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BEATI GLI INVITATI

Ultima Cena - , Chiesa San Paolo, Konya

BEATI GLI INVITATI

Meraviglia di un invito, gioia di un incontro

 

La Messa vista e vissuta passo dopo passo col desiderio di viverla meglio ancora

 

Introduzione:  il frutto maturo 

Per alcuni mesi, durante la clausura imposta dal coronavirus, ho scritto quotidianamente delle brevi riflessioni, o suggestioni, sulle letture della Messa. Avevo intenzione di tener desta l’attenzione dei miei “parrocchiani virtuali” alla Parola che continua a sgorgare sempre nuova dal cuore del Padre e dalla bocca di Gesù e che arriva a noi tramite i suoi apostoli. È la Parola che non passa mai, che non mente e non inganna. Adesso mi è balenato quest’altro pensiero: invece di continuare a offrirti un piccolo e povero pensiero sulle Letture della Messa, provo a offrirtene uno ancor più povero sulla Messa stessa, nella quale ascolti le Letture. Queste infatti si compiono, cioè diventano reali e vere solo nella celebrazione Eucaristica. Qui diventano carne, carne di Cristo in te, in me e in tutti noi. Anzi, quelle parole diventano la carne di Cristo che siamo e saremo noi in quel giorno. È come dire che se non celebriamo l’Eucaristia, l’ascolto della Parola resta a metà, come un frutto acerbo che non matura mai. Che se ne fa il mondo di un frutto acerbo? È nella Messa che diventiamo e siamo Chiesa, luogo della Gloria di Dio, manifestazione del suo essere Padre e Figlio, e movimento del Vento dello Spirito, luce e calore della sua fiamma, Parola della sua lingua.

  

1 Frutto maturo

Per alcuni mesi, quelli della clausura imposta dal coronavirus, scrivevo ogni giorno delle brevi riflessioni o suggestioni sulle letture della Messa. L’intenzione era di tener desta l’attenzione dei miei “parrocchiani virtuali” alla Parola che continua a sgorgare sempre nuova dal cuore del Padre e dalla bocca di Gesù, e che arriva a noi tramite i suoi apostoli. È la Parola che non passa mai, che non mente e non inganna. Tu sei uno di questi amici, o fratelli. Adesso mi è balenato quest’altro pensiero: invece di continuare a offrirti un piccolo e povero pensiero sulle Letture della Messa, provo a offrirti un pensiero ancor più povero sulla Messa stessa, nella quale ascolti le Letture. Queste infatti si compiono, cioè diventano reali e vere solo nella celebrazione Eucaristica. Qui diventano carne, carne di Cristo in te, cioè in me e in te e in noi. Anzi, quelle parole diventano la carne di Cristo che siamo e saremo noi in quel giorno. È come dire che se non celebriamo l’Eucaristia, l’ascolto della Parola resta a metà, come un frutto acerbo che non matura. Che se ne fa il mondo di un frutto acerbo? È nella Messa che diventiamo e siamo Chiesa, luogo della Gloria di Dio, manifestazione del suo essere Padre e Figlio, e movimento del Vento dello Spirito, luce e calore della sua fiamma, Parola della sua lingua. Nella Messa mangiamo la Parola fatta carne, e così, nella nostra concretezza di uomini carnali, diventiamo Parola, quella Parola che è luce, intelligenza, forza e gioia anche per quelle persone che ancora non sono stati trasformati da essa.

 

  1. Partecipare

Quando è successo che per tre o quattro mesi non abbiamo potuto partecipare alla Messa, la Chiesa non è cresciuta, infatti non si è alimentata. Ha continuato sì a dare frutti di carità, anche con abbondanza, ma pare non si sia sviluppata. Quando abbiamo ricominciato a celebrare l’Eucaristia, abbiamo notato moltissime assenze. Molti fratelli e molte sorelle ritengono che essa non sia necessaria alla loro vita? Essere rimasti senza mangiare il Corpo di Cristo ha indebolito, e forse ammalato il Corpo della Chiesa. L’assistere per televisione o tramite cellulare non è stato la stessa cosa che il partecipare. È stato come se all’ora di cena avessimo guardato qualcuno che mangiava la pizza. Avremmo potuto immaginarci il profumo e il sapore e vedere i colori, ascoltare in silenzio le conversazioni, ma il nostro corpo di volta in volta si sarebbe indebolito e sarebbe dimagrito. Era, ed è certamente un grande dono il poter assistere alle celebrazioni distanti: potevamo e possiamo essere aiutati a pregare, perché entravano nelle nostre orecchie e nel cuore le parole di Dio, sante e gradite. Tuttavia la vita impoveriva, soprattutto quella dei bambini e dei ragazzi, che non hanno ancora nel cuore e nella mente, e nelle abitudini, materiale sufficiente per vivere di rendita. Partecipare è un’altra cosa. Non ti pare? Essere presenti nel luogo dove si celebra e poter rispondere agli inviti, sostenere con la propria voce il canto di tutti e incrociare lo sguardo del celebrante con i propri occhi è vivere, è essere nei cieli, dove i santi e gli angeli rendono perfetta la Liturgia.

 

  1. Programmare

Allora cominciamo. Quando comincia la Messa? Per te comincia quando decidi di andarvi. Immagino che decidi già un giorno o due prima: infatti per quell’ora non programmi null’altro. Alla domenica poi l’hai già deciso una volta per tutte. È un’abitudine? Si, certo, un’abitudine santa e preziosa, come molte altre abitudini quotidiane o settimanali. Quando devi andare dal dottore o dal dentista, da un professore o dal commercialista, cosa fai? Non ti prendi altri impegni e prepari quel che devi dire, metti in tasca o in borsa eventuali documenti o carte varie, pensi al vestito e a… riempire il portafoglio. Non è così complicato prepararti per la Messa. Ma, non prepari proprio niente? So che qualcuno cerca le letture e le legge già il giorno precedente. Qualcuno ne cerca anche una spiegazione. Qualcuno si raccoglie qualche minuto e prega ringraziando Dio, chiedendogli perdono e disponendosi al mistero. Qualcuno prepara anche il vestito, che non sia proprio il solito blue-jeans che mette quando va a lavorare in fabbrica o in stalla o nell’orto o a fare il manovale.

 

  1. Come ti vesti?

Anche il vestito? Che c’entra con la Messa? Il vestito non c’entra con la Messa, ma con te, con la tua vita. Chi sei tu? Due terzi della risposta a questa domanda la dà il vestito che indossi. Allo stesso modo che i tatuaggi per il passato e i piercing per il presente rivelano il vuoto del cuore, così il vestito stravagante per forme o colori mette in evidenza la confusione della mente. Il vestito fa conoscere la tua anima, e le tue attese. Vai a Messa trasandato? Ci vai vestito a metà? Con un vestito che mette in evidenza le nudità, o i muscoli o i seni? Oppure il vestito è da stirare? In questi casi il messaggio che daresti a Dio e agli uomini è evidente. Al Padre lasceresti intendere che lui t’interessa poco: non indossi - dentro di te - quel vestito nuziale che egli stesso ti ha offerto al Battesimo. Agli uomini daresti l’invito a guardare non a Dio, ma a te, anzi, a notare il tuo corpo di carne, e non il tuo corpo spirituale. E ancora ti faresti conoscere superficiale o vanitoso o pigro, e che non ti importa di suscitare nelle altre persone pensieri sensuali o sentimenti di invidia o di compassione. Lasceresti capire che a Messa vai per farti osservare, invece che per ringraziare e lodare il Padre ed essere salvato da Gesù. Il vestito ordinato e semplicemente normale ti renderebbe più bello agli occhi sia degli uomini che di Dio. Con il vestito annunci che non ti senti costretto, ma che per te l’incontro domenicale è una festa, una bella festa!

 

  1. Arrivi in tempo?

È domenica. Siamo davanti alla chiesa, già arrivati. Puntuali? Oppure cinque o otto minuti prima? Tu sai se serve arrivare un po’ prima: dipende da cosa t’aspetti dalla Messa. Se non t’aspetti nulla puoi arrivare anche tre minuti in ritardo. Se t’aspetti il dono di Dio, pace, conforto, luce e fortezza per la vita, conversione forte, se t’aspetti di giovare alla fede e alla carità di qualcun altro, se t’aspetti che aumenti l’amore in parrocchia e la disponibilità del prete, allora puoi arrivare un po’ prima e godere alcuni minuti di silenzio, di raccoglimento, di santità pratica. Hai passato la porta? Allora sei dentro e non sei più fuori. Noti la differenza tra esser dentro e esser fuori? Se non noti alcuna differenza il tuo amore è povero, materiale: ti farebbe bene star dentro a lungo, in silenzio, senza dir nulla, nemmeno a Dio. Passata la porta, in qualche modo dovresti accorgerti che sei già nell’al di là, dove il Signore Gesù è la presenza più importante e dove il Padre gode di averti vicino al suo cuore.

 

  1. Acqua e segno di croce

Ecco di nuovo l’acqua nelle pile. Non c’è più la bottiglietta per igienizzare le mani, che pareva dovesse sostituire l’acqua benedetta. Questa invece a che serve? Per igienizzare il cuore attraverso le mani. Tocchi l’acqua e con essa la fronte prima di tutto. I nostri antenati per benedire l’acqua vi versavano pure del sale benedetto. Senza che lo sapessero, venivano bruciati così i batteri della peste e i virus delle pandemie, tanto che la dea Igiene non riusciva ad oltrepassare la soglia per spargere nei banchi la paura della morte. Durante la benedizione la comunità ha riversato in quest’acqua la sua fede e la sua preghiera, e, toccandola, tu ‘tocchi’ la fede e la preghiera della Chiesa per rendere attuale, presente, il sacramento che ti ha fatto figlio: figlio del Padre e figlio della Chiesa, fratello di Gesù e di quel tale che arriva adesso dopo di te. Il tuo Battesimo non te lo ricordi, ma sei qui perché c’è stato. Mentre l’acqua calava sulla tua fronte sono risuonate le parole che stai ripetendo: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Sei stato battezzato, che vuol dire immerso in modo da rimanere sempre inzuppato, nella vita di queste tre ‘Persone’, cioè nel loro amore. Sei ancora immerso in quel triplice amore? Ti faccio un esempio? I sottaceti sono saporiti perché rimangono sempre immersi nell’aceto. Così tu che rimani sempre immerso nell’amore divino avrai sempre il sapore di quell’amore. È l’amore che sa amare per primo come il Padre; è l’amore che sa dir di sì, cioè ubbidire alle proposte di amore santo, come l’amore del Figlio Gesù; è quell’amore che ti unisce agli altri per amare chi ha bisogno di essere amato e di imparare ad amare, cioè lo Spirito Santo. Ci si può accorgere che sei impregnato di questo triplice amore e che ne conservi il sapore? Quest’acqua con cui ti bagni le dita e ti segni la fronte, il petto e le spalle risveglierà questa tua consapevolezza.

 

  1. Le croci

Stiamo ancora facendo il segno di croce entrando in chiesa. È segno di croce? Sei sicuro? O l’hai trasformato in un gesto scacciamosche? È segno di croce. Stai dicendo, non a chi ti guarda incuriosito, ma a te stesso, che c’è una croce importante. Non è lontana, non è più sul Calvario di Gerusalemme. È arrivata qui e ha portato e sta portando il tuo corpo e tutta la tua vita. È una croce che diventa un tutt’uno con quelle parole che ti han detto al battesimo per farti essere figlio di Dio. Il segno che fai ti obbliga a pensare alla croce di Gesù, quella vera, non quella d’oro che porti al collo. E Gesù pensa alla croce che tu hai vissuto o stai vivendo in casa tua, o sul lavoro, o nella tua malattia, o nel rifiuto di qualche parente o nel tradimento nascosto o palese del coniuge, o nella ribellione del figlio. Le due croci, quella di Gesù e la tua, si uniscono nel segno bagnato da poche gocce d’acqua ‘benedetta’. Adesso sei pronto a entrare in un banco: ti siederai o ti inginocchierai? Non importa, farai come ti detta la tua fede e il tuo cuore.

 

  1. Campane e canto iniziale

Un colpetto di campanello ti scuote e ti alzi. Avevi già sentito le campane prima, se la tua casa non ha le finestre con termopan. Le campane preparano l’atmosfera per la Messa, intimoriscono i cani e aiutano gli uomini. Un’invenzione, antica di millecinquecento anni, le campane. Un’invenzione dell’Occidente tecnologico. Nel vicino oriente, nell’antica Siria, vicino alle case adibite a chiese, costruivano delle torrette dove uno saliva a cantare e avvisare l’imminente inizio della Messa. Hanno imparato i musulmani, che continuano così. Noi, con argento nella lega di bronzo, fatto di rame e stagno, ci sbizzarriamo in concerti di campane, concerti più o meno delicati e armoniosi. Ma adesso ti sei alzato in piedi e qualcuno comincia a cantare. Canti anche tu? sei capace? Stai attento al tono, al volume, al ritmo, ai tempi? Tutto questo è importante, senza dimenticare però, sia tu che i cantori e il capocoro, che il Padre è attento al cuore di chi canta, più che all’esatta esecuzione. Il canto è importante, tanto che se ne sono occupati anche dei papi santi come Gregorio Magno e Pio X°, per dirne solo due. Anche se non sono santo e nemmeno papa, me ne sono occupato anch’io, e con frutto, se è vero che quel giovane che quarant’anni fa ho spronato a suonare l’organo, lo suona ancora tutte le domeniche benché adesso abbia i capelli bianchi. È bello che il coro canti bene, ma ancor più bello se invita e aiuta anche me a cantare. Questo fa parte del suo compito, così che tutti insieme diamo gloria a Dio.

 

  1. I gradini e il bacio

Il prete è salito all’altare. Perché diciamo «è salito»? Ha fatto solo uno o due o tre gradini! Tuttavia diciamo «è salito», perché l’altare è un po’ rialzato. Quel piccolo rialzo ti dovrebbe ricordare i monti, non quelli sui quali sali con fatica durante qualche escursione. Penserai anzitutto al monte Moria, sul quale è salito Abramo con Isacco carico di legna, ma anche al monte Sinai dove è salito Mosè per incontrare Dio e ascoltarlo, oppure al Carmelo, dove Elia ha sfidato i falsi profeti, o all’Oreb, dove ancora Elia si è coperto il volto all’arrivo della brezza leggera che nascondeva e manifestava la tenerezza del Padre. Soprattutto ricorderai il monte dove Gesù ha predicato le beatitudini, o quello dove è salito a pregare mentre il suo volto si trasfigurava, ma soprattutto il Calvario, dove il suo cuore è stato trafitto, e anche quel monte, staccandosi dal quale è salito alla destra del Padre. Queste otto salite sul monte si concentrano adesso qui nei pochi gradini su cui è salito il prete. Chissà come si sente! Pensi che io mi senta già stanco solo al pensarci? No, anzi, mi par di correre spedito, quasi volando.

Il prete poi bacia l’altare. Quel bacio lo osservano da vicino i chierichetti, e restano meravigliati. Però capiscono, perché anch’essi sono stati abituati a baciare qualche quadretto con la figura di Gesù. L’altare non è solo un tavolo o un blocco di marmo, ma è un segno. Le tovaglie, le candele e i fiori gli danno importanza e lo rendono attraente. È un segno della presenza di Gesù in mezzo all’assemblea riunita. Se nessuno te l’aveva mai detto, adesso lo sai. Nascoste sotto le tovaglie sono scolpite delle crocette e anche un piccolo riquadro che nasconde reliquie di santi: anche queste danno valore spirituale al tutto.

 

  1. Altare

Dicevamo dell’altare. Si chiama così, come quello del tempio di Gerusalemme. Su quello, ben grande, si collocava la legna da bruciare, e in quel fuoco disponevano agnelli o quarti di bue come ‘sacrificio’ a gloria di Dio. Erano solo segni o prefigurazioni del vero sacrificio che doveva essere offerto a lui perché possiamo godere della sua unità con noi. Il vero sacrificio, proprio vero, è quello che celebriamo noi. Sì, proprio così. Noi offriamo la perfezione della vita di Gesù, morto per amore, morto perché si è offerto mentre lo uccidevano, o uccidevamo. Gli uomini lo hanno fatto perché siamo peccatori. Lui si è offerto amando i peccatori mentre essi lo odiano. Dal momento che noi offriamo il vero sacrificio, unico gradito al Padre perché fatto solo di amore, il nostro altare è il vero altare. Il nostro, spesso, ha la forma di un tavolo-mensa, perché Gesù ha voluto rendere segno o, meglio, ‘sacramento’ del suo sacrificio, la Cena che ha celebrato con gli apostoli prima di recarsi al Getsemani. Adesso forse intuisci perché il prete bacia l’altare. Lo farà anche alla conclusione del nostro incontro, incontro che così inizia e finisce con un segno di amore a Gesù: non abbiamo nient’altro di prezioso nella vita che l’amore a Gesù. Sei d’accordo? Altrimenti che fai qui? Se non sei qui perché ami Gesù, puoi tornare a casa. Aspetta, se il tuo amore è debole, oggi si rafforzerà. Se il tuo amore a Gesù è malato, finto e inconcludente, ricupererà. Devi però saperlo: è Gesù il motivo per cui siamo insieme.

 

  1. Paramenti

Non ti ho ancora detto nulla dell’abbigliamento del prete. In sagrestia c’è un guardaroba speciale con vestiti di varie forme e colori. Quando io mi preparo per la Messa, prima di tutto indosso una tunica bianca, lunga fino alle calcagna, spesso legata ai fianchi con un ‘cingolo’. Questa tunica è come quella degli angeli della risurrezione, quegli angeli alla cui vista si sono spaventate le donne che arrivavano con i profumi. È anche come il vestito con cui Gesù si è manifestato a Giovanni: lo ha raccontato nel libro “Apocalisse”. Il colore bianco è quello del vincitore, di colui che alla fine della battaglia decisiva può cantare vittoria. Gesù e gli angeli sono vestiti così, perché così si vestiva pure il sommo sacerdote nel tempio santo di Gerusalemme. È la veste tipica sacerdotale, di chi si pone in mezzo tra Dio e gli uomini, per unirli, per fare da ponte. Chi indossa questa veste porta a te i doni di Dio e porta a Dio il dono che sei tu. Meraviglioso, no? Sopra la tunica poi indosso una ‘stola’, una striscia di stoffa colorata che mi passa sul collo: pare fatta apposta per farmi pensare al giogo leggero e dolce che Gesù ha promesso a coloro che vanno da lui. Il giogo serve a tenere due animali, buoi o cavalli, appaiati e legati al carro che devono tirare. È il segno dell’obbedienza e del lavoro faticoso: il sacerdote non fa cose proprie, ma solo ciò che Gesù gli dice di fare, e tutto e solo insieme con lui. La ‘stola’ è quindi il segno dell’autorità di Gesù, quella che ha ricevuto dal Padre. Questa autorità è la stessa che il prete esercita verso di noi: “Chi ascolta voi ascolta me”, ha detto il Signore, e anche: “Ciò che voi legherete sulla terra sarà legato nei cieli, e ciò che scioglierete…” (Mt 18,18).

 

  1. Colori

Ancora per l’abbigliamento del prete: la parola giusta è ‘paramenti’. La ‘stola’ forse non la vedi, perché di solito viene coperta dalla ‘casula’. Questa è un bel mantello chiuso come un poncio, ampio e decorato anche da ricami. Ci aiuta a godere la bellezza del momento che stiamo vivendo. Stola e casula sono colorate: la Chiesa non ha aspettato l’inventore della cromoterapia, che ha la pretesa di guarire malattie con i colori. Lo ha preceduto, adoperando i colori a lodare Dio facendo memoria delle svariate forme del suo amore: questa è la via della nostra guarigione! Il mantello può essere color viola, quando si vuole evidenziare la penitenza, l’attesa o il lutto: lo vedi in quaresima, in avvento, ai funerali e nelle celebrazioni penitenziali. È rosso per celebrare la passione di Cristo e quella degli apostoli e dei martiri, che hanno versato il loro sangue per la fede in Gesù; è rosso anche nelle feste dello Spirito Santo, che è il fuoco per eccellenza, che senza consumare brucia per illuminare e riscaldare: per questo appare anche alla Cresima. Usiamo il bianco nel tempo pasquale per celebrare la risurrezione del Signore, e nelle feste natalizie, e per i sacramenti del Battesimo, Ordine Sacro e Matrimonio, nelle feste di Maria Ss.ma e dei Santi non martiri: è il colore della gioia e della santissima fede. Nelle domeniche e giorni feriali degli altri tempi liturgici usiamo il verde, colore della speranza e della perseveranza nel cammino con il Signore della vita. Il verde infatti è il colore delle foglie quando vivono per far portare frutto alla pianta. Spesso queste vesti sono ricamate anche in oro: l’oro simboleggia la regalità. Non ha scritto San Paolo che “se con lui (Gesù) perseveriamo, con lui anche regneremo” (2Tm 2,12)?

 

  1. Volute d’incenso

Alle feste principali, e in qualche chiesa tutte le domeniche, mentre tutti cantano, un chierichetto presenta al sacerdote un attrezzo particolare, fatto di catenelle che sostengono un recipiente con un carbone acceso: lo chiama turibolo. Con un cucchiaino il prete versa sul carbone un po’ di grani d’incenso, e così si alza una nuvoletta di fumo più o meno profumato. Qualcuno pensa sia qualche sistema deodorante oppure igienizzante, per debellare batteri e virus portati dalla gente intervenuta: pare sia questa una scoperta moderna. Ma no! Il prete non pensa queste cose. Egli continua una tradizione antichissima, presente già prima di Gesù al tempio di Gerusalemme. Offrire l’incenso a Dio è un modo per esprimere a lui non solo amore, ma anche venerazione e adorazione. Egli è degno che noi facciamo qualcosa di gratuito per lui. Il bruciare vuole esprimere questa gratuità. Ebbene, il turibolo viene agitato e quel profumo sparso tutto attorno all’altare, poi anche davanti al crocifisso, che è vicino all’altare, e al cero pasquale quando è in vista nel tempo di Pasqua, e anche a qualche immagine o reliquia di santi e poi… pure tu vieni incensato, insieme a tutti i presenti. Perché? Tu sei battezzato, quindi appartieni a Dio, anzi ne sei l’immagine. Tu ricevi amore e ami, cioè sei come Dio, che ama e riceve il nostro amore. Sei un vaso fragile sì, ma contieni tesori preziosi: in te ci sono amore e soprattutto fede vera. Il tuo amore e la tua fede dimostrano e dichiarano che Gesù è Figlio di Dio. Quando morirai, anche allora il tuo corpo nella bara sarà incensato: è stato tempio dello Spirito Santo!

