spirito di esprimersi nella sua vita! Il suo non è un vivere senza spirito di iniziativa, un mancare di capacità, un essere passivo; è, invece, il vivere di chi, nella fede, ubbidisce a Dio che ci dice: “Non opporti al malvagio”. Quanta forza comporta questo!

San Paolo scrive: “Non angustiatevi per nulla” (Fil 4, 6); anche questo atteggiamento è proprio del mite. Ed anche questo non angustiarsi, soprattutto in qualche occasione, comporta notevole impegno e fatica, grande capacità di abbandono. Ci viene in aiuto proprio Gesù, dicendoci: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29); egli ci invita a metterci alla sua scuola, a imparare da lui questa mitezza, vissuta da lui pienamente, dono dello Spirito Santo.

Prendere su di sé il giogo di Gesù può intendersi in due modi: il primo, lasciarsi guidare da Gesù - è lui che tira le redini attaccate al giogo -; il secondo, mettersi sotto lo stesso giogo sotto il quale c’è Gesù. Ricordo che, quand’ero bambino, sotto il giogo si mettevano due animali appaiati, o anche uno solo; ciò dipendeva dalla larghezza della strada per cui bisognava passare o da quanti animali il contadino poteva disporre. Portare il giogo di Gesù significherebbe camminare al fianco di Gesù, tirare con lui, far fatica con lui. Lasciarsi guidare, quindi ubbidire a Gesù, oppure mettersi insieme a lui a tirare il carro, far la stessa fatica che fa lui: entrambi i significati dell’immagine sono molto forti; e, in fondo, si equivalgono: prendere il giogo di Gesù vuol dire ubbidirgli, fare quello egli fa, fare quello che egli dice.

La grazia riservata ai miti è poi ricevere la rivelazione del Padre. Lo dice Gesù, quando prega: “Ti benedico, o Padre, ... perché hai rivelato queste cose ai piccoli” (Mt 11,25); qui, per piccoli si vuole indicare gli umili, le persone che sanno ubbidire e lasciare lo spazio a Dio.

A queste persone si rivela il Padre: la loro vita sarà riempita dal suo manifestarsi.

Un altro dono è riservato ai miti: essi erediteranno la terra. “Beati i miti, perché erediteranno la terra” (Mt 5,5): poiché dipendono dal cielo, essi si trovano bene sulla terra! Questa, per loro, diventa ‘paradiso terrestre’, ‘terra promessa’; ovunque si trovino, essi si sentono come a casa: non sono attaccati alla terra, dipendono dal cielo; si lasciano guidare dal Padre, danno a lui tutta l’importanza. Ciò che vale, per loro, sono le sue parole: le parole della terra metterebbero preoccupazione, ansia, inquietudine; comunicherebbero volontà di difendersi da soli; le parole del cielo, invece, mettono pace e gioia, comunicano la capacità di vivere sulla terra come in cielo.

 

Un’immagine è divenuta simbolo del Messia, del Figlio di Dio, e quindi anche di coloro che sono suoi, che prendono vita da lui. È l’immagine dell’agnello mite, che non apre bocca, che non si lamenta, non si difende. È una delle immagini più usate riguardo a Gesù: prima dai profeti, e poi soprattutto da Giovanni Battista, quindi da Gesù stesso; poi ancora dagli apostoli, nelle Lettere e nell’Apocalisse. Il Figlio di Dio è l’Agnello mansueto, che viene condotto al macello, l’Agnello sgozzato. Come agnello, Gesù, mite e umile, non pensa a difendere se stesso. E Gesù manderà i suoi discepoli nel mondo “come agnelli in mezzo a lupi”; egli li vuole proprio così, i suoi discepoli, li vuole come lui; vuole che essi continuino nel mondo la sua presenza di agnello; di agnello che si lascia sgozzare, che si lascia maltrattare. I discepoli di Gesù saranno riconosciuti anche da questa caratteristica, dalla loro mitezza: essi lasciano a Dio la propria difesa, abbandonano al Padre la propria vita. E in questo modo diventano testimoni: nella loro vita si può manifestare Dio, si può manifestare la sua presenza operante.

È quanto leggiamo nel dialogo tra il Signore e San Paolo, quando questo chiede di essere liberato da qualche sofferenza: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze ... quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,9-10). Consegnando al Padre la propria debolezza, S. Paolo gli lascia lo spazio per manifestarsi nella sua vita.

Neanche noi, discepoli di Gesù, dobbiamo preoccuparci di farci vedere forti, potenti, più grandi, più numerosi, più belli degli altri; non è in questo che fa bella figura il Signore! Dobbiamo essere quel che siamo: poveri, semplici, umili. Solo così Dio può trovare in noi spazio per manifestare la propria presenza, con potenza.

A questo proposito San Paolo ha anche una bella immagine: noi portiamo “un tesoro” - il tesoro del nostro servizio nella Chiesa e nel mondo -, in vasi di creta. È questa la nostra situazione! Non possiamo proprio vantarci di nulla: il tesoro è grande, noi siamo solo vasi di creta!

La presenza di Dio in noi è qualcosa di meraviglioso, ma non possiamo vantarcene. Dice ancora S. Paolo: “Chi si vanta si vanti nel Signore” (1Cor 1,31), e in un altro passo della Scrittura viene detto: non colui che si raccomanda da sé è approvato, ma colui che il Signore raccomanda.

Lasciamo, dunque, fare a Dio. Quando è lui ad aprire gli occhi ad una persona, quell’aprire gli occhi è prezioso, non quando cercassimo di farlo noi!

“Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole”: Dio ha scelto proprio quello che può lasciare posto a lui!

 

Il mite, ancora, è colui che, vivendo nella fede, spera e attende le cose da Dio: non le vuole acquistare da sé, le spera da Dio. Tenendo gli occhi fissi sulle realtà invisibili, sulle cose del cielo; dando tutta l’importanza a Dio, egli è pronto a vedere la sua opera; è capace di operare un discernimento chiaro su ciò che è di Dio e su ciò che non lo è. San Paolo scrive: “Il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili” (2Cor 4,17). Riceveremo un’abitazione da Dio: la dimora eterna. Il mite può sperare nei beni di Dio, nei beni eterni, nelle cose invisibili.

Anche la speranza, dunque, è un dono dato al mite, e, di conseguenza, la carità, che è frutto della fede e della speranza.

Potremmo dire che non solo la mitezza produce carità, ma che la mitezza stessa è carità, è amore di Dio per l’uomo: lo manifesta e lo realizza. Ne abbiamo fatto esperienza anche noi: quando stiamo vicino ad una persona mite, anche se non ella non fa niente di particolare, ci sentiamo amati. La sua mitezza è amore di Dio per noi, il suo silenzio lascia parlare Dio. Allo stesso modo, quando anche noi viviamo con mitezza, pur non facendo nulla di particolare, le persone che ci sono vicine si sentono amate da Dio.

La mitezza, dunque, è in se stessa carità, amore di Dio, proprio perché lascia spazio al suo agire. E questa, forse, è la carità più gradita, perché la sentiamo come venire non dall’azione umana, ma direttamente da Dio. Quando, poi, il mite si sente ringraziare, di solito dice: “Ma come, non ho fatto niente!”. Egli non se n’è neppure accorto, proprio il suo essere mite è stato un dono!

Naturalmente, l’attenzione e il rispetto del mite all’agire di Dio, fa sì che anche il suo fare qualche cosa diventi carità, abbia il sapore dell’amore stesso di Dio.

La mitezza è una delle qualità che vengono richieste per esercitare i ministeri nella comunità. San Paolo scrive: “Il vescovo sia ... non violento ... non litigioso ...” (1Tm3,2-3); “Un servo del Signore ... deve essere mite con tutti, ... paziente ... dolce ...” (2Tm 3,24-25); “Ma tu, uomo di Dio, ... tendi alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza” (1Tm 6,11).

Ma tutti i cristiani, che hanno ricevuto lo Spirito del Signore, diventano miti, perché il loro punto di riferimento chiaro e deciso, la persona con cui si confrontano sempre, è Gesù, l’Agnello.

Riguardo a lui Zaccaria ha profetato: “A te viene il tuo re, ... è umile, cavalca un asino ...” (Zc 9,9).

Questa parola è ripresa nel Vangelo della Domenica delle Palme, che celebra l’ingresso di Gesù in Gerusalemme: “Il tuo re viene a te mite ...” (Mt 21,5).