 

  1. Profumi

Hai anche tu qualche punta di curiosità? Allora ti posso dire un’altra cosa a proposito dell’incenso. Sai com’era fatto quello che si usava nel tempio di Gerusalemme? Non puoi saperlo, non lo sa nessuno. Infatti la ricetta era segreta, e la segretezza era mantenuta dalla famiglia dei sacerdoti incaricata di prepararlo. Si tramandava la segretezza della ricetta di padre in figlio o di madre in figlia. In seguito alla distruzione del Tempio nel 70 e alla conseguente dispersione degli ebrei, quella ricetta è andata perduta per sempre. Si sa quali erano alcuni dei profumi usati, ma non in quale percentuale, e nemmeno quali tecniche venivano messe in opera per prepararlo. È però interessante sapere che tra i profumi usati c’erano quelli nominati nei vangeli perché adoperati per Gesù: il nardo, l’aloe, la mirra. Che significa questo? Significa da una parte, che i profumi del Tempio erano profezia, attendevano colui al quale appartengono: profumavano già di lui nelle liturgie quotidiane del popolo di Dio. D’altra parte significa che è davvero Gesù la vera presenza di Dio tra gli uomini. A lui va ogni “Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza” (Ap 7,12), come dice l’Apocalisse. Noi lo proclamiamo usando l’incenso per tutti i segni di Gesù: altare, croce, cero, e per i suoi santi che lo hanno amato e servito. Adesso ti dico un’altra cosa però: San Paolo dice che siamo noi il buon odore di Cristo! Noi siamo o stiamo diventando l’incenso vero gradito a Dio, siamo noi il profumo che attira lo sguardo degli uomini perché si accorgano di Gesù. La tua vita, i tuoi modi di fare, il tono della tua voce, la pace e serenità del tuo volto, fanno fare bella figura a lui. È vero? Si può dirlo di te? Se non si può dirlo oggi, di sicuro tra qualche giorno, dopo che sarai andato a confessarti e avrai dedicato un po’ di tempo alla preghiera e all’adorazione e all’ascolto della sua Parola.

 

  1. Il crocifisso

Ho detto che vicino all’altare c’è il crocifisso. Spesso è sulla parete, visibile davanti a tutti, anzi, anticamente era sempre così. Il sacerdote stava rivolto, come tutti i fedeli, essendo anche lui un fedele, verso oriente: infatti le chiese erano orientate in modo da guardare il sorgere il sole, pensando al “Sole che sorge dall’Alto” (Lc1,78). Su quella parete c’era la croce. Alcuni dicono che il celebrante voltava le spalle alla gente: non è vero, lui si metteva in modo da non voltare le spalle alla croce, dipinta oppure a mosaico o icona o statua. Quando, nel secolo scorso, nella Chiesa è maturata la sensibilità di celebrare l’Eucaristia non solo come sacrificio, ma soprattutto come Cena del Signore, contemplando maggiormente l’aspetto del mangiare insieme il Dono di Dio, l’altare è stato sagomato come mensa: così il prete si trova rivolto verso i fedeli. E la croce? Quella non può mancare. Se sta dietro al prete, lui ne può tenere una piccola sulla mensa. Talora ce n’è una grande sopra l’altare, in modo che oltre a lui la vedano tutti, o una a fianco dell’altare. Perché la croce è così importante? Credo che te lo immagini, e perciò è inutile che io te lo dica. Ti dico soltanto che Gesù l’ha portata sulle spalle, fin che non l’ha aiutato il cireneo. E poi proprio sulla croce si è offerto al Padre, da lassù ha chiesto il perdono per i peccatori, mentre soffriva ha accolto il ladrone nel Regno, e ancora ha consegnato a Maria, sua Madre, il compito di amare il discepolo, e al discepolo di accogliere la Madre come propria madre. È sulla croce che Gesù ha compiuto la nostra salvezza dal peccato, tanto che l’apostolo dice che ha inchiodato alla croce i nostri peccati. E la Messa che celebriamo la chiamiamo anche memoriale della morte e risurrezione del Signore, perché nel momento più solenne ripeteremo sul pane e sul vino le parole con cui Gesù ci ha dato il suo Corpo offerto e il suo Sangue versato proprio sulla croce.

 

  1. Perché vieni?

Scrivendo a proposito del bacio all’altare ho segnalato l’amore a Gesù. Purtroppo s’è visto che qualcuno viene al nostro incontro domenicale per altri motivi. Viene se ha da fare qualcosa, come cantare nel coro o leggere una lettura o fare il chierichetto perché è il suo turno. Abbiamo avuto un periodo in cui, per motivi contingenti di igiene pubblica, si poteva andare a Messa, ma senza coro e senza chierichetti. Come mai alcuni cantori e chierichetti non erano nei banchi come tutti gli altri cristiani? Erano rimasti a casa. Che il loro amore a Gesù sia così precario? A questo punto io, il bacio all’altare, lo farei fare a tutti. Un bacio ben pensato e dato con convinzione. Da lui, da Gesù, riceviamo altro che baci!

Intanto finisce il canto iniziale, le cui parole ci hanno aiutato a sintonizzarci con tutto quello che avverrà nell’ora che trascorreremo insieme. E adesso? Adesso il prete comincia un segno di croce. Un altro? Sì, però stavolta lo facciamo tutti assieme. Lo inizia il prete, e tutti imitiamo. Questo segno di croce non è per dire: ‘Dài che cominciamo’, anche se talvolta il prete lo fa in modo da dare quest’impressione. Tu fallo sul serio, ben consapevole di quel che fai e di quel che dici. Questo segno è l’ordine del giorno della riunione cui sei intervenuto. E ne è anche il riassunto anticipato. Ci inseriremo più profondamente “nel Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, e faremo il memoriale della morte in croce di Gesù, morte che l’ha preparato a vivere con noi la vita da risorto.

 

  1. Segno di croce

Il segno di croce non lasciarlo fare ai chierichetti soltanto, e non guardare come lo fa la signora in pelliccia o la signorina in minigonna. Non lasciarti distrarre da nulla e da nessuno. Tu sai che «chi ben comincia è a metà dell’opera». Perciò impegna mente e cuore in questo piccolo gesto, che sia grande e sempre nuovo. Non è ripetizione; esso non ti renda ipocrita, cioè commediante. Lo fai insieme agli altri: così questo piccolo gesto esprime comunione. La comunione che esprimi è dono e opera di Dio, cioè miracolo. Nessuno è costretto: è gesto libero, e liberante. Chi si professa protestante non lo fa, perché protesta contro la comunione vissuta nella Chiesa: la vorrebbe diversa, come piacerebbe a lui. Non lo fa chi si ritiene ateo, cioè non bisognoso della salvezza di Gesù. Non lo fa chi ha simpatia per altre religioni inventate dagli uomini senza croce e senza crocifissi. Se io fossi capace di spiegartelo bene! Già l’ho fatto (cfr. 6 e 7), ma di certo bisognerebbe ripetere e completare. Comunque sta attento a cosa succede in te quando lo fai. Cosa avviene nel tuo cuore quando alzi la mano alla fronte e poi l’abbassi sul petto e poi la sposti sulle spalle? Cosa avviene dentro di te mentre ripeti quelle poche parole che ti hanno cambiato la vita nel battesimo? Sta attento, perché dovrai spiegarlo o confidarlo ai tuoi figli, ai nipotini, e anche a quel musulmano che lavora con te e domani te lo potrebbe chiedere. Quando lo faccio io, tengo pure tre dita unite a significare, anche con esse, la fede nella Trinità: mi aiuta ad essere più consapevole.

 

  1. Saluto nuovo

Adesso il prete ti porge un saluto. Lo chiamiamo così, ma in realtà è una benedizione. Il più delle volte dice: “Il Signore sia con voi”. Non ha inventato lui queste parole: si trovano molte volte nella Bibbia. Sono rivolte da un profeta o da un angelo a qualcuno quando viene incaricato di qualche missione particolarmente difficile. Queste parole lo aiutano ad accettare un compito arduo e a svolgerlo senza paura. L’ultima volta sono state rivolte dall’angelo a Maria. Così ella ha capito subito che quanto le veniva chiesto doveva essere non solo difficile, ma impossibile per le sue capacità di povera donna giovane e inesperta. Adesso anche noi intuiamo che per fare quello che stiamo facendo non basta la nostra buona volontà e nemmeno la nostra concentrazione. Stiamo vivendo un’ora, quella della Messa, che dovrà cambiare la nostra vita, dovrà riempirla di Spirito Santo, dovrà renderci capaci di diventare un cuor solo e un’anima sola. Questo nostro incontro dovrà dar forza e coraggio e gioia non solo a me, ma anche a tutti i presenti, perché ne trabocchino in modo da cambiare il mondo. È impossibile per noi, perciò è davvero necessaria la presenza in noi e con noi del Signore Gesù. Tutto quello che sarà vissuto in quest’ora non sarà opera umana, ma solo divina. Da subito confidiamo in lui, nel suo intervento. Altre volte il sacerdote rende questo saluto apparentemente più articolato: “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con voi”. Queste parole ce le ha suggerite San Paolo (2Cor 13,13). Lui ha concluso così una delle sue lettere. Pare quasi una risposta al nostro segno di croce.

 

  1. Ancora sul saluto

Non so se sarò capace di capire e di spiegarti il saluto-benedizione che dice: “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con voi”. Dirai che sono troppo pignolo, e che non occorre spiegare la Messa così dettagliatamente: se vai così piano non finirai più. Hai ragione? Hai proprio ragione, ma a me non preme tanto aver ragione, quanto avere Spirito Santo. E lo Spirito Santo gode se comprendiamo bene ciò che lo riguarda. E quando finirò sarà ora di ricominciare daccapo! “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo” che ci viene promessa e donata, cos’è? La parola “grazia” dice un aspetto bello e delicato dell’amore di Dio. L’amore divino che ci viene dal Signore Gesù è gratuito, è vincente, perché vince il potere della morte. Lui ce l’ha dato dalla croce. Mamma mia, come faccio a capirlo? Non c’è da capire: c’è da ricevere e godere. E ringraziare Gesù, che sulla croce ha completato l’amore che dobbiamo ricevere noi. “L’amore di Dio Padre” è un altro aspetto del dono di Dio. È l’amore fedele, che supera e sorpassa le nostre infedeltà, ed è amore misericordioso, di cui abbiamo bisogno minuto per minuto. È l’amore di un Padre che ci tratta come i passeri, cui dà sempre da mangiare, e l’amore che sa contare i capelli del nostro capo. Riesci a immaginartelo? Ultimo: “la comunione dello Spirito Santo”, un altro aspetto dell’amore divino. La comunione bisogna sperimentarla per sapere cos’è. Lo sai se ti senti unito nella fede a qualcuno anche se non è tuo parente. Questo è possibile solo grazie allo Spirito Santo che viene da Gesù. I popoli che non conoscono la fede in Gesù non conoscono la comunione, tanto che nella loro lingua non c’è nemmeno la parola per dirla. Cominciamo la Messa con questa benedizione! Semplicemente meraviglioso.

 

  1. Risposta

E tutti rispondono al prete: “E con il tuo spirito”. Guai se non lo dicessero. Il prete lo deve udire e sentire, cioè udire con le orecchie e sentire con il cuore. Così s’accorge che c’è qualcuno in chiesa, che egli non è solo, ma soprattutto che la celebrazione non è sua, bensì di tutti i presenti. La celebrazione non è un rito, ma è un modo meraviglioso di vivere la comunione. Siamo membra gli uni degli altri, cioè siamo uniti, una cosa sola. Stiamo vivendo immersi nella vita di Dio, che è comunione. Ci dobbiamo sentire membra gli uni degli altri. Quello che fa il prete è fatto da tutti, quello che dice lui viene dal cuore di tutti, quel che vede lui lo vedono tutti. Lui ha benedetto tutti dicendo “Il Signore sia con voi”, e ora tutti benedicono lui dicendo: “E con il tuo spirito”. Lo stesso Signore è accanto a tutti, o meglio, dentro il cuore di tutti: prete e fedeli sono uniti, sono recipiente della stessa vita divina, ma non lui si e noi no, oppure noi si e lui no! La risposta “E con il tuo spirito” fa ricordare che la vita interiore è abitata. Io, grazie a questa risposta che mi dai, mi sento in dovere di badare alla presenza di Gesù in me, e di conseguenza a vivere ogni gesto e ogni parola con tutta serietà. Con serietà non vuol dire col muso, anzi, con tanta gioia. Se il Signore, cioè Gesù e il Padre, che sono uno nello Spirito Santo, è presente, quanta non dev’essere la gioia! La gioia è una cosa seria. Ho detto gioia, non allegria. L’allegria è una risposta psicosomatica a dei gesti o espressioni del corpo, o a parole e toni di voce che fanno ridere. Reazione umana a opere dell’uomo. La gioia invece è frutto di quello Spirito che viene dato da Gesù presente.

 

  1. Aria pesante

Lo sai cos’è successo l’ottavo giorno? Gesù risorto s’è presentato di nuovo in mezzo ai suoi rimasti Undici. E sai cos’ha fatto dopo aver pronunciato il saluto-benedizione iniziale? Ha chiamato Tommaso. La prima volta non era presente, e quindi non l’aveva visto. Tornando otto giorni dopo, Tommaso è rimasto così duro e determinato, che non solo non ha creduto a quello che gli dicevano gli altri, ma per tutta la settimana non ha creduto nemmeno ai propri occhi: vedeva infatti che gli altri erano nella gioia e nella pace e non avevano più addosso la tristezza di prima, ma rimaneva cupo. Come si può stare insieme per celebrare la morte vinta dalla risurrezione, se uno ha la faccia scura e il cuore duro? Non è possibile. Per questo, prima di tutto Gesù vuole liberare la sala dall’aria cupa e fredda diffusa dall’incredulità di Tommaso. Lo chiama vicino a sé con carità e pazienza, gli fa sentire il proprio amore e poi benevolmente lo rimprovera. Io penso a tutto questo quando, dopo il saluto iniziale, ti invito a riconoscere i tuoi peccati. So che non sono crimini, che non sei un delinquente, ma so che anche tu, come io stesso, viviamo in un mondo che ci fa respirare peccato. Ne abbiamo da vendere. Abbiamo respirato per giorni e giorni disobbedienza a Dio, abbiamo ascoltato opinioni e discorsi che disprezzano la croce di Gesù, che ignorano e sminuiscono la sua risurrezione, che giustificano una serie infinita di egoismi. Quelle opinioni le abbiamo approvate e talvolta fatte nostre e passate ad altri, scandalizzandoli. Siamo tristi e cupi. Ci avviciniamo quindi a Gesù per lasciarci amare e rimproverare da lui.

 

  1. Peccati? Di chi?

Avvicinandoci a Gesù ci rimproveriamo da noi stessi, riconoscendo sinceramente e in verità che la nostra fede, se non è morta, è malata, che il nostro amore è rachitico e mescolato ad egoismo, che la nostra speranza ci ha concesso di lamentarci, e quindi anch’essa è deboluccia. Se il nostro pentimento è vero, il clima della chiesa, e in essa dell’assemblea, si riscalda. Da freddo che era diventa un pochino più vicino ad un’atmosfera di comunione serena. Te ne sei accorto qualche volta? Chi non si riconosce peccatore diventa assente, non entra nell’impasto del pane che possiamo diventare per nutrire il mondo, non si scioglie come il sale nell’acqua che dovrà accogliere la pasta, cioè i nostri vicini di casa e colleghi di lavoro, per darle sapore, non si liquefa come la cera per farsi assorbire dallo stoppino per diventare luce sulle strade degli uomini. Riconosciamo i nostri peccati: è un lavoro davvero difficile. Oppure per te è facile? Se fossero delitti si farebbe presto. Ma i nostri peccati per lo più non sono dei massi sulla strada, piuttosto dei sassolini di ghiaia, e sono moltissimi, tanto più pericolosi quanto più sono difficili da vedere: fanno sdrucciolare la macchina che vi passa sopra. I nostri peccati sono la partecipazione al peccato del mondo: questo si nasconde nelle parole che adoperiamo, nel tono di voce cui non badiamo, nelle mentalità ed opinioni date per scontate. Sai dove si nasconde persino? Persino nella tazza di caffè. Te lo dico? Da dove viene il caffè? Dal peccato con cui vengono sfruttati i coltivatori delle piante di caffè indiani o africani che vengono pagati con una pipa di tabacco. Lo stesso per la stecca di cioccolato e per la nutella. E io non so dirti tutto. Quando usi il cellulare, sia quello vecchio che quello intelligente, lo puoi usare perché chi l’ha costruito ha fatto spaccio di… sfruttamento di minatori e di minori. Non lo sapevi? È proprio così. Riconosciti peccatore, sul serio. Come farai a riparare? A pagare il caffè bevuto finora e i cioccolatini digeriti e le ore occupate con il tablet in mano?

 

23 Confesso

Il prete di solito ti lascia un po’ di silenzio che tu adoperi per un veloce esame di coscienza. Chiamiamo così il tentativo di guardarci dentro per vedere quanto abbiamo partecipato al peccato del mondo, quanto spazio abbiamo dato all’egoismo e quanto ne abbiamo tolto all’amore. Se il silenzio si prolungasse potremmo vedere anche quante cose abbiamo fatto senza partire dalla fede, senza fondarle in essa. E ancora se abbiamo dato maggior fiducia alla nostra capacità che a quella di Dio. Per questo ci siamo scoraggiati o delusi e quindi lamentati: tutti sintomi della presenza del peccato in noi. Che fare? Chiedere perdono? Certamente. Spesso ci vien chiesto di farlo con una formula che comincia così: “Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli e sorelle che ho molto peccato” e ci battiamo il petto con la destra quando diciamo “per mia colpa”. Non solo parole, anche colpi. Questi ce li insegna Gesù stesso, quando ci dice che quel tale che pregava in modo gradito a Dio, si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me”, che sono “peccatore” (Lc 18,13). Dicendo questa preghiera farai attenzione che la tua voce sia unita a quella degli altri, e non correrai per farti vedere più bravo, e non andrai più lentamente per apparire migliore! “Confesso…” che significa? Sai cos’è un reo confesso? Ebbene, anch’io e anche tu lo siamo. Dico a tutti che il peccato ha fatto parte della mia vita, e lo ribadisco anche con la mano destra che si muove tre volte. Il peccato è stato presente nei pensieri, nelle parole, nelle opere, e, più di tutto, nelle omissioni. Lo dico a Dio e lo dico anche a te. E poi ho anche il coraggio di chiederti di pregare per me.

 

24 Luoghi del peccato

Abbiamo detto quattro luoghi dov’è stato operante il peccato del mondo: nei pensieri, nelle parole, nelle opere e nelle nostre omissioni. Il peccato, come insegna Gesù, è il non credere in lui. Quando i miei pensieri lasciano Gesù dov’è e non lo coinvolgono, allora in essi entra il peccato. Quando le mie parole esprimono quei pensieri, anch’esse sono avvelenate. Le opere, cioè i fatti, si adeguano facilmente ai pensieri. Possono lasciar vedere che io appartengo a questo mondo, e non al mondo ricco di amore del Padre, cioè il regno dei cieli. Succede abbastanza di frequente, non ti pare? Con la parola ‘omissioni’ poi intendiamo che avremmo potuto donare amore, pazienza, misericordia, essere fedeli, evitare discorsi osceni o barzellette impure, partecipare a gesti di carità, dire una parola di conforto o di fede, arricchire una festa con la nostra partecipazione, e poi ancora molto altro, e non l’abbiamo fatto. Abbiamo omesso di fare qualcosa o di essere là dove la nostra presenza avrebbe potuto rivelare l’amore di Dio. Tutto questo “per mia colpa”, non per colpa di qualcun altro. È importante che a Dio non mi presenti da solo, ma con “la Beata sempre vergine Maria, con gli angeli e i santi”, e con tutti i fratelli che pregano per me. Tu chiedi a me di pregare per te, e io lo chiedo a te. Tutto con umiltà. È vero che abbiamo bisogno gli uni degli altri, perché da soli siamo deboli e fragili. A questo punto il prete esprime un grosso desiderio, che è preghiera e allo stesso tempo esaudimento: “Dio onnipotente abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna”.

 

25 Kyrie eleison

Ci conduca alla vita eterna”, dice il prete invocando il perdono e donandolo. Io le ho pensate tutte quando sentivo questa parola: “alla vita eterna”! A volte pensavo alla morte, che deve star lontana, a volte pensavo all’eternità, che non si può né cominciare né finire, e poi ancora non so cosa. Adesso invece, da quando sono vecchio, quando dico alla vita eterna penso alla vita di Dio Padre, che è amore. E poi penso di arrivare insieme a te a vivere in quell’amore che Gesù ci ha fatto vedere. È l’amore che gli ha fatto accettare la morte, e di conseguenza continua a viverlo da risorto. Dio ci conduce a vivere amando, anche a costo di morire. Facile dirlo, ma farlo… No, sarà facile anche viverlo, perché, quando amiamo, tutto diventa facile, anche rinunciare a piaceri e comodità. A quelle parole tu rispondi con un bell’Amen. Lo dici senza paura, intendendo questo: «desidero proprio la misericordia, ringrazio per il perdono, mi protendo alla vita, che non finisce e non cede, perché impastata di amore». E poi reciti o canti il Kyrie eleison! Le ripeti alcune volte queste espressioni della lingua greca, spesso tradotte come Signore pietà, o giù di lì. Kyrie eleison sta per dire: mi umilio, Signore Gesù, davanti a te: ho bisogno del tuo amore che perdona e che fortifica, ho necessità della tua presenza che vivifica. Alcuni poveracci di cui racconta il vangelo, lebbrosi o ciechi e mendicanti, hanno gridato queste parole verso Gesù, che non si è spaventato, anzi! Lo hanno attirato. Si è fermato per ascoltarle meglio, ed era contento di sentirle ripetere. Per questo le ripetiamo anche noi, così la gioia di Gesù si travasa nel nostro cuore.

 

26 Veniali e mortali

Adesso che sei stato perdonato, perché il prete ti ha dato una sorta di «assoluzione», cioè la parola che scioglie dai lacci del peccato, ti devo dire una cosa. Ci è stato insegnato che con questa parola del prete i peccati veniali sono perdonati. Cosa sono i peccati veniali? Chiamiamo così quelli che tua mamma ti perdona facilmente. Sono sì peccati, ma non ti hanno portato molto lontano dal cuore del Padre e da Gesù. Adesso non occorre che vai a confessarli, puoi ringraziare di essere perdonato. Se però sul tuo cuore pesano dei macigni, detti peccati mortali, allora questa assoluzione all’inizio della Messa non basta. Mortali sono quei comportamenti o azioni, che non diresti a nessuno volentieri. Che sono? Omicidi? Aborti? Adulteri? Discordie incallite? Furti? Testimonianze false che hanno recato danno a qualcuno? Inganni? Bestemmie scandalose? Modi di vivere che Dio non può benedire? Giornate passate senza fede? In questo caso dovrai chiedere aiuto alla Chiesa per convertirti, per rimediare, per cambiare. E al ministro della Chiesa (il sacerdote) chiederai di essere perdonato e riammesso, non dico al diritto - che non è mai un diritto -, ma alla possibilità di mangiare il Corpo di Cristo. Ci sono anche molti cristiani che, quando possono, chiedono perdono al Signore, tramite il sacerdote, anche dei peccati veniali, benché nessuno li obblighi. Celebrano il sacramento della riconciliazione: si avvicinano a Gesù per ricevere, con le parole di perdono che entrano dai loro orecchi, un nuovo soffio di Spirito Santo! E quindi di grazia, forza interiore, decisione di fedeltà.

 

27 Canto angelico

A questo punto la domenica e le feste si recita o si canta una ‘dossologia’. Questa parolona non è una parolaccia, ma una parola greca: sta per dire «riconosciamo la gloria a chi di dovere»! Con altre parole dico che esprimiamo la gioia di conoscere il nostro Dio uno e trino, Padre e Figlio e Spirito Santo. Iniziamo con le parole cantate dagli angeli a Betlemme. Allora le avevano gustate solo i pastori di pecore, che erano ritenuti gli ultimi della società se non addirittura esclusi dalla società, oggi invece le cantiamo noi e le ascoltiamo tutti. “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini amati dal Signore” oppure, talora nel canto, “di buona volontà”. Per buona volontà si intende quella di Dio: gli “uomini di buona volontà” sono quelli che la volontà di Dio vuole amare e salvare. Che cos’è ‘gloria di Dio’? È il bambino di Betlemme! E la pace in terra dov’è? Eccola, là nella mangiatoia! Il bambino è gloria, cioè manifestazione di Dio: chi lo vede, vede l’amore del Padre! E la pace sulla terra, la pace vera, c’è solo dove dimora Gesù. Sai perché? Gesù ti dona lo Spirito Santo, e la pace è frutto dello Spirito! La pace stipulata dagli uomini è fittizia, e dura fino a quando non arriva un nuovo egoismo da soddisfare. La pace di Gesù, cioè la pace che è Gesù, supera gli egoismi. Poi continuiamo dicendo: “Noi ti lodiamo, ti adoriamo…” e non finiamo più di dire cose belle al nostro Dio! Se lo merita. Poi chiediamo anche perdono al Figlio Gesù e lo lodiamo: è l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo ed è Figlio del Padre, siede alla sua destra, è santo, è Signore, è altissimo. È unito allo Spirito Santo nella gloria del Padre. Una preghiera di lode meravigliosa. Quando la cantiamo è ancora più bella. Anticamente, era già in uso nel secondo secolo, era chiamato «canto angelico»!

 

28 Preghiamo?

Finito il canto angelico il sacerdote allarga le braccia e dice: “Oremus”, no, scusa, dice “Preghiamo”. E ti lascia qualche istante in attesa. Che cosa fai tu in quell’attesa? Riesci a pregare, come sei stato invitato? Qualche anno fa ho spiegato ad alcuni ragazzi cosa si può fare in quegli istanti invece che guardarsi attorno. Un anno dopo agli stessi ragazzi ho chiesto: “Cosa fate quando il prete dice: Preghiamo?”. Uno ha risposto: “Io dico: «Grazie, Eccomi!»”. Quel ragazzo non solo ricordava quel che avevo spiegato, ma ha fatto un lavoro encomiabile: ha riassunto tutto in due parole azzeccando il senso del mio discorso, e ha pure saputo adattarsi alla situazione. Infatti, non tutti i preti ti lasciano il tempo di pregare come si deve, ma limitano il tempo a tre secondi soltanto. Quel ragazzo, adattandosi alla brevità del tempo, ha condensato in due parole il contenuto della sua preghiera. La preghiera che al Padre piace vedere o ascoltare dal nostro cuore è proprio questa: ringraziamento e disponibilità. Nei tre o sette secondi di silenzio, tu preghi. Anzitutto ringrazi Dio di essere Padre, di essersi manifestato, di averti amato, di averti dato Gesù. Frutto di questo ringraziamento è disporsi a servire Gesù, a ubbidirgli, a dirgli sempre di sì. Non dovrai perder tempo, che ne hai poco, perché poi il prete dice la sua. Tutti hanno ringraziato e tutti hanno detto il loro “eccomi”, come Maria. Adesso il prete raccoglie tutto questo pregare silenzioso e veloce da parte di tutti, e proclama una preghiera, che pure è molto breve. Quella preghiera si chiama ‘colletta’, perché raccoglie e ripropone quanto tutti i cuori hanno espresso silenziosamente e ciascuno a modo suo. È breve come dovrebbero essere le preghiere: così insegnavano gli antichi padri della Chiesa. Le preghiere lunghe aiutano a distrarsi, quelle brevi tengono l’attenzione. Non è così anche per te?

 

29 Amen roccioso

Hai detto “Amen” alla fine della preghiera pronunciata dal sacerdote? È importante. Ogni parola ha un significato e ogni parola ci educa e ci costruisce. L’Amen è ebraico: meno male che non devi imparare tutta questa lingua, ma tre o quattro parole le usi, ed è utile che anche tu le conosca. Amen ha la stessa radice linguistica del termine tradotto con ‘roccia’: esprime adesione sicura, decisa, completa. È un’adesione stabile come la roccia. E roccia è Dio. La preghiera pronunciata dal sacerdote è proprio tua: anche se non l’hai capita bene, adesso è arrivata agli orecchi di Dio, e lo ha smosso e commosso. Sì, commosso, perché ci ha visti tutti uniti davanti a lui. Di sicuro farà qualcosa per noi, e per la Chiesa intera. Dopo l’amen ti siedi comodo. Mi raccomando, mettiti comodo, che non ti faccia male la schiena, e nemmeno le ginocchia. Dico sul serio, perché ci sarà bisogno di attenzione. Se il banco è scomodo cerca la posizione migliore, senza lamentarti. Una volta le persone erano di statura sensibilmente più piccola della nostra: i banchi andavano bene per loro. A rifarli, il tuo portafoglio non basta. Quindi, niente lamentele. Sull’ambone intanto è salito un lettore o una lettrice. Chi è il lettore? È uno che sa leggere. Dovrà leggere quella che chiamiamo Parola di Dio. È un po’ impegnativo, per questo è difficile trovare chi lo faccia. Leggere la Parola di Dio non impegna soltanto a pronunciare dignitosamente sillabe e frasi, impegna anche ad usare il tono di voce. Se uno leggesse con un tono di voce arrabbiato o triste oppure vanaglorioso o pieno di sicumera, potresti forse dire che ha letto “Parola di Dio”? Il lettore sa che per leggere con un tono di voce che Dio possa riconoscere come suo, è necessario avere Spirito Santo nel cuore. Solo così sarà possibile. E per avere Spirito Santo nel cuore deve amare Gesù, e deve amare anche le persone che ascoltano, e anche quelli che non ci sono in chiesa. Il lettore cerca quindi di presentarti la Parola di Dio prima con la sua vita e solo in seguito con le parole: il lettore san Martirio era attento a fare proprio così: lo ha scritto San Vigilio nella lettera che ha indirizzato a San Giovanni Crisostomo.

 

30 Leggere

Che cosa fa il lettore? Legge una pagina dal librone verde chiamato Lezionario. Non legge né un romanzo né una paginetta di giornale né un messaggio dal cellulare. Tutte le pagine del Lezionario riportano brani della Bibbia. Alla domenica le letture si ripetono ogni tre anni, che si distinguono in A, B e C. Ogni domenica tre letture: la prima dall’Antico Testamento, oppure, nel tempo pasquale, dagli Atti degli Apostoli, la seconda dalle lettere degli apostoli, e la terza sempre dai Vangeli (nell’anno A Matteo, B Marco e C Luca; a Giovanni sono riservate domeniche nei tempi di Natale, Quaresima e Pasqua e alcune d’estate nell’anno B). Nei giorni feriali le letture sono due: la prima, o dalle lettere degli apostoli oppure dall’Antico Testamento o dall’Apocalisse, e poi il Vangelo. Nei giorni feriali la prima lettura cambia ogni due anni, dispari e pari, mentre il Vangelo è sempre lo stesso. Qui ti soffermo un pochino sulle letture della domenica. La prima, tranne nel tempo pasquale, è sempre tratta dall’Antico Testamento, cioè dal Pentateuco o dai profeti, o dai libri storici o sapienziali. Sono parole nuove per te? Hai mai frequentato un corso biblico? Adesso non ti spiego tutto, non finirei nemmeno l’anno prossimo. Ti chiedo solo: ascolti con attenzione questa prima lettura dall’Antico Testamento? Io ho l’impressione che non ci fai molto caso. Invece noto con stupore, quando leggo il vangelo, come Gesù conosceva bene l’Antico Testamento e ne teneva conto sempre. Si vede che di sabato in sinagoga era sempre stato molto attento. Molto spesso, leggendo i suoi discorsi, si può percepire che faceva riferimento o prendeva lo spunto sempre da quelle pagine. Ti faccio degli esempi? Ha nominato molte volte Mosè, Elia, Davide, Abramo, e persino la città di Sodoma. Una volta poi ha raccontato che il figlio prodigo, trovandosi tra i porci, ha avuto nostalgia di casa. Che ha fatto? Si è preparato le parole da dire a suo padre per chiedere perdono. Ebbene, sai che il profeta Osea proprio questo dice al popolo peccatore: “Preparate le parole da dire e tornate al Signore” (Os 14,3)? Invece a chi soffre persecuzione per la fede, e quindi dimostra di essere amico di Dio, Gesù dice di non prepararsi le cose da dire, perché ci pensa lo Spirito Santo! Allora, dato che Gesù stesso ha fatto gran tesoro dell’Antico Testamento, non darai anche tu attenzione alla prima lettura?

 

31 Rendiamo grazie

Finita la prima lettura il lettore proclama: “Parola di Dio!”, e tu rispondi: “Rendiamo grazie a Dio”. Certo, è importante ringraziare colui che ti ha parlato. Se Dio ci parla è segno che ci ama e ci stima. Speriamo che il tuo e il mio grazie sia sincero e profondo: per dirlo bisogna aver compreso quanto è stato letto, altrimenti siamo ipocriti! Lo stesso lettore poi ti propone un ritornello da ripetere ad ogni strofa del salmo che legge dopo la Lettura. Questa è una preghiera che ci dovrebbe aiutare a rispondere a Dio che ha parlato: per questo si chiama ‘salmo responsoriale’. Talvolta il ritornello viene cantato, e nelle chiese dove ci sono persone preparate, viene cantato anche il salmo. Parteciperai anche tu con il tuo cuore a questo salmo? Certamente: non tratterai Dio come se fosse sordo! E poi, ecco la seconda lettura. Dalla voce di un altro lettore o lettrice stavolta ascoltiamo uno degli apostoli. Spesso è San Paolo, perché di lui sono conservate ben tredici lettere, mentre di Pietro solo due, tre di Giovanni, una di Giuda e una di Giacomo. Qualche volta ascoltiamo anche dalla lettera agli Ebrei, che non sappiamo chi l’abbia scritta. Qualcuno dice sia stato Barnaba, che ha collaborato tanto con Paolo. A volte sentiamo anche qualche brano dall’Apocalisse: l’ha scritto san Giovanni: è un libro che non solo è difficile, ma è persino impossibile comprenderlo. Richiede molto Spirito Santo per ascoltarlo senza spaventarsi: può essere compreso dai cristiani oppressi e cacciati. Parla della Chiesa che deve affrontare sempre persecuzioni, proprio come in questi tempi, nei quali pare che tutti i ‘grandi’ si siano coalizzati per toglierle la sabbia di sotto ai piedi, per colpirla al cuore, per avvelenarla in molti modi, per imbavagliarla. Ma, niente paura: se esiste ancora, nonostante tutti quelli che nei duemila anni della sua storia hanno tentato di soffocarla, riceverà ancora nuova vita dal suo Signore! Il nostro sangue sarà seme di nuovi cristiani!

 

32 Errori di lettura

Il secondo lettore ha finito. Ripeto, perché è utile ripetere: il lettore non è un santo, bensì un cristiano normale, come te. Sapendo però che ciò che legge è ispirato dallo Spirito Santo ed è Parola di Dio Padre, e quindi è espressione del Verbo, cioè del Figlio, si prepara a leggere vivendo una vita gradita a lui. Questa è la preparazione veramente necessaria. Così già la sua vita è Parola scritta “non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di cuori umani” (2Cor 3,3). Se non lo è già del tutto, lo diventerà man mano. Se farà qualche errore di lettura gli perdonerai: se legge ‘gelati’ al posto di ‘Galati’, farai sì un risolino, ma non è un errore tale da prendersela. Se si arrabbiasse perché è stato avvisato tardi del suo turno di lettura, sarebbe errore peggiore! Se uscendo dalla chiesa lo trovassi ubriaco al bar, contraddirebbe quanto ha letto. Se lo trovassi a raccontare barzellette oscene o peggio, con la stessa bocca con cui legge la Parola di Dio, gli chiederai di correggersi, e se non ti ascolta lo dirai al parroco, che potrà cancellarlo dal gruppo dei lettori. Se tu invece cerchi di essere fedele al Signore, offriti pure con libertà a leggere, e sarai beato. L’impegno di lettore ti aiuterà a vivere in modo nuovo, maggiormente consapevole, e riceverai desiderio di approfondire la Parola di Dio: tutto a tuo vantaggio, anzi, sarà a vantaggio della Chiesa e della sua santità. Il lettore merita una beatitudine, lo dice la Parola di Dio, nel libro dell’Apocalisse: “Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte: il tempo infatti è vicino” (1,3).

 

33 Alleluia

Ora intanto è già iniziato il canto dell’Alleluia. Dopo l’amen è la seconda parola ebraica che usi molto e devi conoscerne il senso: significa “lodiamo il Signore”. Lo lodiamo davvero, e ci alziamo in piedi, come i militari che si mettono sull’attenti quando arriva il loro generale. Lo lodiamo cantando di solito una riga della lettura che seguirà: prima e dopo c’è, ‘alleluia!’, come un panino imbottito. In tal modo ci prepariamo ad ascoltare una pagina del Vangelo. Questa viene letta dal celebrante, oppure, se ci fosse, dal diacono. Prima di avvicinarsi al libro, il sacerdote si inchina all’altare o alla croce e rivolge una preghiera a Dio chiedendogli ciò che serve per leggere degnamente la Parola del Signore. Quindi rivolge una benedizione a tutti i presenti perché anch’essi l’ascoltino degnamente. Dice: “Il Signore sia con voi”. Sai già che queste parole sono rivolte a chi sta per iniziare un’impresa difficile, che può svolgere solo se accompagnato da Dio. Ascoltare il vangelo è davvero un’impresa: ti dirò perché. Ascoltare il vangelo è entrare in comunione con la Chiesa dei santi, quella degli apostoli, quella dei martiri, quella delle vergini e dei confessori della fede. Ascoltare il vangelo non impegna solo le orecchie e l’intelligenza e la memoria: diventa arricchimento a tutti i livelli, e impegno di vita. Sai perché? Semplicemente perché chi “ascolta e non fa” è uno stolto, ma “chi ascolta e fa” quanto ha ascoltato, è come “il saggio che ha costruito sulla roccia” (Mt 7,24ss). Tu ascolti come un saggio? Certamente sì, perché vuoi fare ciò che ascolti. Ma per farlo necessiti di decisione, di fortezza, di umiltà e di carità, tutti doni dello Spirito Santo. Per questo il celebrante dice: “Il Signore sia con voi”, e tu anche questa volta rispondi: “E con il tuo spirito”. Anche il prete dev’essere benedetto da tutti, perché anche lui deve essere saggio, anzi, così saggio da diventare esempio ai saggi.

 

34 Vangeli

Appena tu hai risposto “E con il tuo spirito” il celebrante annuncia il Vangelo: “Dal Vangelo secondo…” e dice il nome dell’evangelista. Lo sai che sono quattro gli evangelisti? Quattro, uno più… dell’altro! Non so come dire, se uno più bello dell’altro, o più delicato, o più forte, o più semplice, o più profondo…! Sono diversi uno dall’altro, hanno caratteristiche diverse. Si può capire benissimo che i Vangeli sono scritti da quattro persone diverse. Ognuno di essi ha scritto per la sua comunità. Ogni comunità aveva da affrontare difficoltà e problemi diversi da superare. Chi legge attentamente, più attentamente di me di sicuro, riesce a cogliere quali potessero essere le situazioni delle varie Chiese. Questo spiega le piccole o grandi divergenze se non addirittura contraddizioni che possono esserci tra l’uno e l’altro. La sostanza però è la stessa: tutti ci comunicano la Bella Notizia che Dio Padre ama noi uomini, anche se peccatori, e ci ama donandoci Gesù. E Gesù ci trasforma col suo Spirito: da peccatori ed egoisti riesce a farci diventare santi, cioè capaci di amare come ci ama il Padre. I quattro vangeli per noi sono tutti importanti, dono di Dio. Ascoltiamo volentieri la lettura della pagina che ci viene proposta, a volte brevissima, a volte più lunga. È lo Spirito Santo che ha ispirato ognuno degli evangelisti a scrivere ciò che serviva ai cristiani allora e ciò che serve a noi oggi. Proprio così: a noi oggi serve perché ci convertiamo. Infatti Gesù stesso ha detto: “Le mie parole non passeranno” (Mc 13,31), cioè non perdono valore, non diventano inutili, non ignorano le tue difficoltà. Noi ascoltiamo con attenzione, come si ascolta Gesù: lui sì che ha autorità. La sua Parola, e i fatti da lui compiuti, ci parlano e ci illuminano.

 

35 Ascoltare

Mentre ascoltiamo attentamente, stiamo già accogliendo l’invito che Gesù ci ha offerto: “Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28). È vero, siamo stanchi e oppressi perché il peccato del mondo che ci circonda ci opprime e ci sfinisce. Se poi quel peccato condiziona anche i nostri pensieri e le nostre azioni, ancora peggio. Ascoltiamo perciò con attenzione: per questo ci siamo alzati in piedi. Ascoltando riceveremo da Gesù il suo santo Spirito. Riceveremo forza a vincere i nostri egoismi, riceveremo ispirazioni a cambiare alcuni atteggiamenti, e luce per le nostre scelte quotidiane. La nostra vita sarà influenzata dall’amore di Dio e il nostro volto così rifletterà la sua santità, diverremo rivelazione della sua presenza per i nostri fratelli. Alla fine della lettura il sacerdote dice: “Parola del Signore”! Con questa espressione sottolinea ancora il valore di quanto hai ascoltato. E tu risponderai: “Lode a te, o Cristo”. Prova a dire queste parole come fossero tue, e non imparate a memoria. Vedrai come sono diverse, e come ti aiutano a continuare l’attenzione!

Ti sei già seduto? Hai fatto bene. Adesso ascolterai l’omelia, comunemente detta ‘predica’. Parla il celebrante. Cosa dice? Cosa dovrebbe dire? Ricordo che trentotto anni fa ho sofferto tanto e poi tanto durante un’omelia. Avevano chiesto a me di predicare, ma mi sono rifiutato, per soggezione verso l’altro sacerdote, professore e monsignore! Questo sacerdote poi, predicando a lungo, non sapeva che dire e non diceva nulla: neanche un accenno al vangelo, nemmeno una Parola del Signore. Io soffrivo perché vedevo che le persone che riempivano i banchi di quella grandissima chiesa non ricevevano pane per quella settimana, nemmeno briciole. Allora ho promesso al Signore: «Ogni volta che mi si chiederà di predicare, non rifiuterò mai più. Dirò poco, parlerò male, ma parlerò di te, Pane della vita».

 

36 Omelia utile?

L’omelia richiama qualche riga delle letture, in particolare del Vangelo, e aiuta a vedere come il messaggio di queste letture si può vivere in modo da essere saggi, come quel tale che costruisce la casa sulla roccia. In tal modo il cristiano che ha ascoltato manifesta al mondo la vita di Dio, cioè l’amore del Padre per il Figlio e l’obbedienza del Figlio al Padre. Il sacerdote ha un bell’impegno. Si prepara anzitutto pregando, per ricevere Spirito Santo, affinché la sua parola rifletta il pensiero del Padre. Ma la sua preparazione non basta: occorre anche la tua, altrimenti l’omelia rimane monca. Non me lo invento io; già san Gregorio Magno ha scritto che non vengono date le parole al prete, se chi lo ascolta non ascolta il Signore. Allora tu ti preparerai dicendo pressappoco così nel tuo cuore: «Adesso parlami tu, Gesù, attraverso il sacerdote. Sei tu che vuoi il mio cuore, sei tu che mi darai consolazione o esortazione, suggerimenti o rimproveri. O in qualche parola o in qualche sospiro del prete udrò la tua voce. Grazie, Gesù, che ti occupi di me». Quando tu hai forte desiderio di ascoltare il Signore, il Signore stesso si sentirà costretto a dare al sacerdote i pensieri e le parole che ti edificheranno e ti renderanno membro vivo del Regno dei cieli. L’omelia può essere breve o lunga. Se è breve sei contento, se è lunga ti stanchi. In questo caso non arrenderti a pensar male del prete, ma fissati uno dei pensieri che ti arricchiscono e piantatelo nella memoria. Ti aiuterà durante la settimana. E la tua fatica non sarà stata inutile. La conclusione dell’omelia è sempre piacevole, come racconta persino qualche barzelletta. Un predicatore, dopo la Messa, chiede ad una signora: “Quali passi della predica le sono piaciuti di più?”. Ella non voleva rispondere, ma la faccia del prete le ha dato coraggio: “I passi che ha fatto per scendere dall’ambone!”. Lo credi? Ero io quel predicatore. Signore, abbi pietà di me!

 

37 Credo

Se l’omelia ha portato frutto, da cosa lo si vede? Forse ricordi qualche bel pensiero. Puoi aver compreso qualche Parola della Scrittura in modo più vivo, o hai ricevuto una spinta a perdonare, ad amare, a vedere le cose in un modo più spirituale, a conoscere l’amore del Padre in qualche altro aspetto mai pensato, o dimenticato. Talvolta nulla di tutto questo. Allora è tutto inutile? Non credo: la tua attenzione e la tua fatica ad ascoltare è premiata dal Signore in altro modo: ti ha donato Spirito Santo. E questo anche se non ricordi nulla, persino se sei stato distratto pensando ai tuoi problemi o alle tue fatiche quotidiane. Ti vien dato qualche attimo di silenzio? Riposa e rifletti.