Contemplare Gesù è contemplare l’immagine della mitezza; l’immagine di una persona che non domina, che è presente senza violenza.

Per questo gli apostoli, che hanno contemplato Gesù, continuano ad esortare alla mitezza, alla mansuetudine.

San Paolo scrive: “Vi esorto, per la dolcezza e per la mansuetudine di Cristo…” (2Cor 10,1) e, ancora, nella Lettera ai Colossesi, “Rivestitevi ... di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza” (Col 3,12). A Tito raccomanda: “Ricorda loro ... di non parlar male di nessuno, di evitare le contese, di esser mansueti, mostrando ogni dolcezza verso tutti gli uomini” (Tt 3,1-2). Nella Lettera di San Giacomo leggiamo: “Sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all’ira” (Gc 1,19), perché, continua l’apostolo, l’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio: questo essere lenti all’ira è espressione di mitezza.

Nella stessa lettera: “Chi è saggio e accorto tra voi? Mostri con la buona condotta le sue opere ispirate a saggia mitezza” (Gc 3,13). E verrà anche spiegato qual è l’opposto di questa saggia mitezza: “Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non mentite contro la verità” (Gc 3,14); la gelosia, lo spirito di contesa: questo è l’opposto della saggia mitezza.

Ancora S. Giacomo scrive: “La sapienza che viene dall’alto è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole ...” (Gc 3,17). È mite, la sapienza che viene dall’alto. Ogni cristiano, che guarda a Gesù, riceve da lui, e s’impegna a ricevere, questo spirito.

Nell’Antico Testamento la mitezza è la caratteristica degli uomini di Dio.

Nel Libro dei Numeri si dice di Mosè: “Mosè era molto più mansueto di ogni uomo che è sulla terra” (Nm 12,3); e nel Libro del Siracide: “Lo santificò nella fedeltà e nella mansuetudine” (Sir 45,4) e ancora: Il Signore si compiace della fiducia e della mansuetudine” (Sir 1,24). Dio si compiace della mansuetudine, perché attraverso di essa egli può intervenire, può agire, può manifestarsi.

E quando il profeta Sofonia parla del popolo, che resterà e avrà prospettive di vita, lo descrive così: “Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero; confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele” (Sof 3,12-13). Un orante, nel Libro della Sapienza, parla così al Signore: “Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza; ci governi con molta indulgenza ...” (Sap 12,18).

Impariamo anche noi, dunque, dal nostro Signore, che è “padrone della forza” e “giudica con mitezza”.

 

Ci aiuta la nostra Madre, che nel suo canto ci ha confidato il segreto del suo essere gradita al Padre: “Ha guardato all’umiltà della sua serva”.

 

“Frutto dello Spirito è … mitezza”: cercheremo, dunque, ancora una volta, di lasciarci riempire di Spirito Santo dal Signore Gesù: guarderemo a lui, “mite ed umile di cuore”; a lui: Agnello, Re che viene a noi mite. Ci eserciteremo nella fede e nella speranza, per poter vivere quella carità che lascia tutto lo spazio a Dio, al compiersi del suo amore per gli uomini.

 

 

  1. Frutto dello Spirito è dominio di sé

 

La nostra Bibbia, con l’espressione “dominio di sé”, traduce il termine greco “encràteia”; termine usato da S Paolo per definire una forza interiore, una forza che si esercita nell’interno.

Tutti i giorni sperimentiamo il sorgere in noi di impulsi non cercati o addirittura non voluti; essi vengono dal corpo oppure da facoltà dell’anima o dello spirito, delle quali questi impulsi si servono come di propri strumenti: pensiamo, ad esempio, all’impulso a desiderare cibi (dolci o altre cose buone), all’impulso a cercare il piacere sessuale, all’impulso a parlare o a muoversi; pensiamo, ancora, a certe reazioni interiori di simpatia o antipatia, di amore o di odio, di violenza di fronte alle persone; impulsi di entusiasmo, di depressione, di tristezza, di scoraggiamento. Sperimentiamo anche impulsi interiori cui diamo nome di spirito di vanità, di ironia, di orgoglio, di rabbia…

Qualcuno considera tutto questo come manifestazioni del carattere – “Io sono fatto così, perciò tu mi devi sopportare…” -, qualcun altro lo ritiene espressione dell’inconscio o del subconscio, individuale o collettivo.