Adesso ti alzi in piedi di nuovo e cominci a recitare il Credo. Lo conosci? Non dico a memoria, il che è facile, ma conosci il significato di ogni frase e parola? Sai perché lo recitiamo? Sai chi l’ha preparato? E perché è stato proposto? E cosa s’aspetta il Signore da questa recita, che a volte sembra forzata? Adesso non te lo spiego parola per parola, anche se sarebbe necessario, ma un po’ di tempo te lo faccio perdere. Scusa, no, te lo occupo. Il “Credo” lo chiamiamo ‘simbolo della fede’. La parola simbolo è una bella parola che ha un bel significato: ‘mettiamo insieme’. Se ‘mettiamo insieme’ la mia fede con la tua, ci riconosceremo fratelli. Io saprò chi tu sei e tu saprai chi sono io: avremo la stessa conoscenza di Dio, avremo amore per la stessa persona, saremo uniti e concordi. E potremo fidarci l’uno dell’altro.

 

38 Simbolo della fede

Nei tempi passati, come anche ai nostri giorni, era facile trovare persone intelligenti che si ritenevano più intelligenti degli altri; ebbene riuscivano a fare ragionamenti originali su Dio, diversi dall’annuncio degli apostoli. Così qualche personaggio contraddiceva qualche parola del Vangelo: questa opinione dai cristiani veniva chiamata ‘eresia’. Ad un aspetto vero e santo della fede aggiungevano qualcosa di seducente e così traevano conclusioni squinternate. La vera fede andava a farsi benedire. Presunti nuovi Maestri formulavano curiosità per rendere più facile la vita del credente. Pensa, una delle prime eresie dichiara che Gesù non è Dio, bensì solo uomo. Da questa idea deriva la possibilità di dar meno peso agli insegnamenti del Signore, di tener per buoni solo quelli che piacciono, e quindi di fare quel che si vuole. Inoltre ne viene la convinzione che tu non sei salvato dal Salvatore, ma che tu stesso devi impegnarti a salvarti con le tue forze, se ne hai. Non è ancora morta questa eresia. Un’altra voleva far credere che lo Spirito Santo non è persona divina, quindi Dio perderebbe la sua forza e anche la sua sapienza, a vantaggio di chi? Ne avevano vantaggio gli imbroglioni patentati. I vescovi, tra i quali alcuni veramente santi, vigilavano. Appena possibile, finito il tempo delle persecuzioni dopo l’editto di Costantino, hanno pensato di riunirsi per confrontarsi, vedere qual è la fede di tutte le Chiese e arrivare a presentare ai credenti la fede apostolica. Eccoli a Nicea nel 325, a Costantinopoli nel 381, a Efeso nel 431 a Calcedonia nel 451, di nuovo a Costantinopoli nel 553, e poi ancora. Avevano a che fare con eresie sempre diverse. Già nei primi due Concili sono riusciti a mettere insieme un ‘simbolo della fede’, chiamato appunto niceno-costantinopolitano: è quello che reciti tu la domenica. Era già conosciuto un altro simbolo, detto apostolico, ma non era sufficiente per prevenire il danno delle nuove eresie forti e deleterie. Essi nel simbolo hanno raccolto parole dei Vangeli e degli Apostoli, in modo da dire ai cristiani: è così che crediamo, è questa la fede che la Chiesa di tutto il mondo (= cattolica) professa e vi propone. Quanto non è nel simbolo, o lo contraddice, è frutto di opinioni umane, ma non è conoscenza del vero Dio Padre e Figlio e Spirito Santo.

 

39 Credo in

Come già detto, non provo nemmeno a spiegarti tutto il Simbolo: ci vorrebbe un’altra serie di trafiletti come questi. Ma qualcosa devo dirtela. Tre volte diciamo Credo in… La prima volta: Credo in solo Dio Padre. Dio non è un Dio qualunque: è Padre. È Padre perché c’è il Figlio. Quindi Dio non è un solitario. Non è senza amore, come gli dei pagani o il Dio dei musulmani o quello dei Testimoni di Geova. Il Dio in cui crediamo si relaziona, cioè può e ‘deve’ amare. La seconda: Credo in un solo Signore Gesù Cristo. Affidiamo la nostra vita a Gesù Cristo, uomo come noi, ma ricco di tutto l’amore del Padre, quindi portatore di vita divina. Mi segui? O hai già perso il filo? Affermiamo poi varie definizioni di questo Figlio, proprio perché attorno a lui sono sorte un gran numero di eresie, cioè di menzogne. Dobbiamo difenderci dagli inganni. La terza volta: ‘Credo nello Spirito Santo’. Anche di lui diciamo che è Signore e dà la vita: è Dio, non un terzo Dio, ma fa parte di quella comunione d’amore che è l’unico Dio nostro, che amiamo e a cui obbediamo. Una quarta volta c’è la parola credo: stavolta però è Credo la Chiesa, e non «credo nella Chiesa». ‘Credere in’ significa infatti affidare la propria vita a qualcuno: noi l’affidiamo solo a Dio. Per questo non diciamo credo ‘nella’ Chiesa: la nostra vita è già affidata. Allora come la mettiamo? Stavolta la parola ‘credo’ significa: affermo che la Chiesa è opera dello Spirito Santo, dono di Dio, edificio santo, necessario per i figli di Dio. La Chiesa dono di Dio: lui l’ha prevista, non posso far senza, squalificherei Dio. Di essa faccio parte volentieri, senza lamentarmi se mi costringe ad usare pazienza e a dover perdonare, come il buon grano che si trova a crescere accanto alla zizzania. Gli altri, anche se migliori di me, sono tuttavia peccatori. Anche la Chiesa può essere croce per me, come io lo sono per chissà quanti in essa!

 

40 Problemi e discussioni

Non mi stanco di ripetere che il ‘Credo’ è importante, perché è importante la esattezza della nostra fede. Il primissimo abbozzo del Credo è il segno di croce, un secondo il canto angelico, il Gloria. Il Simbolo è diventato necessario in seguito, nel quarto secolo, per difenderci dalle eresie, come ho già scritto. La recita di questo Simbolo nella liturgia domenicale, per l’insistenza dell’imperatore Enrico II, santo come la moglie Cunegonda, poco dopo l’anno mille fu estesa a tutta la Chiesa romana dal papa Benedetto VIII. Il Credo è stato al centro di complicatissime e lunghe controversie nella Chiesa, fino a diventare la giustificazione della divisione tra la Chiesa bizantina e quella Romana. Il problema è stato, al tempo di Carlo Magno, l’inserimento nel testo latino del termine ‘Filioque’, a proposito dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo viene dal Padre: aggiungere ‘e dal Figlio’, è stato un errore imperdonabile, a sentire gli Orientali, e invece più che normale per gli Occidentali. Fatto sta che gli uni e gli altri non si ascoltavano: avevano tutti ragione, dal loro punto di vista. Nemmeno facevano caso alle testimonianze di grandi Padri della Chiesa sia in Oriente che in Occidente. Nessuno considerava il punto di vista degli altri: se ne è discusso invece nel concilio di Firenze nel 1439, trovando unità e gioia. Poi l’unità raggiunta e sottoscritta è stata ignorata per motivi politici. Oggi la cosa non fa più problema, se non a chi ama la divisione. Ma questi non hanno Spirito Santo! Importante è che io e anche tu siamo umili figli per il Padre, uniti strettamente a Gesù, illuminati e mossi dall’amore dello Spirito Santo. Non ci lasciamo inoltre distrarre dalle fantasie di chi parla di energie e di olismo e di karma: in questi linguaggi non c’è posto per la fede, né nel Padre né nel Figlio. La Chiesa, opera dello Spirito Santo, ci difende ancora e ci aiuta nella fedeltà alla “nostra santissima fede” (Giuda 20).

 

40 bis - Catecumeni, Uscite!

Siamo arrivati a quaranta punti, un numero importante: è il numero di qualcosa di completo, che ha preparato l’inizio di un prossimo compimento. A questo punto della Messa si fa uno stacco. Anticamente fin qui partecipavano tutti, anche coloro che della fede e della Chiesa erano solo simpatizzanti, e pure i catecumeni, cioè quelli che si preparavano al Battesimo. Conclusa la liturgia della Parola, tutti questi venivano congedati. Rimanevano solo i «fedeli», cioè i battezzati, che avevano fatto il passo di credere in Gesù, di accettare di entrare nella sua morte e nella vita nuova della sua risurrezione. Oggi non facciamo queste differenze, lasciamo che restino tutti, persino chi si dichiara non credente. Talvolta infatti assistono alla Celebrazione Eucaristica autorità cittadine o statali, politiche o militari o sociali o accademiche, o rappresentanti di altre religioni, o parenti dei credenti, senza che venga chiesta loro la carta di identità cristiana. Ci sono i pro e i contro per ogni scelta. I contro sono che rischiamo di trasformare la nostra festa di comunione e di fede in un rito civile, oppure rischiamo di dover abbassare tanto il tono spirituale per adattarci al livello minimo, affinché queste persone non si sentano escluse. I pro sono che diamo a Dio l’occasione di intervenire, con la sua luce e con la forza dei suoi miracoli, in cuori duri o in anime bisognose o in chi ancora non lo conosce per nulla e non ha mai gustato la pace e la gioia della fede.

 

Visto questo stacco, volevo farlo anch’io e lasciarti qualche giorno senza i miei interventi, così… da accorgerti se li desideri o se ti lasciano indifferente. Ma, - non ricordo chi è stato, forse l’angelo custode?, - mi ha fatto notare che nessuna mamma smette di dare la colazione ai suoi bambini, nemmeno per tre giorni. Non sono una mamma, e nemmeno preparo la colazione, ma questa paginetta la si può paragonare proprio alla colazione. E allora eccomi subito con la prossima puntata.

 

41 Preghiera dei fedeli

La seconda parte della Liturgia, anticamente riservata ai fedeli, cioè ‘ai santi’, che equivale dire ‘ai battezzati’, inizia con una preghiera litanica detta appunto «dei fedeli». Nella liturgia romana è lasciata alla libera iniziativa. Può essere preparata dal celebrante, che può anche affidare il compito di formularla ai fedeli stessi. Qualcuno ha preparato dei sussidi contenenti vari formulari già bell’e pronti. Vengono proposte delle intenzioni che rispecchiano necessità varie del mondo o della Chiesa o della parrocchia. In pratica, è una preghiera di intercessione che ogni volta può essere diversa. Nelle liturgie orientali, bizantina, siriaca, caldea, mozarabica, copta, armena e maronita, il formulario è pressoché identico ogni giorno. Noi saremmo pronti a dire che in tal modo risulta monotono, sempre quello: a noi occidentali infatti piace il cambiare, vogliamo la novità, anche fosse poco significativa, poco incisiva e ancor meno spirituale. Essi invece dicono che in tal modo è davvero preghiera condivisa da tutta la Chiesa, e sono contenti che a lungo andare i fedeli la imparino a memoria, per ripeterla anche privatamente o in famiglia. Io non so che dire. Tu che diresti? Se vuoi, sappi che ho preparato anch’io tre schemi, sempre adeguati. Se vuoi, te li posso mandare per quelle occasioni in cui dovresti o potresti preparare tu la preghiera ‘dei fedeli’. In ogni caso è preghiera, è cioè qualcosa destinata ad essere ascoltata ed esaudita dal Padre che è nei cieli. E noi sappiamo che egli non si rallegra per le belle parole o per le frasi arzigogolate, ma continua a guardare il cuore di chi lo… disturba con la preghiera.

 

42 Ascoltaci, Signore

La preghiera dei fedeli è formulata in modo che ad ogni invocazione tutti siano invitati a parteciparvi ripetendo una breve frase a mo’ di ritornello recitato o cantato. Talora viene cantato un bel Kyrie eleison, che piace agli anziani. Ti dico cosa significa: “Signore, abbi misericordia”. Di per sé non occorre dirglielo, perché già usa misericordia con noi tutti i giorni, ma se glielo diciamo rimaniamo noi più umili. Il più delle volte vieni invitato a ripetere: “Ascoltaci, Signore”. A me vien da pensare che sia quasi quasi offensivo: Dio infatti non è sordo, lui che ci ha fatto le orecchie! Lui ci ascolta di sicuro, perché ci ama davvero, e tien conto di quel che gli diciamo, come un papà tien conto di ciò che gli dicono i suoi figlioli. Siamo noi piuttosto sordi alla sua parola. Le frasi che vengono formulate riguardano le necessità della Chiesa sparsa nel mondo, con menzione del papa e del vescovo. Con una chiediamo sapienza e senso di giustizia per coloro che governano i popoli. Un’altra potrebbe riguardare le vocazioni sacerdotali, ma anche le vocazioni a formare famiglie cristiane. Gli ammalati e i sofferenti a vario titolo devono essere presenti alla preghiera, come erano al centro delle attenzioni di Gesù. E i defunti? Anche per essi invochiamo il perdono e la pace della vita eterna, cioè di Dio. Il sacerdote, che ha iniziato questa preghiera, terminandola non lascia mancare il riferimento a Gesù, dicendo: “Per Cristo nostro Signore”. In genere ogni preghiera è rivolta al Padre, e gliela rivolgiamo con fiducia, perché è Gesù, presente in noi e seduto alla destra del Padre stesso, che con la sua croce le dà valore. Il Padre così è ‘costretto’ ad esaudirci, perché le nostre parole sono avvalorate dal nome del Figlio.

 

43 Chiedere e chiedere?

Come fa Dio Padre ad esaudire tutte le nostre preghiere? Siamo specialisti nell’allungarle, anche per coprire persino le nostre superficialità, se non addirittura per incartare le disobbedienze. Le nostre preghiere dichiarano spesso che siamo commedianti. Vogliamo apparire bravi figli, ma attenti ai nostri desideri, ad accontentare i nostri progetti vecchi e inefficaci e inutili per il regno dei cieli, piuttosto che interessarci dei desideri del nostro Padre. Usiamo le preghiere per convincerlo a fare come vogliamo noi. Siamo capaci persino di suggerirgli cosa deve insegnarci. Vedremo come Gesù ci ha insegnato a pregare, con i sentimenti che si dovrebbero esprimere nel ‘Padre nostro’. Adesso, nella preghiera dei fedeli proveremo almeno a formulare intenzioni impegnative per la nostra fede. Presentiamo richieste reali, quelle che crediamo possano venire esaudite. Non chiederemo quindi che ‘tutti’ i malati guariscano: siamo noi i primi a non credere che Dio lo faccia. Non chiederemo che ‘tutti’ i violenti smettano di usare armi: noi stessi diremo che è impossibile. Chiederemo piuttosto per quei tre o quattro malati che conosciamo, per quelle violenze e quelle situazioni ben precise che fanno soffrire il nostro paese o la nostra città, per quei giovani o quei ragazzi che davvero possono impegnarsi nella Chiesa. Così la nostra fede rimane ingaggiata veramente. Preghiera dei fedeli! Terminata questa, vediamo un po’ di movimento in chiesa. Alcuni si alzano dai banchi, e… cosa fanno? Dove vanno?

 

44 I soldi

Inizia il cosiddetto ‘offertorio’. Alcuni, bambini o adulti, si alzano e vanno ad un tavolino posto al centro della chiesa, prendono calice e patena con le particole di pane, prendono le ampolline con vino e acqua e si avviano verso l’altare. Intanto qualcuno passa tra i banchi porgendo o un cestino o un sacchetto per raccogliere offerte. Nella mia chiesa invece i cestini sono posizionati all’ingresso fin dall’inizio, in modo che chi entra possa deporre subito la propria offerta, senza dover più pensare al portamonete. Qualcuno va a prenderli e portarli all’altare. A cosa servono questi soldi? Qualche volte li raccogliamo per scopi specifici, per iniziative missionarie o di carità. Altre volte nessuno dice nulla: allora sono per la necessità dell’edificio chiesa: ceri, gasolio, bollette elettriche, detersivi, fiori, assicurazione antincendio. Lo sai che quest’anno è raddoppiata la cifra di quest’ultima spesa? Tu metti sempre centesimi nel cestino? Qualche volta metti anche un biglietto di carta? Non ti ringrazio io: non lo fai per me, lo sai. Si chiamano ‘offerte’ in modo particolare però il pane e il vino che arrivano all’altare: il pane arriva sotto forma di ‘particole’. Con questa parola indichiamo dei pezzetti di pane azzimo, cioè senza lievito, confezionati spesso da suore e pronti per essere usati senza dover spezzare pani più grandi. Pane, vino e acqua ci serviranno tra poco. Qualche volta, in qualche occasione o festa particolare, vengono portati all’altare anche altri doni significativi, per indicare che tutta la nostra vita è qui presente a questa celebrazione. Tutte queste cose vengono consegnate al sacerdote celebrante, che le depone sull’altare. Quindi lui stende al centro di esso un panno bianco quadrato, che chiama ‘corporale’. È sopra questo che arrivano i vasi del pane e il calice per il vino.

 

45 Benedetto sei tu

Adesso il prete prende in mano la patena o coppetta con le particole di pane, dove ce n’è anche una più grande che verrà spezzata. Cosa fa? Alza un po’ la patena e pronuncia delle parole di benedizione. “Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo”. Il pane non viene chiamato solo pane nella preghiera, ma “frutto della terra”: la farina usata viene dal grano, e il grano è spuntato nei campi. E “frutto del lavoro dell’uomo”, oppure “frutto della tua benedizione al lavoro dell’uomo”. Quale uomo ha lavorato? Ho provato a osservare quel pane: è arrivato qui grazie ad uno che è andato al negozio a prenderlo, al negozio è arrivato con un camion, questo era andato a prenderlo dove veniva confezionato; e lì la farina com’è arrivata? E chi ha macinato il grano perché diventi farina? E chi ha coltivato e trebbiato il grano? Chi ha procurato loro scarpe e vestiti, formaggio e frutta? Chi ha costruito i camion e tutte le macchine coinvolte? Hanno lavorato anche i commercialisti, molti meccanici, i benzinai, qualche medico a curare gli uni e gli altri, maestri che hanno insegnato a fare i conti e specialisti che hanno insegnato l’uso delle macchine. Non riesco a finire la lista di chi è coinvolto in quel “lavoro dell’uomo”. Quei pezzetti di pane e il poco vino rappresentano la fatica di tutti, in poche parole. Qui c’è la vita di tutti, la mia e la tua, la sua e la loro. La vita dell’umanità viene deposta sull’altare. È la vita degli uomini che sarà chiamata da Gesù “mio Corpo” e “mio Sangue”. Mistero! Davvero grande Mistero. Dio si nasconde nella vita degli uomini. Il Padre con il suo amore, il Figlio con la sua obbedienza, lo Spirito Santo con la sua forza di unità, tutto nascosto qui, nel pane e nel vino. Io resto senza parole. Tu ci capisci qualcosa?

 

46 Parole difficili

Il mistero… capire o non capire, andiamo avanti. Se aspettiamo di capire tutto non faremo più nulla: il Signore stesso mi farà capire quel che è utile e necessario per me. “Lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna, … perché diventi per noi bevanda di salvezza”. Ecco l’offertorio: abbiamo offerto a Dio la vita degli uomini tramite quel pane e quel vino. Torneranno a noi come cibo e bevanda che alimentano la vita ‘eterna’ e danno ‘salvezza’. Parole grandi. Qualcuno mi dice: non le capisce nessuno. Io gli rispondo: nemmeno io. Eppure non ne troviamo altre così piene e profonde e degne di Dio. Le capisce però il Padre nei cieli. Questo sì che è importante, che lui le capisca. Noi siamo sempre scolaretti che impariamo, se impariamo! Lui ce le farà comprendere, a suo tempo, quando saremo umili. Abbiamo detto “Benedetto sei tu…”: è la benedizione di cui parla Gesù nelle parole che diremo alla consacrazione: “Prese il pane, rese grazie…” e “prese il calice, ti rese grazie con la preghiera di benedizione”. Gli ebrei dicevano una preghiera molto più lunga per questa benedizione del pane azzimo e delle quattro coppe di vino durante la cena pasquale. Noi abbiamo imparato da Gesù, che le preghiere le accorcia. Non le accorcia perché non gli piaccia pregare, ma perché vuole che pregando non siamo commedianti. Questo è un pericolo quotidiano per noi. Come fa quel pane a diventare “cibo di vita eterna”? E il vino a diventare “bevanda di salvezza”? Intanto chiediamo che Dio lo faccia, e glielo chiediamo benedicendolo e ringraziandolo. “Cibo di vita eterna” è il nutrimento che fa vivere e crescere il nostro amore al Padre e al Figlio, che si traduce in amore tra di noi gli uni gli altri. “Bevanda di salvezza” è il dono che ci fa gioire, sangue che ci trasfonde vita, ci rende consapevoli che non siamo nemici di nessuno, nemmeno della morte.

 

47 Gesto profetico

Quasi quasi dimenticavo… Ma me l’avresti ricordato tu certamente! Prima di prendere in mano il calice e di alzarlo per pronunciare la preghiera di benedizione, il sacerdote fa un gesto profetico. Chiamiamolo così questo piccolo gesto. Prende l’ampollina dell’acqua e ne versa alcune gocce nel vino. Sarà vino annacquato quello che diventerà Corpo di Cristo? Gli enologi e i buongustai si scandalizzerebbero. Allora ti spiego. In oriente il vino era ed è tuttora molto forte, ha cioè una gradazione alcolica elevata. È normale aggiungervi dell’acqua: è previsto da tutti, è normale. Quest’abitudine, presente già nella cena ebraica, viene continuata anche nella celebrazione dai cristiani. La cosa bella è che i cristiani hanno visto in questo gesto una profezia, una parola di Dio che ci manifesta e ricorda un mistero importante. Ho già detto che il pane che diventa Corpo di Cristo è la vita di tutti gli uomini, e anche il vino in egual maniera. Questa verità è troppo importante, perciò la avvaloriamo ancora. Aggiungendo alcune gocce d’acqua il prete dice, di solito sottovoce: “L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana”. Quella poca acqua rappresenta noi uomini, vasi di creta, fragili e deboli e spesso, anzi sempre, peccatori. Ebbene, proprio noi ci uniamo alla vita divina di Gesù, rappresentata dal vino. E quindi anche noi, dopo l’invocazione dello Spirito Santo, saremo Sangue di Cristo, come Gesù e insieme a lui. È proprio vero che questa celebrazione ci rivela e ci fa vivere una meraviglia dopo l’altra!