Questi termini, oggi molto usati, sono in realtà il riflesso di una mentalità egoistica, egocentrica e pagana riguardo all’uomo, secondo la quale questi, per potersi realizzare, dovrebbe dare sfogo a tutte le pulsioni interiori che avverte, lasciar sviluppare tutte le proprie reazioni.

Questa mentalità non tiene conto che esiste il peccato originale e che, come conseguenza di esso, l’uomo può e deve anche vigilare su se stesso, sui propri movimenti interiori ed esteriori; l’uomo è ritenuto uguale a Dio, per cui tutto quello che egli fa, dice e pensa, sarebbe buono.

Ma apriamo la Sacra Scrittura e sentiremo, già nelle prime pagine, come Dio manifesti a Caino che l’uomo ha un nemico, il peccato, e che ne può essere preda: “Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu, dominalo” (Gen 4,7). Non tutto ciò che ci viene in mente, dunque; non tutto ciò che ci stimola interiormente è dono di Dio, non tutto porta a lui. Dobbiamo, dunque, operare un continuo discernimento e non lasciarci dominare e travolgere dai nostri impulsi.

Un certo dominio di noi stessi lo mettiamo in atto naturalmente, senza nemmeno pensarci: il fatto di vivere in società ci rende attenti ad evitare atteggiamenti che potrebbero provocare reazioni sgradevoli da parte degli altri; per nostro stesso interesse mettiamo un freno ai nostri impulsi. Un paio di semplici esempi: il negoziante, desideroso di vendere, domina i propri impulsi di tristezza e si presenta sempre sorridente al banco; chi vuol dimagrire, cerca di dominarsi quando è a tavola.

Ciascuno di noi, in molte occasioni, fa esperienza di questo dominio di sé di carattere egoistico.

Presso alcuni popoli viene ancora praticato un dominio di sé, che trae motivazione da una filosofia o da una credenza religiosa; così, in passato, lo stoicismo, adesso, ad esempio, il buddismo o l’induismo. Qui viene praticato un esercizio di dominio del corpo e delle facoltà dell’anima al fine di giungere ad un’indifferenza totale al bene e al male, a tutto ciò che passa, a tutto ciò che esiste, per entrare nel nulla. Queste filosofie o religioni affermano che la vita dell’uomo è soltanto un’apparenza, un qualcosa di non reale, e che occorre unire le polarità delle nostre tensioni per giungere all’‘uno’, cioè alla pienezza della vita; questa, in fondo, sarebbe il niente, il nulla. Ci troviamo anche qui di fronte ad un tipo di egocentrismo, che diventa stimolo per il dominio di sé.

 

  1. Paolo afferma che il dominio di sé è frutto dello Spirito. Questi, entrando nella nostra vita, ci muove interiormente, ci anima e produce, come suo frutto, il dominio di sé. Questo, allora, è grazia operata dallo Spirito Santo, è un dominio dettato dall’amore; è una forza interiore, che si muove dentro di noi, sgorgata dal rapporto d’amore che viviamo col Padre e col Figlio, dal rapporto d’amore che viviamo coi fratelli. Se il mio rapporto col Padre è puro, se è amore, io accolgo il suo desiderio che la mia vita diventi trasparenza di lui, della sua paternità, e a tal fine domino tutti quegli impulsi che la impedirebbero.

Allo stesso modo, quando vivo un rapporto d’amore vero con Gesù, desidero vivere la sua vita, voglio portare la croce con lui, perché anche lui l’ha portata. Per amore di Gesù, posso dominare gli impulsi contrari.

Alcuni semplici esempi: sento l’impulso di arrabbiarmi, ma, vivendo in un rapporto d’amore col Padre, col Figlio e lo Spirito Santo, vedo che il mio Dio non si arrabbia: nemmeno io, dunque, devo arrabbiarmi, altrimenti non sarei trasparenza di lui.

Mi viene da parlare male di una persona; se io vivo nello Spirito Santo, egli mi ricorda che Gesù, per quella persona, ha dato la vita. Questo pensiero mi porta a dominare il mio impulso e a trasformarlo, dicendo qualcosa di positivo.

Vorrebbe prendermi uno spirito di scoraggiamento, ma, vivendo in rapporto col Padre, vedo che lui è fedele, mi sta ancora amando: ecco nascere in me la forza di dominarmi e torno a vivere con fiducia.

Sento l’impulso ad usare il mio corpo in maniera impura; ricordo che la mia persona è tempio di Dio, tempio dello Spirito Santo, e così trovo la forza per non ripiegarmi su me stesso.

Avverto l’impulso di vantarmi, cioè di far bella figura, con le parole o in altro modo, ma, poiché sto vivendo in rapporto col Padre o con Gesù, nello Spirito Santo, riesco ricordare che è lui che deve risplendere: dominerò il mio impulso a mettermi in mostra e amerò, piuttosto, il nascondimento.

Il dominio di sé, questa forza interiore sgorgata dallo Spirito Santo presente in noi, ci porta proprio a far sì che la nostra vita diventi una luce, una trasparenza di Dio.

“E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2Cor 3,18): lo Spirito del Signore agisce in noi e ci trasforma; ci prende così come siamo, con tutte le nostre reazioni, e ci mette dentro la forza di dominarle, di sostituirle con altre; ci dona di reagire alla presenza di Dio. Lo Spirito Santo vuole riprodurre in noi, sul nostro volto, l’immagine del Signore.

Negli impulsi della carne e dell’anima si nascondono forze di distruzione. Leggiamo nelle Lettere degli Apostoli: “I desideri della carne … fanno guerra all’anima” (1Pt 2,11); “Con la mente, servo la legge di Dio, con la carne, invece, la legge del peccato” (Rm 7,25). Questi impulsi sono già tentazione o ci portano ad essa, ci spingono, cioè, a distanziarci dal nostro Dio, a non vivere in relazione a lui, a non dipendere da lui.

  1. Giacomo scrive: “Ciascuno è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce; poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato” (Gc 1,14-15) ed ancora: “Resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi” (Gc 4,7) e S. Pietro: “Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1Pt 5,8). Gli apostoli non immaginano certo il diavolo con le corna e la forca…; lo sanno attivo proprio attraverso gli impulsi o tensioni di cui abbiamo parlato, le tentazioni.

 

Non tutto ciò che sentiamo muoversi in noi, dunque, viene da Dio; non tutto è divino.

Noi non siamo Dio, siamo creati per stare in rapporto con lui, e solo da questo rapporto riceviamo la forza, perché la nostra vita possa essere sempre più una trasparenza della sua; diverremmo altrimenti strumento e trasparenza di satana. Questi strumentalizza le tensioni della nostra anima e del nostro corpo per il peccato: per dividerci da Dio, per dividerci gli uni dagli altri, per dividere ognuno di noi dalla propria immagine. Quest’immagine, secondo la quale siamo chiamati a crescere e formarci, è l’immagine del Figlio di Dio, di Gesù.

San Paolo scrive: “Io so che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo” (Rom 7,18). Perché questo? Perché siamo peccatori, perché ci troviamo fuori strada, fuori dalla strada che porta al Padre – comprendiamo così che le parole ‘peccatore e peccato’ non indicano, o non soltanto, l’essere caduto in qualche colpa, ma tutta una situazione di lontananza dal Padre -.

Ci troviamo in una situazione piuttosto precaria e negativa, ma possiamo rendere grazie a Dio, perché egli, per mezzo di Gesù Cristo, ci riveste del suo Spirito; è lui che ci rende capaci di vincere e superare questa situazione, che ci dà la forza di operare il bene. Gli rendiamo grazie anche perché, per mezzo di Gesù, possiamo ricevere il perdono per quando non riusciamo a dominare le tentazioni. San Paolo, ancora a questo riguardo, scrive: “Dovete deporre l’uomo vecchio” (Ef 4,22) e “Voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito” (Rom 8,9).

È lo Spirito Santo, dunque, che ci dà questa possibilità, che può operare in noi questo cambiamento. Noi abbiamo bisogno del suo aiuto, non possiamo vivere senza questo dono che il Padre ci mette nel cuore. Egli agisce così: prima si fa per noi luce, perché possiamo discernere, fra gli impulsi che sentiamo dentro di noi, cioè che è passione, che è tentazione. Continua, poi, la sua azione comunicandoci il desiderio di piacere al Signore e dandoci anche la forza interiore, la forza dell’amore. Questa, poi, mette in atto un dominio interiore delle varie facoltà dell’anima e delle membra del nostro corpo; ci fa vittoriosi nella tentazione, ci rende capaci di compiere l’opera di Dio.