 

48 Sottovoce

Il prete dice poi un paio di brevi preghiere sottovoce, la prima inchinandosi davanti all’altare: “Umili e pentiti accoglici, o Signore: ti sia gradito il nostro sacrificio che oggi si compie dinanzi a te”. Non si fa sentire da te. È un aiuto per lui a non distrarsi: anche il prete può distrarsi, lo sapevi? Meno male che tu non te ne accorgi! Per fortuna anche lui ha tante distrazioni, così può capirti quando le hai tu. A questo punto nelle Messe delle festività solenni, se si usa l’incenso, si incensano le offerte, cioè il pane e il vino, l’altare, i ministri e il popolo. Il sacerdote poi, a lato dell’altare, si lava le mani. Un chierichetto gli versa dell’acqua e lui dice sottovoce: “Lavami, Signore, da ogni colpa, purificami da ogni peccato”. Lavarsi le mani! Dal beccuccio dell’ampollina escono quattro gocce: io preferisco una bella brocca e un asciugamano vero: niente finte. I miei peccati sono veri, il lavarmi dev’essere vero. Naturalmente non è quell’acqua che purifica il mio cuore: la mia purificazione la chiedo umilmente a Dio Padre con la breve preghiera, e il lavarmi è soltanto un segno. La mia purificazione l’abbiamo già chiesta all’inizio, ma la compunzione deve rimanere sempre viva in me, e io devo ricordarmi che sono bisognoso di misericordia sempre, anche durante la celebrazione, anche se sono io a presiederla. Questo lavarmi le mani non deve somigliare al gesto di Pilato, che intendeva discolparsi dal fatto che cedeva al ricatto dei Giudei. Io lo faccio per riconoscere che sono proprio io colpevole più di tutti, sono più misero del lettore, dei cantori, dei chierichetti e anche di te. Non dire che non è vero, non sprecare parole di adulazione. Unisciti anche tu a questa preghiera silenziosa.

 

49 Sacrificio

Adesso ad alta voce invito tutti a pregare nuovamente. “Pregate, fratelli, perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente”. Per la prima volta il nostro incontro viene chiamato ‘sacrificio’. È una parola difficile, ma insostituibile. Siamo noi che operiamo, che facciamo qualcosa di sacro, oppure è Dio che trasforma noi in un dono santo o sacro? Bella domanda! Noi facciamo qualcosa che sia gradito a Dio, che gli piaccia. Più bello ancora se io e voi diventiamo un sacrificio operato da Dio. Di solito la parola sacrificio nella nostra comprensione si copre con l’idea del soffrire. Non dovrebbe essere anzitutto così. Il primo significato di questa parola nelle lingue bibliche fa pensare ad un avvicinamento, l’avvicinarsi dell’uomo a Dio. Meglio sarebbe dire l’avvicinarsi di Dio all’uomo. Ma attenzione: non azzardiamoci a dimenticare che Dio è amore, è Padre! Sacrificio è il vero uomo, Gesù, che si immerge nell’amore del Padre, o che l’amore del Padre impregna tanto fino a farlo essere Figlio. Dato che il Figlio, Gesù, è uomo, che condivide la nostra situazione decaduta e fragile, la sua immersione completa nell’amore del Padre comprende la morte, e tutto ciò che precede la morte. È quindi un qualcosa di bello, di bellissimo, ma che costa, e continua a implicare sofferenza. Noi non badiamo al prezzo, badiamo alla preziosità. E perciò desideriamo divenire sacrificio, insieme e grazie a quel pane e vino che vengono offerti per questo. Lo saremo nell’amore, per questo sarà estremamente gradito al Padre: ci vedrà somiglianti a lui, anzi, partecipi di lui, del suo amare. Tutti al mio invito rispondono con questo desiderio: “Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa”. Tu queste parole le pronunci a voce alta, senza gridarle. Io capisco che le mie mani, da te in questo modo benedette, diventeranno strumento dell’eternità.

 

50 In piedi

Dopo l’invito a pregare perché il ‘sacrificio’ sia a Dio gradito, il sacerdote a voce alta legge una preghiera breve, la ‘preghiera sulle offerte’. La chiamiamo così, perché con essa presentiamo al Padre i doni per i quali lo abbiamo benedetto, e gli chiediamo, in vari modi e con parole diverse, che il pane e il vino, offerti da noi, tornino come dono suo per la nostra santificazione. Qualche volta infatti preghiamo proprio così: “noi ti offriamo le cose che tu ci hai dato, e tu donaci in cambio te stesso”. A questa preghiera tu ti sei già alzato in piedi, perché la posizione del cristiano per tutte le preghiere è lo stare in piedi. Non so se lo sapevi che lo stare in piedi significa che noi ci poniamo di fronte a Dio con la dignità che lui stesso ci ha dato, quella di figli suoi. Noi non siamo ed egli non ci considera schiavi: per questo non ci buttiamo in ginocchio con la faccia a terra. Questo lo faremo sì, qualche volta in momenti specifici, per esprimere umiltà, penitenza, adorazione. Le preghiere vere e proprie però ci devono vedere in piedi. E così siamo pronti per iniziare la parte centrale della nostra celebrazione, la “Preghiera Eucaristica”. La Preghiera Eucaristica, cioè di ringraziamento bello e vivace, inizia col Prefazio, e questo è preceduto da un dialogo tra il celebrante e i fedeli. Per la terza volta ti senti dire “Il Signore sia con voi”. Da questo ormai capisci che ciò che faremo adesso è una cosa importante, non solo, anche ardua per noi uomini. Questa frase di benedizione viene pronunciata quattro volte nella Messa, come quattro erano le coppe di vino nella cena pasquale. Ogni volta ci dobbiamo accorgere che Dio stesso è all’opera, ed egli agisce per la nostra gioia. Proprio come le coppe di vino venivano bevute per la gioia delle nozze del Figlio di Dio, così ora riceviamo benedizione su benedizione per la gioia della nostra vita e del nostro incontro. E tutti mi rispondete: “E con il tuo spirito”. Non ripeto il significato, che ho già detto, ma io ripeto il mio rientrare nell’intimo del cuore per incontrare là il mio Signore.

 

51 Sursum corda

Il dialogo continua: “In alto i nostri cuori”. Che bella questa parola. C’è chi si diverte a ripeterla in latino in varie occasioni, quando incontra un amico un po’ triste: Sursum corda! È un invito ad alzare lo sguardo e le aspettative. Sta per dire: «C’è qualcuno che ci aspetta, c’è uno pronto a prenderci in braccio, c’è Gesù che vuole consegnarci al Padre». Nessuna tristezza ha motivo di esistere. Può esistere se proprio sei del tutto senza fede. E allora ti ripeto: alza lo sguardo, non fare come il gallo che vede solo il suo mangime, fa’ invece come l’aquila che conquista gli spazi alti. In alto ci sono le braccia del Padre, in alto c’è l’amore di Gesù, lassù sulla croce, con le braccia spalancate: “In alto i nostri cuori”. E tu mi assicuri: “Sono rivolti al Signore”. Devo dirti cosa mi vien da pensare? Talvolta mi chiedo: ‘sarà vero?’. Sbaglio di sicuro. Infatti, qualche volta si vede e si percepisce dal tono di voce che è vero che i cuori dei presenti, il tuo compreso, sono già al di sopra delle cose della terra, al di sopra delle miserie di ogni giorno. Se è vero che il tuo cuore è rivolto al Signore, “Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio”. Non si può fare altro che ringraziare. Ringraziare è il mestiere più sano e più forte che esista. Chi ringrazia non è chiuso in se stesso. Quando ringrazi ti apri a vedere che un altro è più importante di te, che tu sei debitore di amore, che c’è un amore più grande e più bello del tuo. Sei capace di ringraziare? È la prima cosa che i genitori sani insegnano ai loro bambini. Chi ringrazia non si ammala, e se è malato guarisce. Ringraziamo il Signore, quindi ci poniamo davanti a colui che regge cielo e terra. È grande, ma quando lo ringraziamo lo facciamo piccolo, così piccolo che si china ad ascoltarci. “È cosa buona e giusta” mi dici tu. Meno male che sei d’accordo di ringraziare il Signore: lo faremo insieme!

 

52 Fonte di salvezza

Adesso io comincio a recitare il ‘Prefazio’. Questa parola significa ‘da dire prima’, e infatti è una preghiera che dico prima di iniziare il ‘Canone’. Quante parole strane, dirai tu. Ma sta tranquillo, non è necessario saperle: il Signore ti vuol bene anche se non sai questi particolari. Importante invece è che anche tu ti unisca a ringraziare il Padre. Infatti mi hai detto che “è cosa buona e giusta” ringraziare, ora io ringrazio anche a tuo nome. Anzitutto ripeto quello che mi hai detto tu: “È veramente cosa buona e giusta…” e poi continuo a proclamare che è anche “nostro dovere e fonte di salvezza” rendere grazie a Dio Padre per Gesù Cristo. Che sia “nostro dovere” non occorre dimostrarlo: lo sanno tutti quelli che credono un pochino. Invece è importante sapere e ricordare che è “fonte di salvezza rendere grazie”. Persino sant’Ambrogio ha scritto una pagina per dirci che ringraziare è necessario e fa bene, aiuta a vivere, dona consolazione nelle disgrazie, ti tiene in piedi quando tutto va a rotoli, persino se perdi un figlio, se vieni mandato in esilio, se ti manca il necessario (Comm. al Salmo 118: 7,33-34). Se qualcuno ti fa un torto, prima di qualunque altra cosa, ringrazia il Signore. E sarai salvo. Non dirmi che è difficile, non dirmi nulla fin quando non hai provato alcune volte. Credimi: ringrazia per qualcuno che ti fa perdere la pazienza, e riuscirai di nuovo ad amarlo. Dopo questa introduzione continuiamo a ricordare qualcosa di bello per cui ringraziare, o dalla vita di Gesù, o dai misteri della fede, o dalla vita dei santi. I Prefazi sono centinaia, diversi l’uno dall’altro, perché motivi per ringraziare ne abbiamo ad ogni piè sospinto. Dio non ci guadagna nulla, noi invece riceviamo beneficio, perché “ci ottengono la grazia che ci salva”, come dice una di queste preghiere.

 

53 Prefazi

Ci sono dei Prefazi bellissimi, che potremmo meditare a lungo. A me piacerebbe cantarli, perché il nostro Signore merita di essere ringraziato in tutti i modi: lo farei se non fossi stonato come una campana fessa. Tra questi Prefazi mi rallegra soprattutto quello della festa di san Vigilio. Sarà perché per sbaglio porto il suo nome. Per sbaglio, infatti i miei fratelli stavano per darmi un altro nome, e già litigavano per questo davanti al presepio. Meno male che qualcuno è intervenuto a suggerire il nome del nonno, cui tutti volevano bene. Per questo porto il nome di San Vigilio. Il Prefazio della sua festa dice: “Lo hai riempito di zelo per la fede rendendolo instancabile e paziente nel dilatare la tenda della tua Chiesa, tanto da consegnare un nuovo ovile all'eterno Pastore. Sacerdote vigilante, rivelatore d'una verità più piena, seppe leggere negli eventi il tuo mistero e insegnò a riconoscervi la presenza della pietra angolare Gesù Cristo Signore nostro”. È un riassunto splendido della sua fede e della sua opera: vigilante e ispirato a vedere la presenza di Dio negli eventi. I Prefazi hanno questo di bello, che condensano in poche frasi grandi misteri. Tuttavia io devo ricordarmi sempre che le belle parole non fanno preghiera: questa la valuta il Padre, che guarda il cuore, sempre il cuore. Un altro Prefazio splendido è quello dei Martiri Anauniesi: “Tu dall'eternità li hai preparati alla tua gloria, volendo diffondere per mezzo loro la luce della tua verità nel mondo. Li hai armati con il tuo Spirito di verità, dando loro di vincere con la fragilità della carne la potenza della morte. Nel giardino della Chiesa essi fiorirono come rose e gigli: di colore purpureo li decorò il sangue sparso nel martirio, e di purissimo candore li rivestì in premio Gesù Cristo Signore nostro”. C’è da imparare, da meditare e da godere, anche se viene spontaneo tacere ed adorare, come diceva il beato Antonio Rosmini.

 

54 Santo santo

Tutti i Prefazi si concludono con l’invito a lodare il Padre col canto. Quale canto? Non uno qualsiasi, ma quello dei Serafini: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria» (Is 6,3). Siamo già in paradiso con questo canto. Noi lo abbiamo cambiato un pochino, infatti invece di “Signore degli eserciti” cantiamo “Signore Dio dell’universo”. Ma non spaventarti. Dicendo “degli eserciti” i Serafini non pensano alla guerra, e non si armano per andarci, anzi! Dovrebbe tradursi “delle schiere”, e le schiere sono quelle degli angeli, ma anche dei gruppi di sacerdoti che lavoravano nel tempio di Gerusalemme, e anche le schiere dei pellegrini che salivano le gradinate per arrivare al tempio cantando: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore” (Gv 12,13). Profezia per Gesù, che viene sempre, come quella volta che ha preso a noleggio gratuito un asinello! E anche noi questa profezia l’aggiungiamo al canto dopo aver detto: “Osanna nell’alto dei cieli”. Qui c’è un’altra parola ebraica che farai bene a imparare: è un’invocazione, frequente per i pellegrini di un popolo sempre martoriato e incapace di difendersi. “Osanna” significa: “Salva, o Signore!”. Sembra quasi un invocare il nome di Gesù, che è “il Signore salva”. Questo canto è stato musicato migliaia di volte, e ancora oggi i compositori si divertono, o meglio, si impegnano a tradurlo in armonie splendide per tutti i gusti, anche per i miei! Lo cantiamo sempre: i Serafini a volte devono soffrire di invidia, altre volte siamo capaci solo di farli sorridere. Comunque noi impegniamo il cuore, perché il Padre guarda solo quello.

 

55 Canone

Lasciamo che i Serafini continuino il canto, e noi invece ci inoltriamo nel ‘Canone’. Questa parola sta per indicare tutta la preghiera che il sacerdote pronuncia, e le azioni che compie, fino al Padre nostro escluso. Si chiama Canone, che significa ‘regola’, perché è stabilito che nessuno toglierà e nessuno aggiungerà nulla e nessuno cambierà le parole, nemmeno se gli parrà di averne di migliori. Fino al Concilio di Trento (terminato nel 1563) quasi ogni diocesi aveva un proprio Canone con particolarità e preghiere diverse dalle altre. Durante quel Concilio molti vescovi si sono abituati alla bellezza del Canone Romano e hanno sostituito con esso i Canoni delle loro rispettive Diocesi. La Diocesi di Milano, e qualche altra, ha conservato la propria consuetudine. Esiste così ancora il Canone Ambrosiano. Ovviamente hanno un Canone proprio la Chiesa bizantina, che conserva quello formulato da San Basilio († 379) e da San Giovanni Crisostomo († 407), la Chiesa siriaca, quelle maronita, armena, copta, malabarese. Dopo il Concilio Vaticano II° la nostra Chiesa Romana si è dotata di altri nove Canoni, oltre a quello Romano, così che possiamo scegliere di volta in volta quale usare. La scelta la fa il celebrante con il suo discernimento, tenendo conto dei tempi liturgici e delle necessità spirituali dei fedeli partecipanti. Tutti i Canoni sono formulati secondo uno schema comune. Ti risparmio i termini tecnici usati dai preti per distinguere le varie preghiere e i vari passaggi. Si comincia con una lode al Padre e l’invocazione con cui chiediamo che santifichi il pane e il vino per noi, seguono le parole di Gesù nell’Ultima Cena, e cioè la consacrazione, poi…, ma te lo dirò dopo.

 

56 Latino

Ti dico qualcos’altro, anche se di per sè non c’entra. Ci sono persone che dicono: «A questi Canoni della Messa preferisco quello in latino». E percorrono chilometri per arrivare dove un prete celebra la Messa in latino. Là si sentono a proprio agio. Che piaccia la lingua latina o meno è questione di gusti: e i gusti non si discutono, si è sempre detto. Anche tu hai i tuoi gusti, e io i miei. Io riesco a parlare con Dio, e sono contento di farlo, nella lingua che usava mia mamma: me l’ha data lui la mia mamma! So che Dio non guarda i miei o i tuoi gusti, egli guarda il mio e il tuo cuore. E noi dovremmo accontentare i suoi gusti. Che tu parli o ascolti in latino o in italiano o in cinese, Dio guarderà sempre il tuo cuore, e perciò per lui le lingue che noi usiamo di per sé sono indifferenti: importante che non siano fumo negli occhi. Se a noi piace il latino, Dio Padre può anche essere contento, perché è una delle lingue che lui ha ascoltato, o ha dovuto ascoltare, per tanti secoli. Ma anche allora guardava il cuore. Se, per fare chilometri per il latino, ci allontaniamo dalla comunità cristiana in cui viviamo normalmente, solo per un godimento, solo perché ci piace, cosa vede? Vede che accontentiamo i nostri gusti, ma che per questi gusti evitiamo la comunione e la condivisione della fede e spesso anche del servizio con quei fratelli con cui condividiamo il resto della vita. Se poi, per caso, il latino diventasse occasione per giudicare chi usa l’italiano, preti o fedeli, allora proprio non ci siamo. Pensi che il Padre non sia capace di vedere l’orgoglio e la vanagloria, lo spirito di superiorità e quello di critica? L’incenso non ha lingua, ma la lingua potrebbe diventare, invece che incenso, fumo negli occhi, o pugni nella pancia. Allora che ti dico? Non assolutizziamo nulla. Riceviamo quello che ci viene offerto: lo spirito di obbedienza umile ci farà somigliare al Figlio di Dio, che con l’obbedienza si è offerto nel sacrificio che stiamo celebrando e vivendo.

 

57 Canone Secondo

Ora guardiamo uno dei nostri Canoni: lo schema è lo stesso di tutti gli altri. Scelgo il secondo, il più corto, così mi disperderò meno a esaminare i contenuti delle singole preghiere. Ha origini molto antiche, addirittura nel terzo secolo. Lo usava già sant’Ippolito di Roma (martire in Sardegna nel 235). Non è che mi piaccia più degli altri, ma per questa spiegazione mi pare sia sufficiente e mi aiuti a stare all’essenziale. A dire il vero, una certa simpatia per esso ce l’ho, per la sua brevità! Ma non per il risparmio di tempo, semplicemente perché pare che a Gesù piacesse la brevità: ce lo dimostra col ‘Padre nostro’. Le prime parole ci collegano al canto dei Serafini di cui abbiamo ancora nelle orecchie e nel cuore la melodia: “Veramente santo sei tu, o Padre, fonte di ogni santità ”. Che motivo abbiamo di chiamare Dio ‘santo’? e cos’è la santità? Qualcuno ha paura di questa parola perché la sente pericolosa. Ed è veramente pericolosa per il nostro egoismo. “Dio solo è santo”, diciamo spesso anche nelle preghiere. Dio è santo perché il suo amore è diverso dal nostro. Il nostro amore cambia umore: è più forte verso gli amici, verso i parenti, verso chi ci capisce, ed è meno forte verso sconosciuti, addirittura diventa assente verso i cosiddetti nemici, se non diventa addirittura negativo o aggressivo, cioè risentimento o odio verso qualche persona cordialmente antipatica. L’amore di Dio invece si rivolge “ai cattivi e ai buoni” con la stessa intensità: infatti il Padre “fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45) alla stessa ora e con lo stesso calore. Ecco com’è l’amore di Dio, è santo. Chiamiamo santi anche quelle persone che gli somigliano, che ricevono da lui il suo respiro, il suo spirito, che è Spirito Santo. Rivolgendoci a lui, gli chiediamo: “Ti preghiamo: santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito”.

 

58 Santifica

Dico così al Padre: “Ti preghiamo: santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito”, e glielo dico con fiducia e con la sicurezza di essere esaudito, perché è preghiera della Chiesa, preghiera di obbedienza e preghiera di unità: infatti, tu che ascolti, sei unito pienamente alla mia voce. I doni da santificare sono il pane e il vino, lì davanti a me sull’altare. Cos’è “la rugiada del tuo Spirito”? Di preciso non te lo so dire, ma è di certo un intervento che agisce invisibilmente, ma realmente. Glielo dico io a Dio che cosa deve succedere: “Perché diventino per noi il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo nostro Signore”. Ecco cos’è la santificazione dei ‘doni’, un cambiamento vero. Non chiedermi come fa Dio ad ascoltarmi, non chiedermi cosa succede, e nemmeno che cosa vedono i miei occhi. La cosa è più grande di me, più profonda della mia conoscenza e della mia intelligenza. So che Gesù ai discepoli allibiti, durante la Cena pasquale, ha detto quello che diremo anche noi tra poco: “Questo è il mio Corpo”. Ora chiediamo al Padre che mandi lo Spirito per dare verità a queste parole. Corpo e Sangue di Gesù Cristo! Vediamo pane e vino, soltanto. Facilissimo è dubitare, anzi, ritenere pazzia, se non fosse che lungo i secoli qua o là ci sono stati dei miracoli cosiddetti eucaristici, e ancor più sorprendente, ci sono state persone trasfigurate in corpo crocifisso di Gesù, tanto che colava il sangue dalle loro mani e dai piedi e dal fianco e dal capo, con grandi dolori fisici e sofferenze interiori. È un’esperienza che stupisce chiunque. Ricorderai San Francesco d’Assisi e padre Pio, Santa Gemma Galgani e Natuzza Evolo e molti altri. Tra questi anche Domenica Lazzeri, detta Meneghina († 1848 a 33 anni), vissuta nell’ultimo paese sperduto di una povera vallata del Trentino, Capriana. E come lei, nello stesso periodo, mentre i cosiddetti grandi facevano guerre una dopo l’altra per sostenere la loro inutile e dannosa grandezza, soffriva il Calvario anche Maria von Mörl a Caldaro († 1868).

 

59 Corpo di Cristo

Domenica Lazzeri, nata nell’anno della caduta di Napoleone, cominciando a diciannove anni, per altri quattordici, fino all’anno delle rivoluzioni in tutt’Europa, non ha dormito né bevuto né mangiato altro che il pane divenuto Corpo di Cristo sull’altare della chiesa del suo paesino. Il corpo crocifisso e sanguinante di quella ragazza non ci fa comprendere, ma ci fa credere che il pane può diventare veramente e realmente il Corpo di Cristo. E che noi, se non lo crediamo, siamo davvero meschini. Il Corpo di Cristo, pane da mangiare, e il corpo crocifisso degli stigmatizzati si richiamano l’un l’altro. Me lo ha fatto scoprire don Divo Barsotti († 2006), che ha proprio scritto di Domenica, che lui chiamava, come i suoi paesani, Menichina. Ti riporto qui alcune righe di un suo libro: “Un cristiano, con le stigmate, fa presente e visibile nel suo corpo la sua unità col Corpo di Cristo, così come fa presente e visibile nella trasfigurazione del corpo il Corpo glorioso del Risorto. In questi fenomeni, che nessuna esaltazione psicologica potrebbe provocare, si svela piuttosto il mistero di una presenza del Cristo” (Elogio della santità cristiana, ed. Santi Quaranta, 1990). Lo Spirito Santo, pregato da noi, farà diventare il pane, Corpo, e il vino, Sangue del nostro Signore. E lo fa per noi, proprio per noi, cioè per te e per me. Non lo dimenticheremo. Questa preghiera perciò, che ci impegna solo per tre secondi, vale un’eternità. Noi preghiamo così poco, e Dio fa cose tanto grandi, perché noi gliele abbiamo chieste con cinque o sei parole. È una meraviglia. Mi vengono alla mente i miracoli di Gesù: chi chiedeva il suo intervento lo faceva o senza o con pochissime parole. Ciò bastava. Gesù vedeva la fede nel cuore e negli occhi, a volte persino nelle mani che toccavano il suo mantello. Quelle parole devo dirle con fede. E se la mia fede vacilla, la unisco alla tua, che è stabile tanto da tenere in piedi anche la mia. Proprio per questo abbiamo iniziato con quel breve dialogo a botta e risposta, dove tu hai dichiarato che il tuo cuore è in alto presso il Signore. Il pane e il vino che sono sull’altare, diventeranno davvero il Corpo e il Sangue di Cristo?