Vediamo alcuni campi in cui la forza interiore donataci dallo lo Spirito Santo deve essere esercitata.

Il primo è quello dei pensieri – i quali, tra i moti interiori, sono i più pericolosi -.

San Paolo, a coloro che pensano che tutto sia lecito, dice: “Tutto mi è lecito! Ma non tutto giova. Tutto mi è lecito! Ma io non mi lascerò dominare da nulla” (1Cor 6,12). Faremo sempre attenzione a non divenire schiavi di tutto quello che ci viene in mente. Ripetiamo: non tutto è suggerimento di Dio, non tutto è ispirazione. In questo discernimento saremo aiutati soprattutto dal tener sempre presente lo scopo della nostra vita: essere figli di Dio, strumenti del suo regno. In base a questo scopo eserciteremo il nostro discernimento e valuteremo i nostri pensieri. Nel campo dei pensieri, in particolare prendiamo in esame il giudizio. Scrive S. Paolo: “Non vogliate, perciò, giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori ...” (1Cor 4,5). Il giudizio è davvero la cosa che ci riesce più facile ed immediata! Ci viene spontaneo giudicare tutto quello che vediamo, tutti quelli che incontriamo…

Ciò manifesta che stiamo nutrendo un giudizio molto alto di noi stessi; San Paolo direbbe anche a noi: “Non valutatevi più di quanto è conveniente valutarsi ...” (Rm 12,3) e “Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi” (Rm 12,16). Saremo, dunque, molto vigilanti sui nostri pensieri e coltiveremo l’umiltà. Cesseremo pure di giudicarci gli uni gli altri.

San Paolo ci aiuta ancora: ci orienta al Signore, ci ricorda che anche i fratelli appartengono a lui e, di ciò che fanno, a lui, non a noi, rispondono: “Chi sei tu, per giudicare un servo che non è tuo?” (Rom 14,4).

 

Un altro campo, in cui deve esercitarsi e svilupparsi la forza interiore che ci viene dallo Spirito, è la lingua, molto difficile da dominare. Giacomo, esperto in questo ambito, scrive: “Se qualcuno pensa di essere religioso, ma non frena la lingua ... la sua religione è vana” (Gc 1,26). Per chi vuol essere servo di Dio, cristiano vero, portatore dello Spirito Santo, il dominio di sé da esercitare sulla lingua, dunque, non è facoltativo, ma necessario.

Dovremmo leggere più spesso questi passi delle Lettere degli Apostoli: “Se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto” (Gc 3,29), “La lingua nessun uomo la può domare” (Gc 3,8), “Non sparlate gli uni degli altri. fratelli” (Gc 4,11), “Benedite e non maledite” (Rm 12,14), “Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca ... Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira e maldicenza”. (Ef 4,29-31): la parola deve servire per dire bene, non male.

C’è, poi, il dominio delle mani, cioè degli impulsi di litigiosità che possono sorgere in noi. È ancora S. Giacomo a istruirci: “Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra!” (Gc 4,1-2).

Il dominio delle mani, dunque, va esercitato a cominciare dai pensieri e dai desideri: ‘bramate’, ‘invidiate’; qui comincia quella situazione negativa che solo in un secondo tempo si fa esteriore e si manifesta.

Nella Parola di Dio troviamo molto aiuto anche per questo esercizio: “Non rendete a nessuno male per male” (Rm 12,17), “Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare” (Rm 12,20), “ Non seguite la carne nei suoi desideri” (Rm 13,14); questo scrive San Paolo, ma potremmo leggere, a riguardo, anche molte parole di San Pietro.

A proposito del dominio del nostro corpo e della sessualità San Paolo scrive: “Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? ... O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?” (1Cor 6,15.19); “Quanto alla fornicazione e a ogni specie di impurità neppure se ne parli tra voi” (Ef 5,3).

Anche il dominio della gola ha la sua importanza. San Pietro scrive: “Basta col tempo trascorso nel soddisfare le passioni del paganesimo, vivendo nelle dissolutezze, nelle passioni, nei bagordi, nelle ubriachezze ...” (1Pt 4,3): non si può vivere per mangiare!

“Siate moderati e sobri, per dedicarvi alla preghiera” (1Pt 4, 7): spiega il motivo per cui dobbiamo esercitare il dominio di noi stessi, per poter rimanere in un rapporto sereno, umile e costante con Dio; un rapporto che occupa non solo la mente, il pensiero, ma tutta la vita, anche il corpo, che deve riflettere la luce del Signore.

A queste parole di S. Pietro fanno eco i Padri del deserto, quando insegnano ai loro discepoli: “Mangia non oltre...”, “Alzati da tavola in modo d’avere ancora voglia di pregare, che ti possa essere possibile la preghiera”.

“Siate dunque moderati e sobri, per dedicarvi alla preghiera” (1Pt 4, 7): è la preghiera il nutrimento più importante per l’uomo.

Per fortificare questo frutto dello Spirito, il dominio di se stesso, possiamo prendere alcuni accorgimenti; il primo, l’accoglienza della Parola del Signore.

A questo proposito S. Giacomo esorta: “Accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime” (Gc 1,21).

Un rapporto d’amore con la Parola può salvare la nostra anima: quando, infatti, stiamo in ascolto di Dio, della sua parola concreta, è vivo in noi lo Spirito Santo, con la sua forza. Anche il Salmo lo conferma: “Come potrà un giovane tenere pura la sua via? Custodendo le tue parole” (Sal 119,9).

San Pietro dirà: “Dopo aver fuggito le corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del Signore e salvatore Gesù Cristo ...” (Pt 2,20); per lui, per il Signore, noi abbiamo fuggito le corruzioni del mondo! Non, dunque, perché dobbiamo o vogliamo essere perfetti, non grazie alle nostre forze, potremo salvarci, ma per mezzo della conoscenza di Gesù: conoscerlo con amore ci allontana dalle corruzioni del mondo, ci mette in una situazione di purezza, dove non dominano più il peccato e la tentazione, ma dove regna lo Spirito del Signore.

Anche se il dominio di sé è dono dello Spirito, esso implica sempre anche la nostra fatica, richiede energia e sforzo da parte nostra. Lo Spirito Santo, infatti, non agisce in maniera magica: altro accorgimento, dunque, sarà un costante impegno alla vigilanza, all’attenzione, perché non ci verranno mai tolte le tentazioni e le difficoltà – ricordiamo che anche Gesù le ha avute! -; esse resteranno fino alla fine della nostra vita! Ci verrà data, però, la forza interiore per vincerle. E non saremo mai tentati al di sopra delle nostre forze!

 

Cercheremo, dunque, di stare in continuo rapporto con il Padre e con Gesù; verrà così a noi lo Spirito Santo; da lui riceveremo discernimento per distinguere le tentazioni dalle ispirazioni, e forza interiore per vincere; forza che, secondo il campo in cui si esprimerà, chiameremo: temperanza, modestia, purezza, riservatezza, interiorità, silenzio, povertà, veglia, vigilanza.

Saremo tanto fortificati da diventare per davvero membra del corpo di Cristo; la nostra vita sarà un riflesso della luce eterna del creato, specchio della vita di Dio. Il nostro corpo, la nostra vita, sarà sempre più trasfigurata, cioè diventerà luogo dove si manifesta il Signore. E potrà essere strumento adatto per il suo regno.

Nell’elenco di S. Paolo il dominio di sé è l’ultimo dei frutti dello Spirito Santo; l’ultimo, ma quello che rende possibili, evidenti, maturi tutti gli altri. Senza il dono del dominio di noi stessi, infatti, anche tutti gli altri doni, uno alla volta, se ne andrebbero…

 

“Frutto dello Spirito è … dominio di sé”: a conclusione della nostra meditazione, questa Parola risuona particolarmente bene.

Essa ci porta a ringraziare lo Spirito Santo, che ci rende forti. In questo modo, nella nostra vita, ogni giorno, possiamo sperimentare la vittoria; possiamo donare al Padre un luogo in cui far trasparire la sua bontà, e a Gesù un luogo per manifestare il suo regno di luce e di santità.

 

 

Nihil obstat: p. Modesto Sartori, ofm capp., 24/11/2017