 

60 Imporre le mani

Mentre pronuncio quelle parole e dico “Santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito…”, stendo tutt’e due le mie mani sopra il pane e il vino. È un gesto che accompagna da sempre l’invocazione dello Spirito Santo, gesto che è anche preghiera. È l’imposizione delle mani, gesto consacratorio: equivale a dire che dalle mie mani scende qualcosa che non è mio, che non viene da me, non viene dalle mie mani, ma da Dio, e riempie invisibilmente di luce e di forza divina questi doni. E questi, che erano nostri doni presentati a Dio, diventano Doni che Dio ora presenta a noi, perché ce ne nutriamo. Quando poi dico “diventino per noi il corpo e il sangue di Gesù Cristo”, con la destra traccio un segno di croce sul pane e sul vino. Un segno, una benedizione, un gesto visibile, un altro atto di fede concreto. Non è la mia mano che conta, ma la fede segreta che con la mano viene manifestata. Tutto questo avviene in pochi secondi, tanto che non solo tu, ma anch’io rischio di nemmeno accorgermi e di vivere questo momento, che impegna la potenza di Dio, cioè tutto l’amore del Padre, di viverlo come il cadere di una foglia cui nessuno bada. E subito continuiamo: il sacerdote ripete quanto è avvenuto all’Ultima Cena di Gesù. Ripete le parole scritte nei primi tre vangeli. Le introduce così: “Egli, consegnandosi volontariamente alla passione”: Gesù non è stato costretto a morire, anzi, avrebbe potuto scappare, com’era già scappato altre volte quando stavano per lapidarlo. Ma questa volta, dato che nelle Scritture sta scritto: “Se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma sei tu, mio compagno, mio intimo amico, legato a me da dolce confidenza!” (Sal 55,13-15), allora, sapendo che arriva Giuda, capisce che è giunta la sua Ora, e non scappa. Egli vuole compiere tutto quanto è scritto, e si offre, come aveva detto ai suoi e ai Giudei, parlando della propria vita: Nessuno me la toglie: io la do da me stesso” (Gv 10,18).

 

61 Prendete

Continuiamo? “Prese il pane e rese grazie, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli”: queste parole le abbiamo sentite a proposito di quei cinque pani che un ragazzo aveva offerto a Gesù alla presenza di cinquemila uomini. Allora egli aveva compiuto un gesto profetico. Anticipava un segno di quel che stiamo facendo noi. Alla Cena ha ripetuto i gesti e il rendimento di grazie al Padre per quel pane, che è la vita degli uomini. È questa nostra vita terrena con tutte le sue fatiche che riceve benedizione smisurata da quanto sta avvenendo. Il pane lo ha spezzato, come prevedeva il rito della Cena pasquale. E così, come allora, anche noi lo spezziamo per poterlo distribuire a chi lo riconosce. E ora, solo io, prete, dico le parole che sorpresero i Dodici riuniti nel cenacolo: “Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi”. Noi siamo abituati a udire questa frase, troppo abituati: non ci sorprende più, purtroppo. Direi, non ci scandalizza più. I giudei sarebbero rimasti scandalizzati e avrebbero gridato alla bestemmia. I discepoli invece amavano Gesù, e allora hanno, non dico capito, ma accolto questo Dono. Io oggi ripeto queste parole, e io sì che qualche volta mi scandalizzo. Quando dico “è il mio Corpo”, penso che è il corpo di Gesù, ma se dico “il mio”, se non faccio il commediante, in qualche modo c’entro anch’io. Non vado più in là, altrimenti scandalizzo te sul serio. Eppure, perché Gesù mi ha chiamato? Non forse perché io sia suo? E questo cosa vuol dire? Se sono suo, il mio corpo è suo, e io sono anche suo corpo. Sono cioè sua manifestazione concreta. I preti su questo punto stanno zitti volentieri, ma sono convinto che, prima o poi, tutti i sacerdoti si imbattono in questo… mistero. Sì, è proprio un mistero, quello dell’incarnazione dell’amore del Padre che continua nella Chiesa.

 

62 Mangiare

Prendete e mangiatene” dice Gesù. Per ‘prendere’ si usano le mani, e per ‘mangiare’ i denti. Non ci sono alternative. Qualcuno mi ha detto: «Ma non si può toccare con i denti, io poi ho i denti finti…, come faccio?». Per Gesù i tuoi denti non sono un problema. Il problema è un altro per lui, è questo: il suo Corpo diventerà il tuo corpo? Cioè tu che fine farai se mangi questo Pane? Per ora pare che non si preoccupi: sa che pregheremo anche per questo e che il Padre ascolterà la preghiera. La Bibbia racconta che Eva prese e mangiò. Ed è stato l’origine del peccato. Si, perché prese e mangiò di sua iniziativa, e prese quello che a lei sembrava “gradevole agli occhi” e “buono da mangiare” (Gen 3). La sua era una iniziativa di disobbedienza e di egoismo: era attenta a ciò che le piaceva, ad accontentare i propri sensi. Qui invece è Gesù che invita e porge il pane ai suoi Dodici dicendo: “Prendete e mangiatene tutti”. Se lo fanno, ubbidiscono, e se ubbidiscono cominciano a risorgere dalla morte nella quale il peccato di Eva li ha fatti cadere. “Prendete e mangiatene”: qui inizia la vera vita dell’uomo. L’uomo stesso deve compiere il gesto di libertà, allungando la mano per prendere dalla Mano che offre. Il Dono viene accolto. Da chi viene accolto? Chi sono quei “tutti”? Gesù lo disse ai Dodici che avevano impegnato per lui la loro vita, lo avevano ascoltato e gli avevano ubbidito. “Mangiatene tutti” non è un invito al mondo intero. È l’invito rivolto a tutti i Dodici, impegnati a “bere al calice” di Gesù, cioè a soffrire con lui per far parte del suo Regno. Adesso ascolta bene: “Questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi”. Mi verrebbe da passare oltre senza dir nulla, perché non sono capace e non sono adatto a dire qualcosa. Sono parole troppo grandi per me. Ma siccome tu ti aspetti almeno qualcosa, scusami. Il sacerdote ha preso in mano il pane, e rivolto ad esso dice queste parole. “Questo (pane) è il mio Corpo”: ogni parola è un dono, un mistero. Come le ha pronunciate Gesù? Cosa intendeva con ‘questo’, con ‘corpo’, con il verbo ‘è’? Pare tutto così semplice, eppure… quante discussioni si son fatte per proporre idee su idee e opinioni su opinioni! Te le risparmio.

 

63 Il Corpo

Questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi”: dicendo ‘mio corpo’, Gesù intendeva la sua carne o la sua identità terrena? Dicendo ‘è’ intendeva dire ‘diventa’ oppure ‘significa’ oppure qualcos’altro? Io cerco di prendere le parole come stanno, con il loro significato più semplice e ovvio: con ‘Corpo’ intendo la sua concretezza di vita qui sulla terra, come è nato dalla Vergine Maria, che ha camminato, parlato, faticato, sofferto, osservato, ascoltato, dormito. Dire ‘è’ non è dire ‘diventa’ e non è dire ‘significa’, non è nemmeno dire che ‘nel pane c’è dentro’… No, ora quel pane “è” la presenza di Gesù che si è offerto, e questo per noi, cioè a nostro favore, per il nostro bene, perché noi riceviamo e alimentiamo la vita, la vita interiore, quella che sa rapportarsi con Dio. Dire poi “in sacrificio” è affermare che il Padre lo gradisce, lo fa suo, che Corpo e Pane sono un’identica realtà davanti a lui. Nei secoli scorsi, per aiutarci a capire, sono state formulate varie parole basate sulle filosofie allora maggiormente in voga. Non so se ti giova ripescarle. Se sei capace di fare come me, credo non avrai bisogno d’altro. Questo però te lo dico: noi crediamo che quel Pane è davvero il Corpo di Cristo, e resta tale fin che non è mangiato. Non facciamo, come ho visto fare da un pastore protestante che, finita la celebrazione, i pezzi avanzati li ha riportati in sacrestia e rimessi nel sacchetto delle particole da consacrare. Quello che avanza noi lo riponiamo in luogo degno e dignitoso, pronto per essere portato ai fedeli ammalati, e lo adoriamo con la genuflessione, e talvolta con preghiera silenziosa o con canti, da soli o insieme ad altri. Davanti o accanto al tabernacolo mettiamo un cero, che resta acceso giorno e notte, come fanno nelle sinagoghe gli ebrei, che tengono una lampada accesa davanti alla tenda che copre l’armadio dei rotoli o libri delle Sacre Scritture. Il piccolo e prezioso scrigno del Pane santo lo chiamiamo ‘tabernacolo’, che significa appunto ‘tenda’: anche questo abbiamo imparato dagli ebrei, nostri “fratelli maggiori”, come li ha chiamati San Giovanni Paolo II°.

 

64 Alzare

Dopo la frase di ‘consacrazione’, il sacerdote alza l’Ostia, consacrata dall’invocazione allo Spirito Santo, dalle parole del Signore appena pronunciate e dalle mani stese su di essa. Questo alzare il Pane per farlo vedere è un gesto che si è diffuso nella Chiesa a partire dal secolo dodicesimo. I fedeli erano contenti di vederlo. Siccome il sacerdote era rivolto verso la croce appesa o raffigurata sulla parete di fondo, nessuno vedeva nulla. Il loro desiderio ha fatto sì che i sacerdoti alzassero sopra il proprio capo sia il Pane che il Calice. Così tutti, vedendolo, lo adoravano con una preghiera o invocazione segreta. Cosa che fai anche tu di certo. Che cosa dici dentro di te? Potresti dire nulla e guardare con amore, ma puoi anche aiutarti ripetendo qualche parola semplice: “Mio Signore e mio Dio” come Tommaso, oppure “È il Signore!”, come Giovanni, o “Tu sei il Figlio del Dio vivente” come Pietro, o “Ti esalto, o Dio, mio re” come il salmo. A volte senti suonare un campanello. Serviva in passato e serve tuttora a svegliare chi s’è perso nei suoi pensieri e preoccupazioni. Non è proprio il caso di pensare ad altro, almeno in questo momento. Il sacerdote poi genuflette. Questo è segno della fede della Chiesa, che crede davvero che quel Pane è e rimane il Corpo di Cristo, sua presenza reale, cioè concreta e stabile. Tu resti in ginocchio nel banco e ascolti in silenzio e osservi con attenzione. Il sacerdote prende nelle mani il calice. È d’oro? Qualche volta c’è dell’oro, altre volte l’oro lo ha visto di lontano. Comunque, se è d’oro, sai perché? Il Sangue di Cristo è degno, non solo che per lui adoperiamo l’oro, ma che per lui spendiamo la nostra vita. Quando il calice lo prendo in mano io, penso all’amore dei nostri trisavoli che, poveri com’erano, preferivano spendere per il Signore, a costo di tirare la cinghia. Quel loro amore è ancora qui, concreto e bello, persino artistico.

 

65 Sangue versato

Con il calice in mano il celebrante continua a dire: “Prendete e bevetene tutti, questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna Alleanza versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me". Sono parole impegnative. Se è “il calice del mio Sangue” vuol dire che quel po’ di vino contenuto nel calice ormai non è più il vino di prima. È il Sangue di Gesù: quello che lui ha versato da tutto il corpo sudandolo nel Getsemani e che poi sprizzava alla flagellazione, scendeva dal capo alla coronazione di spine, sgorgava dalle mani e dai piedi alla crocifissione, e infine dal fianco al colpo di lancia del soldato. “Il sangue è la vita” (Dt 12,23), dice la Scrittura. Il sangue di Gesù è la sua vita, ed è la nostra vita. Il Sangue versato è la vita offerta, donata. Il sangue dell’alleanza stipulata con gli antichi Patriarchi era il sangue delle vittime, buoi o agnelli, uccisi e offerti a Dio come sacrifici di espiazione per ottenere il perdono o come sacrifici di comunione per esprimere il desiderio di essere uniti a lui. Ma già Geremia parlava della necessità di una “nuova alleanza”: l’antica alleanza era troppo fragile, perché il popolo la poteva infrangere facilmente con il suo peccato, e lo faceva spesso. La “nuova” è del tutto diversa: con essa Dio si impegna ad amare sempre il popolo, anche quando esso si dimentica di lui. È necessario perciò un sangue che non debba essere rinnovato. Solo il sangue di quell’uomo che incarna tutto l’amore divino può essere adeguato alla caratteristica di questa novità. Offerto il sangue di Gesù per noi, avremo sempre come alleato il Padre suo. La caratteristica di questa nuova alleanza è l’eternità: non scade mai, non si rompe mai, non richiede rinnovi.

 

66 Alleanza

Il Sangue per la nuova ed eterna Alleanza versato per voi e per tutti”: la parola Alleanza suona strana agli orecchi di chi non conosce a fondo le Scritture del Primo Testamento. Tu come la percepisci? Quando a scuola abbiamo letto i libri di storia ci siamo imbattuti spesso in questa parola, usata dai regnanti antichi e moderni. Due che fanno alleanza dicono: «Se qualcuno ti aggredisce io corro a difenderti, e viceversa». L’alleanza degli uomini con Dio, invece è così, che Dio dice: «Se tu mi ubbidisci, io ti difendo; non sono tenuto a farlo se mi disubbidisci». Il bisogno di un alleato è nostro, invece Dio non ha bisogno di alleati. L’alleanza viene stipulata con il sangue. Le prime alleanze con Dio si stipulavano col sangue di animali. La nuova è diversa: “Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo - il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio - purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente?” (Ebr 8,13s). Sul nostro altare ora c’è il Sangue della nuova Alleanza. È versato per noi “e per tutti”. Che significa per tutti? Qui dovrebbe voler dire per tutti gli uomini. Gli evangelisti Matteo e Marco scrivono “per molti”. I traduttori spiegano: “per molti” significa per le moltitudini, cioè per tutti. Qualcuno più pignolo sostiene: molti non sono tutti, infatti chi rifiuta il Signore, unico Salvatore, bestemmia contro lo Spirito, e non può essere perdonato. Gli altri rispondono: “per tutti” lo devi intendere proprio così: per tutti quelli che si siedono alla mia mensa. Io dico: stiamo a litigare per una parola, e per di più una Parola di Gesù? L’una o l’altra la diciamo come la intende lui, il Signore. Noi non siamo capaci di vedere, e men che meno di amare né i molti né i tutti, mentre lui li vede e li porta, mentre pesano sulle sue spalle col peso del legno della croce.

 

67 Peccati sconosciuti

Versato per voi e per tutti in remissione dei peccati”: stiamo ripetendo le Parole di Gesù. A lui preme davvero che i nostri peccati spariscano dalla circolazione, perché sono troppo pericolosi. Dove ci sono peccati c’è la morte in agguato. Dove ci sono peccati c’è la discordia in azione, e questa distrugge ogni comunione. Dove ci sono i peccati non può esserci fiducia, quindi nemmeno pace, e anche l’amore va a rotoli! I peccati sono nostri e di tutti: devono essere rimessi, cioè perdonati, e noi dobbiamo essere assolti dal legame che essi hanno avvinghiato, come un laccio che ci trascina dove non vorremmo. Li conosci i peccati? Mi dici di si, ma io ti dico che li conosci troppo poco, e non li conosci tutti. Per fortuna Gesù non ci chiede di conoscerli tutti e nemmeno di conoscerli bene, ma desidera che li consegniamo tutti a lui. Per questo ha versato il suo Sangue. Per questo ha istituito il sacramento della penitenza, che chiamiamo di solito confessione. È un sacramento che fa parte integrante della Messa, non ti pare? Avrebbe mai detto altrimenti: “Versato per voi e per tutti in remissione dei peccati”? Non so se te ne parlerò come ora ti sto parlando della Messa. Dipende anche da te, se mi incoraggi a farlo o no. I peccati vengono ricordati da Gesù in un momento così solenne e prezioso. Lui è morto per questo, per togliere da noi il loro peso e la loro efficacia micidiale. Noi ora siamo riconoscenti a lui, che ha detto così. Abbiamo speranza sicura di poter essere perdonati, e anche abbiamo fiducia che i peccati non continueranno a portare una catena di conseguenze e di sofferenze come stanno già facendo. Se interviene il Sangue di Gesù, e la sua benedizione per noi e “per tutti” i peccatori, saremo salvi. Questo desideriamo e questo attendiamo, pregando.

 

68 In memoria di me

Fate questo in memoria di me”: è un comando che San Paolo ripete due volte, sia per il pane che per il calice, quando ci racconta l’istituzione dell’Eucaristia scrivendo ai Corinzi (1Cor 11,24-25). Dev’essere una Parola molto importante! È un bel pasticcio: cosa intendeva Gesù dicendo “questo”? Che cosa dobbiamo fare? Ripetere tutto il pasto con tutte le preghiere e i salmi che gli ebrei cantavano alla Cena pasquale? Spezzare il pane e prendere in mano la coppa del vino? Ripetere le sue parole? O anche lavarsi i piedi gli uni gli altri, come dice nel vangelo secondo Giovanni? L’accento principale dove va messo: su “questo” oppure su “in memoria di me”? E “in memoria di me” cosa significa? È solo ricordare come si ricorda qualche evento del passato? Gesù ci lascia adoperare il nostro buon senso e la nostra fantasia, ma soprattutto il nostro amore per lui. Certo, staremo insieme pregando, diremo le sue parole col pane e con il calice del vino, ci ameremo gli uni gli altri con quell’umiltà che è necessaria per lavare i piedi e lasciarseli lavare. Tutto questo “in memoria di me”, cioè come ‘memoriale’. I cristiani hanno inventato questa parola: sono stati capaci di esprimere cose grandi con una parola sola. Troveremo ancora una volta questo termine nella preghiera. Dovrebbe voler dire che quello che facciamo non è solo un ricordo, ma è un rivivere la presenza di Gesù con tutta l’efficacia di santità e di meraviglia e di rinnovamento della prima volta. Qui adesso riceviamo gli effetti della Cena, della morte e della risurrezione del Signore. Facciamo quello che ha fatto lui: offriamo la vita, anche dovesse costarci morte, come è costato a lui. “Fare” “in memoria” non è solo assistere, guardare, ammirare, ma è partecipare. Non è solo imitare gesti, ma rivivere il contenuto di quei gesti, cioè l’offerta di sé, come Gesù si è offerto senza lamentarsi, con un amore più grande dell’amore.

 

69 Fate

Mentre il prete tiene alto il calice e di nuovo si inginocchia, tu che fai? Assisti? No! Adorerai con il tuo silenzio vivo e pieno del tuo stupore, così da essere protagonista. Ricorderai che il comando di Gesù: “Fate questo”, non è per il prete, ma per tutti. Anche tu fai. Ciò che avviene all’altare è fatto anche da te, perché la tua fede è là ed è là anche il tuo amore più intimo. Adesso il celebrane ti dice, o canta: “Mistero della fede”. Senza fede non succede nulla. Senza fede non vedi nulla, senza fede non capisci nulla. Senza fede rimani vuoto, e per di più commediante. Qui ti voglio! La tua fede dovrà essere viva: non lasciarla in tasca. E fede adesso non è solo credere che il Corpo e il Sangue di Cristo sono là su quella tovaglia, dietro quei ceri accesi, ma è pure il desiderio di lasciarti possedere dallo stesso amore di cui essi sono dimostrazione. È mistero? Benissimo. Non vuol dire che puoi esonerarti dal pensare e dal capire, ma vuol dire che questa è la volontà di Dio, cioè l’amore del Padre. È volontà di Dio che Gesù sia morto e risorto e ci abbia dato il suo Corpo e il suo Sangue come cibo e bevanda, nella realtà di quel pane e di quel vino. Sono amore di quel Padre che continua a sostenere la nostra vita e ad attenderla, e quindi non possiamo pensare di farne a meno. Se pensiamo di poter far senza quel Pane e senza quel Vino stiamo deludendo il nostro Padre, e forse lo prendiamo in giro, come gli dicessimo: «Fai pure tutto quello che vuoi, ma io mi arrangio, non ho bisogno del tuo Gesù!». “Mistero della fede”! Tu ora ti unisci alle parole recitate o cantate da tutti: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione nell’attesa della tua venuta”. Con questo canto anticipi la prima preghiera con cui il celebrante continua. È San Paolo che ci dice: “Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1Cor 11,26).

 

70 Memoriale

“Voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”: annunciamo la morte del Signore, ma anche la sua risurrezione: quando verrà, verrà come risorto, cioè vivendo una vita diversa, nuova, a noi sconosciuta! Il sacerdote continua quasi con le stesse parole. Gliele hai messe in bocca tu con il canto. Egli comincia così: “Celebrando il memoriale della morte e risurrezione del tuo Figlio, ti offriamo, Padre, il pane della vita e il calice della salvezza”. È vero, stiamo celebrando, che significa «onoriamo, commemoriamo, festeggiamo, riviviamo» il memoriale, cioè il fatto che ci offre l’efficacia della morte e risurrezione di Gesù. Dall’inizio alla fine la nostra riunione è “memoriale”, ed ora abbiamo con noi “il pane della vita e il calice della salvezza”: questo lo offriamo al Padre. Gli offriamo il Corpo e il Sangue del Figlio. L’offrire fa parte del sacrificio. Gesù si è offerto sulla croce, noi continuiamo quella sua offerta, ancora viva e ancora qui presente grazie al Pane e al Calice. Questa parola “ti offriamo” è indispensabile. L’offerta che realizza la nostra comunione con Dio è questa. Senza l’offerta di Gesù, non ripetuta, ma rivissuta da noi, tutta la nostra celebrazione sarebbe vuota. Se mi dici che non capisci non mi meraviglio. Io pure non so se capisco. Ogni giorno cerco di offrire, come pure tu fai e meglio di me, le occupazioni, qualche fatica, qualche sopportazione, qualche gioia persino. Le offro al Padre, e così partecipo all’offerta perfetta della celebrazione eucaristica. Tutta la nostra giornata è giornata di figli di Dio, e perciò è continuare quella che vive il Figlio, quella che facciamo nostra all’altare. Non solo la nostra giornata riceve valore e significato eucaristico, ma tutta la vita. Il sostegno e l’esempio per continuare ad offrirci ringraziando lo riceviamo dalla Madre di Gesù: lei riempiva il suo tempo ruminando le parole e i fatti che avevano al centro suo Figlio, Gesù. Con lui continuava a offrire se stessa.

 

71 Servizio sacerdotale

Dicevo che tutta la giornata del figlio di Dio ha valore e significato eucaristico. Per questo la preghiera del celebrante continua: “e ti rendiamo grazie perché ci hai resi degni di stare alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale”. Questo grazie, già iniziato con la preghiera del Prefazio, continua adesso. Il motivo del grazie è di poter stare alla presenza del Padre: egli ci accetta davanti a sé! Non possiamo dubitare, perché siamo con il Figlio suo, con Gesù, che è seduto alla sua destra. Così dice la Scrittura con una immagine semplice, ma ardita. Gesù è al primo posto vicino al Padre, e perciò siamo più che sicuri, perché Gesù ci ama “fino alla fine” (Gv 13,1). Mentre il Padre ci vede, compiamo il servizio sacerdotale, che è appunto l’offrire il sacrificio del Figlio, cioè tutta la pienezza e concretezza del suo amore. E, ripeto, questo servizio sacerdotale continua lungo la giornata quando siamo fuori della chiesa, e persino anche se dimentichiamo queste parole. Per questo qualche persona un po’ saggia ti consiglia di offrire: offri la sofferenza, offri la fatica, offri i momenti semplici e normali, offri te stesso. È il servizio sacerdotale. La parola sacerdotale viene dal tempio di Gerusalemme, dove c’erano moltissimi sacerdoti che a turno offrivano: essi offrivano, cioè posavano sulla legna che bruciava sull’altare costruito con dodici pietre, i sacrifici dei fedeli, agnelli o capri o cosce di animali più grossi. Il loro sacerdozio era una qualifica tramandata di padre in figlio. Noi l’abbiamo ricevuto dallo Spirito Santo nel Battesimo. Noi non offriamo quarti di animali, ma offriamo qualcosa di meglio: pezzi veri e vivi della nostra persona. Hai mai pensato a queste cose? Devo venire io a dirtelo? Ti è stato detto tante volte, ma, chissà perché, non l’hai preso sul serio? Scusami, molte volte sei tu che dai esempio a me.

 

72 Epiclesi

Ti preghiamo umilmente: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo”. Ed ora per la seconda volta invochiamo la ‘discesa’ dello Spirito Santo: è una seconda Epiclesi. Così chiamiamo la richiesta dello Spirito Santo. L’avevamo domandato per la trasformazione del pane e del vino; adesso lo chiediamo per noi che ce ne nutriamo. Non ci sarebbe bisogno di dirlo che la nostra preghiera è umile. Il Padre lo vede, se ne accorge. Siamo noi tentati di mantenere orgoglio dentro di noi. Lo diciamo per ricordarlo a noi stessi. Non hai mai sentito qualcuno che pensa di aver diritto di ricevere la comunione? Una contraddizione palese: chi vanta diritti non può essere in comunione. La comunione avviene col dono di sé, non con la pretesa dagli altri. Abbiamo già individuato qualche significato di questa parola. Ora la riprendo, perché è troppo importante. La comunione è l’unità del Padre con il Figlio, è l’amore che li unisce così strettamente da essere uno. La comunione è unità di tre: Dio che si dona, Dio che accoglie, Dio che sprigiona luce e calore attorno. La comunione è la santissima Trinità. La nostra comunione è l’entrare nella loro unità, l’intrufolarci nel loro amore segreto e vivo, che ci trasforma. Dentro la loro unità troviamo gli uomini, santi come noi, peccatori meno di noi, amati più di noi. Dentro la comunione di Dio non possiamo portare diritti, vanterie, invidie, confronti, desideri sensuali di nessun tipo. Saremmo commedianti, saremmo lontani da quel Dio che è solo amore disinteressato, saremmo soli e solitari, privi dell’appoggio e della luce che risplende in chi invece è dentro il cuore del Padre e del Figlio. Chiediamo al Padre il frutto della morte di Gesù, cui ci uniremo nutrendoci del suo Corpo e del suo Sangue: lo Spirito Santo che ci unisce come fratelli.

 

73 Il soffio dello Spirito: se non ci fosse…

La brevissima preghiera chiede al Padre di donarci lo Spirito Santo che riesce a far di noi “un solo corpo”. A noi non sarebbe possibile, allo Spirito Santo sì. Egli è Dio, quell’amore di Dio che ci può rendere “un solo corpo e un solo spirito”, come dice la Preghiera Eucaristica terza. Cosa saremmo noi senza Spirito Santo? Saremmo preda di passioni inferocite: avarizia, gelosia, impurità sessuale, rabbia, pretesa, odio, cattiveria. Senza Spirito Santo saremmo incapaci di guardarci negli occhi, di ascoltarci con pazienza, di aiutarci con fedeltà. Se non ci fosse lo Spirito Santo non saremmo capaci di dire “Gesù è Signore” (1Cor 12,3) e quindi di ubbidirgli. Se non soffiasse su di noi lo Spirito Santo non diremmo “Abbà” a Dio, e quindi non pregheremmo mai, e non avremmo l’umiltà dei figli. Saremmo superbi come il diavolo. Se non ci fosse lo Spirito Santo non ci sarebbe la Chiesa, e quindi saremmo in balia di noi stessi. Ci sarebbero solo opinioni e mai verità. Non ci sarebbe il Corpo di Cristo, e noi non saremmo tempio di Dio. Se non soffiasse lo Spirito Santo non ci sarebbero i santi nella Chiesa, e tu cercheresti invano una Madre tra di essi. Se non ci fosse lo Spirito Santo non ci sarebbero benedizioni, né dei genitori né dei sacerdoti. Non ci sarebbe preghiera, e nemmeno fedeltà agli impegni assunti. La fedeltà coniugale non la vedresti: chi la desidera dovrebbe ricorrere a controlli con costrizioni impensabili, quelli realizzati dalle gelosie più cattive. Non vedresti né mitezza né bontà, e non conosceresti il dominio di te stesso. Unisciti quindi con decisione a questa preghiera del sacerdote: “Lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo”. E allora tutte le cose belle ci saranno: la fedeltà dei coniugi e la mitezza, la pace e il dominio di sé, la carità che forma i santi, la pazienza e la gioia dei genitori, la purezza dei giovani, la benedizione degli anziani.

 

74 Chiesa concreta

Adesso la nostra preghiera, cioè quella pronunciata dal celebrante che prega con noi e per noi, mette all’attenzione del Padre tutta la Chiesa. Essa è sua costruzione, edificio santo - direbbe San Paolo -, è la comunione dei figli di Dio, nostra casa, nostra gioia e anche nostra croce. Ed è ancor poco: dobbiamo dire che la Chiesa è Corpo di Cristo, sua Incarnazione. È la Chiesa che dona lo Spirito Santo agli uomini! In questa Preghiera Eucaristica seconda vediamo anzitutto la Chiesa “diffusa su tutta la terra” e chiediamo: “rendila perfetta nell'amore in unione con il nostro Papa N., il nostro Vescovo N., i presbiteri e i diaconi”. È la Chiesa che vediamo attorno a noi. Una realtà concreta, fatta di uomini in carne ed ossa, ognuno con i suoi pregi e con i suoi difetti. È così concreta che facciamo persino il nome sia del Papa che del Vescovo della Diocesi in cui si celebra. Perché li nominiamo esplicitamente? Lo sai? Qualcuno, anzi più d’uno, ed erano santi, dissero che, se un sacerdote nella Messa non pronuncia il nome del papa e del vescovo, dovresti evitare di ricevere la Comunione da lui, ed evitare di tornare quando celebra lui. È scismatico il prete che non pronuncia il nome del papa e del suo vescovo, è un prete che non vuol far parte della Chiesa. Sarebbe segno che non crede all’Incarnazione del Figlio di Dio. Gesù dice: “Chi ascolta voi ascolta me” e “chi accoglie voi accoglie me” (Mt 10,40). Lo dice seriamente, non sta scherzando e non è né stralunato né vaneggia. Sa che la Chiesa è cosa seria, il prolungamento della sua missione, della sua Presenza, dell’amore del Padre suo. Lui è l’amore divino incarnato, e dopo la risurrezione continua la sua presenza realmente vera nella sua Chiesa: “Io sono con voi tutti i giorni” (Mt 28,20). Sa che deve pregare anche lui per la fedeltà della Chiesa: lo ha promesso a Pietro. Sa meglio di te che c’è anche Giuda e che ce ne sono tanti altri che lo tradiranno, ma la sua Chiesa rimane la sua Chiesa!

 

75 Chiesa “perfetta nell’amore”

La Chiesa è “diffusa su tutta la terra”: non ne fanno parte solo i bianchi, ma anche i neri e i gialli. E le lingue non si contano. È diffusa, sparpagliata, ‘in diaspora’, dicevano una volta. È come gli steli di grano in un campo dove c’è pure florida la zizzania. È perciò sofferente “su tutta la terra”, in difficoltà, come all’inizio. Soffre in molti luoghi la fame, in altri la persecuzione lampante o subdola, in altri le tentazioni più violente del consumismo o della sessualità o delle droghe, e quelle delle ideologie più perniciose: situazioni in cui si nasconde e si rivela il maligno, cioè Satana. Sai chi è Satana? Non immaginarlo con la coda e con le corna: vedilo come è realmente, quando impedisce l’ascolto della Parola e quando ostacola il nome di Gesù. Satana vorrebbe distruggere la Chiesa, non la sopporta. Fa di tutto per entrare in essa per portare scompiglio, e quindi si maschera ben bene, si fa vedere accogliente, anzi, seducente. La situazione della Chiesa su tutta la terra è così, è molto precaria. Il Padre però riesce a renderla “perfetta nell’amore”. Il che non vuol dire “perfetta”, rimarranno debolezze e criticità, ma sarà gradualmente “perfetta nell’amore”. Il che vuol dire che continueremo ad amare, cioè a morire a noi stessi per il bene degli altri, a portare la croce perché i nostri nemici siano salvati, persevereremo nel rimanere uniti e concordi. Lo Spirito Santo ci fa vivere “in unione con il nostro Papa N., il nostro Vescovo N., i presbiteri e i diaconi”: la “N.” sta al posto del Nome proprio, cioè papa Francesco, ecc. Un ragazzo, davanti a quel N., durante la preghiera dei Vespri, ha detto con una certa sicurezza: ‘il nostro papa Nicola’. Non è proprio così! Però essere uniti col Papa e col Vescovo non significa essere in unione con quel Papa che m’immagino io, o con quello che ci sarà in futuro e mi piacerà, ma con quello che c’è adesso. Non ti è simpatico? Amalo, perché Gesù lo ama. Ti pare fenomenale, straordinario, non plus ultra? Non amarlo per questo, ma perché è lì in quel ministero in obbedienza a Gesù.

 

76 Defunti e santi

Siamo vissuti con altri cristiani che ci hanno preceduto nella dimora preparataci da Dio. Da essi abbiamo ricevuto sostegno alla fede e all’amore. Con qualcuno di essi abbiamo condiviso gioie e dolori, fatiche e riposo, obbedienza e disobbedienza. Tra poco o tra molto saremo con loro, saremo chiamati defunti: il che significa che avremo compiuto il nostro servizio, la nostra missione. Sono anch’essi partecipi di questa Eucaristia, sono anch’essi, e lo saremo noi allora, presenti ovunque si fa il memoriale della morte e risurrezione del Signore Gesù Cristo. Anzi, la Liturgia è una sola, dicono i santi, quella celeste. Noi qui sulla terra vi partecipiamo con le nostre parole, con i segni, nei nostri luoghi e nel nostro tempo, ma siamo partecipi di quella unica, celeste. I defunti partecipano, attendendo che la loro fede e la loro carità siano purificate e ratificate anche grazie alla nostra partecipazione alla santità e alla passione del Signore. Qualcuno di essi lo ricorderemo per nome, in particolare durante il suo funerale o in altra occasione. Ora li poniamo tutti davanti all’amore del Padre. Godranno della sua pace e della luce del Risorto, nell’attesa di partecipare in pienezza a quella vita che chiamiamo eterna, senza sapere del tutto cosa ciò significhi. Chiediamo poi anche per noi sostegno e misericordia, altrimenti non arriveremo a godere la gioia della nostra Madre “Maria, Vergine e Madre di Dio”, del suo Sposo san Giuseppe, degli apostoli, dei martiri, dei nostri patroni e di tutti quei fratelli che chiamiamo santi. Sono essi che vivono la Liturgia celeste, e godono della nostra partecipazione limitata e distratta. Essi non sono spariti e introvabili nell’oceano della santità, ma sono tutti col proprio nome davanti allo sguardo del Padre e nel cuore del Figlio. Lo Spirito Santo li unisce anche a noi, cosicché tutti insieme possiamo cantare di gioia. Essi vivono grazie a quel Corpo e a quel Sangue che stanno sul nostro altare: la loro vita è piena, perfetta, eterna, divina. Sono membri ‘eletti’ della nostra Chiesa!

 

77 Per, con, in

Il canto che ora risuona, quello di tutti i santi del cielo, è una dossologia, cioè un ‘gloria’ rivolto a Dio Padre. È questo: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell'unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli”. Rivolgiamo ogni onore e gloria al Padre, unito dallo Spirito al Figlio, e quindi anche a noi, ma lo facciamo “per, con, in Cristo”. Usiamo tre paroline da nulla, ma sono importanti, decisive. Il per, mutuato dal latino, significa ‘per mezzo di’ o ‘grazie a’: è Gesù che ci permette e dà valore al nostro canto di lode! ‘Con’ significa che ci uniamo al grazie che Gesù stesso rivolge al Padre, quasi fossimo a braccetto con lui. E infine ‘in’ è la parola più completa: siamo immersi nell’amore del Figlio, siamo battezzati in lui, nell’amore che lo ha portato a morire e nella sua vita di risorto: da questa posizione possiamo cantare. A dire il vero, canta solo il prete, se non è stonato. Io ho faticato ad abituarmi a cantarlo, e mi pare di esserci riuscito. Gli intenditori di musica me lo lasciano credere, infatti non mi dicono nulla, di certo per non demoralizzarmi…! Anche tu partecipi con un bellissimo “Amen”. Questo Amen è la parola più importante di tutta la celebrazione: unisce te, e tutti i presenti, al sacrificio, all’offerta del Figlio, all’amore del Padre, alla luce e al calore dello Spirito Santo! Perdonami, che non so come fare a dirti la bellezza di questo momento. Mentre lui canta e tu rispondi, il prete alza patena con l’Ostia e il Calice. Li alza più che può: gesto di offerta, gesto di esaltazione, gesto che vorrebbe dire, con poco, tutto quanto è stato detto e fatto fin qui. Io non cerco di capire, so che non arriverei a capo di nulla. Lo faccio, ne godo, ti stimolo a partecipare. Tu partecipi con voce forte con l’Amen: con questo Amen proclami che il memoriale, il Corpo e il Sangue del Signore, il suo sacrificio, sono la Roccia su cui sono poggiati il mondo, la nostra vita, il passato e il futuro, il tempo e l’eternità. Senza la Messa che sarebbe il mondo? Cosa riesci a vedere per il futuro se non ci fosse la Chiesa che rende presente su questa terra il Corpo e il Sangue del Signore Gesù?

 

78 Osiamo dire

Dopo l’Amen, e abbassato sull’altare il Calice e il Corpo di Cristo, il sacerdote ci rivolge un invito. Ora stiamo arrivando al compimento: ci nutriremo di quel Corpo e di quel Sangue. Ci prepariamo. In che modo? Entriamo con le nostre possibilità nel cuore del Padre. Gli facciamo vedere che per noi è diventato importante ciò che è importante per lui. Proprio così. Per questo il sacerdote ci invita a ‘dire’ la preghiera che Gesù vuole sia continuamente presente nel nostro cuore. Sottolineo ‘dire’, che non è recitare. Chi recita pronuncia cose dette da altri, e può parlare senza sapere quel che dice, e fa bella figura, ma resta come era prima. ‘Dire’ invece è tipico di chi tira fuori da sé le cose che comunica, cioè esprime i propri desideri e sentimenti. “Obbedienti alla parola del Salvatore e formati al suo divino insegnamento, osiamo dire”: questo è l’invito che ricevi, ma puoi udirlo anche con altre parole. Con queste parole viene affermato che ora, pur sapendo di essere peccatori e fragili interiormente, ci presentiamo insieme al Padre, e lo facciamo per obbedienza a Gesù. È bello pregare così. Mantenere la nostra compunzione, cioè la consapevolezza della nostra miseria, e diventare grandi. Pregare è roba da grandi, di chi si avvicina alla grandezza di Dio, ed è roba da piccoli, di chi la grandezza se la sogna, perché non la possiede. Perciò “osiamo” perché siamo “obbedienti”. Il prete nel frattempo ha alzato le mani allargando le braccia, come ha fatto spesso finora. Adesso puoi farlo anche tu. Allarghi e alzi le braccia tenendole come Gesù sulla croce. Siamo fatti per essere “conformi” al Figlio di Dio, dice San Paolo (Rom 8,29). Questo è un piccolo gesto per dire che vogliamo davvero vivere del tutto la vita di figlio, come il Figlio, compresa la sua obbedienza “fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). Fai una fatica disumana ad alzare le braccia? So che la prima volta ti parrà di fare sollevamento pesi, la seconda volta un po’ meno. Mi dirai tu perché ti costa così tanto. Pensa a Gesù: merita di essere imitato. Adesso, che cosa ‘diciamo’? L’obbedienza a Gesù e la nostra piccolezza ci fanno consapevoli di essere figli per Dio, amati come suoi bambini.

 

79 Pregare il Padre

Cominciamo a dire le parole con cui Gesù esprime la preghiera del nostro cuore. Vedendo la grandezza, anzi l’amore del Padre, desideriamo imitarlo, e lo facciamo sostituendo i nostri piccoli desideri, talvolta mondani, con i suoi, molto più grandi e sicuramente santi. Non desideriamo cose del mondo, che passano, ma il Regno di cui Gesù è il re, e la Volontà del Padre, che è sempre non solo buona, ma l’unica che trasmette vita a noi peccatori: infatti dice così: “Misericordia voglio” (Mt 9,13; cfr. Os 6,6). Desideriamo anche la santificazione del suo Nome, che si realizza nell’essere noi riuniti, purificati e santificati nella sua Chiesa, come ci lascia intendere il profeta Ezechiele (36). Mi hai seguito finora? Il Padre desidera che noi viviamo, e per questo gli diciamo anche “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”: e intendiamo il pane che ci fa stare in piedi, ma anche quel pane che fa stare in piedi la Chiesa, cioè lo Spirito Santo, che riceviamo tramite l’Eucaristia. Tutti questi desideri non resistono in noi se non veniamo perdonati, e non veniamo perdonati se non perdoniamo. Può entrare amore là dove resiste l’odio o il risentimento? Il Padre desidera che siamo custoditi, perché ci vede davvero in pericolo. Facciamo nostro anche questo suo desiderio chiedendogli vigilanza e forza per resistere ad ogni tentazione, e liberazione dagli artigli del maligno, che ci vuole rovinare e sbranare. Una spiegazione più dettagliata di questa “Preghiera del Signore”, come è chiamato il Padre nostro, l’ho già scritta e stampata. Ed è anche qui *. Come hai fatto a ‘dire’ il Padre nostro? Sei stato almeno attento a parlare in sintonia con gli altri? Hai capito che non è la ‘tua’ preghiera, ma la ‘nostra’? Che non hai pregato per te, ma con e per tutta la Chiesa? E hai capito che la preghiera serve alla nostra conversione, cioè per un nostro cambiamento? Sono cambiati davvero i tuoi desideri? Mamma mia, se pregassimo come si deve, come sarebbe diverso il vivere in chiesa, e poi anche in casa, e anche sulla strada! Di solito un buon cristiano non riesce a ‘dire’ il Padre nostro senza due o tre distrazioni. È una preghiera breve, eppure… com’è difficile non lasciarci disturbare dai nostri pensieri e preoccupazioni! Gesù ha fatto l’impossibile per accorciare la preghiera. Pensa che gli ebrei avevano una preghiera per dire “sia santificato il tuo nome”: la forma accorciata di quella preghiera occuperebbe almeno dieci di queste righe. Meno male che Gesù ha pensato alla nostra povertà di concentrazione!

 

* opuscolo: “Quando pregate” e “Padre nostro” 1 - 2 - 3

 

80 Liberaci

L’ultima frase della preghiera del Signore è “Liberaci dal male”. È preceduta da un’altra che sul nuovo Messale ci viene consegnata così: “Non abbandonarci alla tentazione”. È ovvio che il Padre non ci vuole abbandonare: ce lo assicura tramite i profeti! Ma noi glielo chiediamo egualmente, così almeno la nostra volontà e la sua si sommano. E lui vuole anche liberarci dal Maligno, il vero nemico che a volte vuol farci credere che sia Dio il nostro nemico. Lo fa in tanti modi, che non riusciamo nemmeno ad immaginare. Il prete, appena abbiamo detto così, continua riprendendo la stessa parola: “Liberaci, o Signore, da tutti i mali”, e continua “concedi la pace ai nostri giorni; e con l'aiuto della tua misericordia, vivremo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento”. I mali sono tanti, e tutti disturbano la pace, quella interiore e quella esteriore. I mali peggiori sono la discordia, la divisione, che è micidiale per la Chiesa, edificata per essere Una e Santa “perché il mondo creda” (Gv 17,21). Un male da non trascurare è anche questo, che la nostra anima resti disabitata. La misericordia del Padre ci può liberare. Lo chiediamo tutti con fiducia vera. Saremo anzitutto liberi dal peccato, il nostro primo nemico, spesso nascosto. Com’è difficile riconoscere il nostro peccato! Te ne sei accorto che è difficile? Facile è vedere quello degli altri, ma riconoscere il nostro…! Il bello è che il peccato degli altri spesso è reazione ad un nostro modo di parlare o di guardare o di fare o di esprimerci; reazione allo spirito che ci anima. Per questo il primo peccato è il nostro, quello degli altri solo conseguenza. “Liberaci”! Se il peccato perde forza, sparirà anche la paura dal nostro cuore, e anche il turbamento che può generare paura. È una bella preghiera che sottolinea l’ultima riga suggeritaci da Gesù, cioè “Liberaci dal male”. Continuiamo: “nell'attesa che si compia la beata speranza, e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo”. Vorremmo essere pronti, cioè liberi dal male e carichi di gioia per accogliere colui che sempre viene. Verrà alla fine di tutto, il nostro Salvatore, ma viene anche oggi per esaudire la nostra speranza.

 

81 Tuo è il regno

Col cuore in attesa del Signore che viene, completiamo la preghiera che il celebrante ha pronunciato per noi tutti. La concludiamo con una frase che è già presente alla fine del Padre nostro nel Vangelo di Matteo secondo alcuni codici. Sai cosa sono i codici? Sono dei libri di pergamena su cui i copisti hanno copiato a mano il testo scritto da Matteo o dagli altri evangelisti. Sono molto antichi, del secondo o terzo o quarto secolo dopo Cristo. I più antichi non riportano questa frase, ma su qualcuno pare sia stata presente già dal terzo secolo. È probabile che in qualche chiesa si concludesse così il canto del Padre nostro durante la liturgia. La usano da sempre i protestanti. Per noi è stata inserita nella Liturgia, grazie alla riforma del Concilio Vaticano secondo, dopo che il sacerdote ha detto la preghiera “Liberaci da tutti i mali”. È una frase biblica, presente in 1Cronache 29,11-13, e dice così: “Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli”. Con queste parole riconosciamo a Dio grandezza e superiorità su tutte le nostre ambizioni e attese. Qualcuno dice che i cristiani hanno aggiunto questa frase per non terminare la preghiera con la menzione del male o del maligno. Fosse così, sono stati bene ispirati. Il nostro Padre celeste merita davvero ogni lode. Anche tu di certo lo lodi e lo benedici spesso, senza fartelo dire da nessuno. O devo ricordartelo io? Dopo questa acclamazione, recitata o cantata, il sacerdote continua: “Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli: "Vi lascio la pace, vi do la mia pace", non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa, e donale unita e pace secondo la tua volontà. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen. Questa è l’unica preghiera della Messa rivolta direttamente a Gesù. È bello rivolgerci anche a lui come facevano gli ammalati e il lebbroso e i ciechi di cui si parla nel Vangelo. E Gesù, che ci ha insegnato a rivolgerci al Padre, non solo non ne avrà a male, ma risponderà con gioia.

 

82 Non guardare

Durante l’ultima Cena Gesù aveva detto: "Vi lascio la pace, vi do la mia pace" (Gv 14,27), aggiungendo che la sua pace è diversa da quella conosciuta dal mondo. Il mondo conosce una pace che è soltanto il mettersi d’accordo per rispettare contrapposti egoismi. Ma poi, quando insorge un nuovo egoismo imprevisto, la pace svanisce. La pace di Gesù è invece speciale: è la condivisione dell’amore che lui ha ricevuto dal Padre. Per darci la pace, come ha detto alla prima apparizione da risorto nel cenacolo, trasmette agli apostoli la missione che lui ha ricevuto: portare la conoscenza del Padre al mondo intero. E la sua è una pace completata dal perdono e dalla possibilità di donare il perdono agli uomini, grazie alla presenza dello Spirito Santo nella Chiesa. Dato che Gesù stesso ha detto così, gli chiediamo ora una cosa a prima vista impossibile: “non guardare ai nostri peccati”. Può farlo? Può chiudere un occhio, anzi tutti e due, sulle nostre disobbedienze? Intanto noi glielo chiediamo, poi vedrà lui. Un po’ di coraggio, ed ecco fatto. Gli mettiamo sotto gli occhi invece “la fede della tua Chiesa”. A Gesù piace vedere la fede, e la sa individuare. Ricordi come ha visto la fede del paralitico e dei quattro che lo calavano dal soffitto? E quel tale era peccatore! La fede nasconde, o, meglio, toglie importanza al peccato, anzi, lo fa sparire. Non diciamo a Gesù di guardare la mia o la tua fede, che senz’altro è rachitica o handicappata, ma quella “della tua Chiesa”. La Chiesa è grande, in essa non ci siamo solo noi, ma ci sono i santi, anche quelli con la S maiuscola! In essa ci sono stati e ci sono ancora i martiri, che hanno vissuto una fede a tutta prova, e ancora oggi la vivono con sofferenze immani, fino a lasciarsi uccidere piuttosto che abbandonarla. Se egli vede quella fede può dare senz’altro alla Chiesa “unità e pace”, proprio come lui desidera da sempre.

 

83 Pace davvero

Ora il prete proclama: “La pace del Signore sia sempre con voi”. E tu rispondi: “E con il tuo spirito”. La pace deve invadere tutta l’assemblea. Naturalmente la pace che viene dall’alto, cioè ogni ricchezza del cuore del Padre e del Figlio condivisa con noi e tra di noi. È la pace di cui vivono la Santissima Madre di Dio e tutti i santi, che celebrano perennemente questa Liturgia cui noi partecipiamo debolmente, ma concretamente. E, di solito a questo punto vieni invitato a dare al tuo vicino un segno di questa pace: può essere una stretta di mano, oppure un inchino, accompagnati da un bel sorriso. Baderai che non sia una finta, anzi, sarà la promessa di occuparti di qualcuno in questo giorno benedetto e santificato da tutto quello che abbiamo vissuto. Non è possibile lasciare qui in chiesa lo Spirito Santo che abbiamo ricevuto. Bisognerà diffonderlo e farlo lavorare ovunque andremo. Il prete poi si ricorda di essere peccatore, e allora, prima di prendere in mano il Corpo di Cristo recita una preghiera tra sé e sé, sottovoce. È bella; sarebbe utile anche per te: “La Comunione del Tuo Corpo e del Tuo Sangue, Signore Gesù Cristo, non diventi per me giudizio di condanna, ma per tua misericordia, sia rimedio e difesa dell’anima e del corpo”.  Il sacerdote viene aiutato da questa preghiera ad essere umile, e, se non lo fosse, a diventarlo. Anche lui è in pericolo, sempre, soprattutto per il fatto che si trova sempre al primo posto. Rischia di pretenderlo quel posto, oppure di ritenerlo un diritto che lo giustifica in tutto quel che fa, persino anche nei sentimenti di vanagloria o di dominio. Mica se ne accorge da solo, ha bisogno di aiuto. Una piccola preghiera come questa lo può tenere basso basso, come ha detto Papa Giovanni Paolo I°.

 

84 Un frammento

Adesso il celebrante, senza nulla dire, fa un gesto che, se non sei attento, ti passa inosservato. Egli spezza l’ostia grande che è sulla patena. Ripete così il gesto compiuto da Gesù. Gli evangelisti lo dicono chiaramente: “Prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò”. Chi guidava la cena pasquale spezzava un’azzima e ne nascondeva metà sotto la tovaglia. Anche da risorto, a Emmaus spezzò il pane, e allora fu riconosciuto dai due discepoli distratti. Non molto distratti, a dir il vero, ma annebbiati fino a quel momento. Quel gesto li ha risvegliati, ma lui è scomparso: cioè non lo hanno più visto. Ora il prete spezza il pane, ma tu non hai più bisogno di vedere: lo sai che è il gesto di Gesù, è lui che con questo gesto dice che il suo Corpo è dato, è offerto per noi. Un unico pane spezzato, un unico Corpo, perché noi, mangiandolo, diventiamo un corpo solo, un’unità di fratelli, testimoni dell’unicità del Figlio di Dio. E poi, da una delle due metà stacca un pezzettino e lo lascia cadere nel calice. Questo gesto è accompagnato sottovoce dalle parole: “Il Corpo e il Sangue di Cristo, uniti in questo calice, siano per noi cibo di vita eterna”. A dire il vero questo gesto ha un’origine ben precisa: a Roma, anticamente, quando il papa celebrava in una chiesa, i fedeli riuniti in altre chiese lontane desideravano un segno di unità con il loro vescovo. Questi, per mano dei Diaconi, mandava ad ogni comunità riunita a celebrare, un pezzettino del suo Pane, e questo veniva lasciato cadere nel calice di quell’assemblea. Segno di unità con il proprio vescovo, quindi. Bel significato. Per ovvii motivi poi questo non è stato più praticabile, ma il segno è rimasto. Ora preparati, perché dovrai cantare. Per tre volte canterai: “Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi” e la terza volta “donaci la pace”. Il significato di queste parole te lo dirò dopo, perché le sentirai di nuovo.

 

85 Agnello di Dio

Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo. Beati gli invitati alla cena dell’Agnello”: con queste parole solenni il celebrante ti mostra adesso il Corpo di Cristo. Le parole sono quelle di san Giovanni Battista (Gv 1,29), e anche quelle di un angelo del libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 19,9). Agnello, è definito il nostro Signore, e il Corpo suo è quello dell’agnello offerto in sacrificio. Col suo sacrificio allontana da noi il peccato sempre presente nel mondo. Il peccato ci vorrebbe fagocitare, ingoiare, per tenerci lontani dal Padre. L’espressione “Agnello di Dio” ci ricorda l’agnello offerto da Abele e gradito a Dio, a differenza di quello di Caino che aveva in cuore invidia e gelosia, quello offerto da Abramo al posto del figlio Isacco, quello che gli ebrei hanno ucciso in Egitto per usarne il sangue a segnare gli stipiti delle porte perché non entri lo sterminatore dei primogeniti, e per mangiarne le carni per prendere forza nel lungo viaggio pericoloso e pieno di incognite nel deserto. È ancora l’Agnello, mangiato dagli ebrei alla cena pasquale, che prelude a colui che Giovanni Battista chiama Agnello di Dio. Come fa a togliere i peccati del mondo? Ci attira a sé dalla sua croce, e quando siamo con lui, uniti a lui nell’amarlo, ci troviamo nel cuore del Padre. Allora il peccato non esiste più, non ci tiene più lontano da Dio, quando siamo dentro il suo cuore e il nostro nome sarà scritto sul palmo della sua mano. E siamo beati, cioè amati dal Padre, perché invitati alla Cena dell’Agnello. Siamo invitati a mangiare. Che cosa mangeremo? Mangeremo proprio l’Agnello. Mangeremo colui che si è offerto come agnello e che come agnello è sempre stato profetizzato e annunciato. Adesso il mistero torna a sconcertarci. Si parla di mangiare, ma non ci sono camerieri e non ci sono piatti e forchette, eppure ci sono gli invitati che mangeranno. Io sono invitato e anche tu. Siamo al culmine del nostro incontro che abbiamo chiamato celebrazione e memoriale e sacrificio.

 

86 Degno?

Tutti rispondono alla presentazione dell’Agnello di Dio e all’invito a mangiare: “Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma di' soltanto una parola e io sarò salvato”. Sono le parole di un centurione pagano, una specie di maresciallo, che aveva supplicato Gesù per il suo ragazzo terribilmente sofferente, e Gesù si era offerto di andare a guarirlo. Quel soldato sapeva che Gesù, da buon ebreo, non avrebbe potuto entrare in casa sua, e perciò gli dice che basta che lui, senza entrare in casa, dica una parola, e la sua Parola sarà ubbidita di sicuro dalla malattia. In tal modo manifesta la sua fede, che ha stupito persino il Signore. Allo stesso modo noi non abbiamo meriti, non siamo degni, anzi, il nostro peccato impedisce a Gesù di unirsi a noi. Anche noi ci affidiamo alla sua Parola. Lo dici sul serio? Riesci a dare questo valore alla Parola di Gesù? Non abbiamo altra scelta, a meno di crogiolarci in eterni sensi di colpa. Ma non ne val la pena: nemmeno gli psicologi più provetti riuscirebbero a guarirci. Gesù la sua Parola l’ha pronunciata invitandoci: “Venite a me, voi tutti, affaticati e oppressi” (Mt 11,28). Adesso gli ubbidiamo e andiamo da lui. “Prendete e mangiate”: ubbidiamo? Si, senza scrupoli. All’inizio abbiamo chiesto perdono, continuiamo a coltivare la compunzione, cioè la consapevolezza di essere peccatori bisognosi di misericordia. Sei anche andato a confessarti? Certamente l’hai fatto, almeno nel tempo pasquale. Ti sei pure proposto di confessarti una volta al mese? È il consiglio di uomini santi a chi vuol camminare sulla via della conversione seria e perseverante. L’invito di Gesù “Prendete e mangiate” è per i suoi discepoli. Per essere suoi discepoli è ovvio che viviamo una conversione continua, una vigilanza stabile. E nulla è più utile di una revisione regolare, a scadenza ravvicinata, un rifornimento di grazia permanente. Questo avviene con il Sacramento della Penitenza. A te non piace? Fai un’enorme fatica? È perché lo vedi con occhio malato. Se lo vedessi come incontro con Gesù che ti abbraccia, e abbraccia proprio te e soltanto te, correresti senza paura e senza tentennamenti a confessarti.

 

87 Pane e vino

Di' soltanto una parola e io sarò salvato”: hai detto così? Sul serio? Bene, adesso non tirarti indietro. È vero, la Parola di Gesù ti salva. Allora questa Parola la cerchi? O l’hai detto tanto per dire? Non basta che Gesù dica la sua Parola, devono esserci i tuoi orecchi attenti ad accoglierla, e poi tutto te stesso a viverla. Meno male che oggi l’hai fatto. Così ogni volta che ci apprestiamo a ricevere la comunione al Corpo di Cristo. Adesso, se hai valutato che non hai impedimento, esci dal banco e ti metti in fila. Davanti a te e al tuo fianco camminano lentamente altre persone. Le conosci? Ha poca importanza: non devi badare a loro, almeno in questo momento. Sei raccolto, presente a te stesso. Sta per accadere qualcosa che tocca l’eternità. Tra poco sulla tua mano o sulla tua lingua si poserà quel pezzetto di Pane che pane non è più. Rimani raccolto, in silenzio, attento al Dono di Dio. Se ci sono bambini ringrazierai il Signore, ma lui è più importante di loro. Altrimenti, se ti lasci distrarre dalla loro presenza, li scandalizzi. Adesso sei arrivato da solo a tu per tu con il sacerdote. Egli si è già comunicato per primo e ha bevuto dal calice. A proposito, il Sangue di Cristo l’ha bevuto tutto lui. Ha bevuto anche la tua parte? Come mai? E nessuno gli dice nulla? A me spiace: quando i virus erano quatti quatti e non si mettevano in mostra, almeno nelle solennità, intingevo il Corpo di Cristo nel Sangue di Cristo per metterlo sulla lingua dei fedeli. Così aveva desiderato il mio Consiglio Parrocchiale. Ed era molto bello. I vescovi lo permettono, anzi, lo consigliano. Siamo però troppo abituati alle abitudini secolari di ricevere solo il Corpo di Cristo: per quale motivo si è instaurata questa usanza? Per motivi di tempo? Per motivi igienici? Per il poco amore al Signore nostro Gesù Cristo?

 

88 Impedimenti?

Ho detto che t’incammini a ricevere il Corpo di Cristo, se hai valutato ‘di non avere impedimento’. Può esserci impedimento? Purtroppo sì. Se il peccato del mondo ti ha ferito mortalmente, prima di ricevere il Corpo di Cristo devi rinnegare il tuo gesto peccaminoso, e consegnare alla Chiesa la tua conversione. Devi farti rimettere il peccato, come ha detto Gesù risorto agli apostoli: sono essi che hanno ricevuto questa facoltà. Quali sono le ferite mortali? Omicidio? Certamente. Quindi anche l’aborto. Lo hai consigliato a qualcuno o gli hai comprato la pillola del giorno dopo? Se sapessi come avviene l’aborto, non lo chiameresti più così! Adulterio? Questo è troppo grave, è offesa alla santità e alla fedeltà di Dio. Hai trattato qualcuno come schiavo? Tentativo di suicidio? Questo, non occorre che te lo spieghi. Tra te e un altro o un’altra hai introdotto l’impudicizia? Persino rapporto sessuale senza benedizione di Dio Padre? Sei ricorso a maghi, medium, oroscopi e indovini? Idolatria pura. Hai pronunciato maledizioni? È come chiamare Satana. Hai aderito a sette, o a gruppi panteistici di origine orientale o esoterica, o a proposte sataniche? Fai in modo da lasciare come eredità a figli e nipoti qualche discordia? Ma ora non è il momento di fare l’elenco di tutte le azioni o condizioni che esprimono rifiuto della comunione con gli uomini e con il Padre. Se non hai impedimento, o questo è già stato risolto, eccoti in fila, per amore di Gesù. Solo l’amore a Gesù ti fa fare i passi per andare a ricevere il suo Corpo. Com’è bello l’amore a Gesù. È certamente impegnativo, ma ne vale la pena. Ti fa essere nell’eternità di Dio, partecipe della vita di Maria Ss.ma e dei martiri. Ti dà pienezza di vita, forza e sostegno per le difficoltà quotidiane, coraggio a sopportare tutto e a pazientare con tutti. L’amore a Gesù ti rende generoso e puro, libero e fiducioso, aperto a offrirti per dare sollievo a chi soffre, e ti unisce alla sua Chiesa. Un passo dopo l’altro, per amore di Gesù, ed eccoti davanti al prete che ti mostra il piccolo pezzetto di Pane e ti dice: “Il Corpo di Cristo”. Non ti dice altro, e depone sulla tua lingua o sulla tua mano un piccolo nulla, che però è il sostegno di tutto il mondo.

 

89 Amen potente

Il Corpo di Cristo”. E tu rispondi: “Amen”. Sai già cosa significa questa parolina. È come dicessi: «Sì, è quello che credo e voglio. Voglio in me il Corpo di Cristo per essere anch’io Corpo di Cristo, partecipe della sua vita e della sua missione, insieme a tutti gli altri che formano la Chiesa. Sarò sale della terra e luce del mondo. Se lo mangio, attraverso di me lui sarà presente, attraverso di me lui potrà continuare ad amare gli uomini e comunicare loro la bella notizia che Dio è Padre, e che l’amore del Padre non abbandona nessuno». Se lo mangio mi unisco, anzi, divento Corpo di Cristo spezzato. È come dicessi che non mi spaventa la croce, non temo le ingiurie e la morte sopportate per Gesù e con lui. Il mistero pasquale, risurrezione preceduta dalla morte, è quello che desidero. Quell’“Amen” è potente, ricco, perfetto. Non faccio in tempo a pensare tutte queste cose, devo farlo prima. I significati di questa parola devono essere presenti durante la giornata. Quando dico “Amen”, il Corpo di Cristo è già nella mia bocca. Tu l’hai preso sulla lingua? Hai fatto bene, anche se con quella lingua ti eri lamentato o avevi sparlato. L’hai preso sulla mano? Preziosa la tua mano: ricordi che Gesù ha preso per mano il lebbroso e la suocera di Pietro malata, la figlia di Giairo morta e il cieco mendicante, e anche Pietro mentre affondava. Se Gesù ha preso con la sua mano la mano di malati e di morti e di gente con poca fede, è segno che anche la tua mano può essere strumento di salvezza. Non temere quindi di fare come Tommaso, che ha toccato il Corpo di Cristo risorto, le ferite delle sue mani e del suo fianco. Prendi il Pane santo con la tua mano e portalo alla bocca. Durante la giornata poi prenderai per mano Gesù che soffre: la mano dell’anziano, la mano del malato, quella del moribondo, quella del bambino impaurito, tutte queste mani sono mano del Corpo di Cristo. Adesso hai il diritto di occuparti di tutti questi, perché hai detto “Amen”. Hai detto l’Amen alla Chiesa di Dio, quella Chiesa che ti porge il Corpo di Cristo facendoti partecipe della comunione della Ss.ma Trinità! E, senza perdere il tuo raccoglimento torni nel banco.

 

90 Adorare

Nel banco ti metterai in ginocchio o seduto? Non ha importanza, perché sei Corpo di Cristo. Puoi adorare in ginocchio, puoi riposare sedendoti. Gesù voleva che i suoi riposassero con lui, ma accetta con gioia anche che qualcuno, prostrato, lo adori in silenzio. O cantando? Anche questo è possibile. Se gli altri cantano, aiutali anche tu. Il canto è dono che si riceve e dono che si offre. Un momento di raccoglimento adesso non ci sta male, anzi. Tu stesso percepisci che è necessario sostare, restare silenzioso, senza chiedere nulla né a Gesù né al Padre. Ti ha dato tutto. Se hai il Figlio di Dio in te, cosa ti manca? Chissà che non ti venga in mente la parola di San Pietro: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori” (1Pt 3,15). Egli è presente in modo misterioso in noi. Lo abbiamo mangiato, ci siamo nutriti di lui, siamo diventati tutt'uno con lui. Io sono ancora io, ma uno con lui, e tu sei ancora tu, ma uno con lui. Siamo diversi, ma uno in lui. Non so cosa dire e nemmeno cosa pensare. Viviamo un qualcosa di importante e di eterno. Adoriamo Gesù presente in noi. Sai cosa significa adorare? Questo: restare a bocca aperta, poi portare la mano alla bocca per lo stupore e per mandare un bacio, quindi dichiarare che siamo senza parole, e che le parole disturbano. Vuol dire anche piegare le ginocchia per riconoscere la sua grandezza. Adesso pochi minuti, ma mi riprometto di continuare in un altro momento della giornata o in un altro giorno della settimana. “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori”: significa ancora lasciare che lui soffi su di noi, e godere in tal modo di sentire il suo alito. Il suo respiro porta in me e in te il suo Spirito, cioè il suo amore, la sua obbedienza al Padre, i segreti della sua vita senza paure. Ti prenderai il tempo per ricominciare questo momento di silenzio? Andrai da solo davanti ad un Tabernacolo, aperto o chiuso che sia? Avrai un aiuto decisivo a portare la tua o le tue croci, che ora sono anche sue. E riuscirai a lavare i piedi ai fratelli, perché anche questo fa parte del momento vissuto (Gv 13). Anzi, riuscirai a lasciarti lavare i piedi, il che è ancora più difficile. Lasciarsi amare è difficile perché chi mi ama non lo fa sempre come piacerebbe a me. Ma è necessario per poter “aver parte”, cioè essere in comunione. Se non accetti che le mani di Gesù, - e lui può servirsi di quelle di chiunque -, lavino i tuoi piedi sporchi, non puoi usare la parola comunione né con lui né con me, né con la Chiesa.

 

91 Lavastoviglie?

Il sacerdote ripone le Ostie avanzate nel Tabernacolo. Le mette dentro un vaso, chiamato pisside, coperto da un velo ricamato. Poi fa una genuflessione. Davanti a Gesù si sono inginocchiati anche il padre del figlio epilettico, e il lebbroso, e anche quel tale che voleva sapere cosa fare per avere la vita eterna. Davanti al Corpo di Cristo possiamo inginocchiarci anche noi. È una cosa seria. Poi, siccome in sagrestia non c’è una lavastoviglie, il sacerdote versa un po’ d’acqua nel calice, la beve e lo asciuga. Quasi scandalo per qualche signora schizzinosa! Ma in cinquant’anni non ho mai preso una malattia, né batterica né virale, dal prete che aveva bevuto prima di me! Questo mentre tu ancora con la tua bella voce innalzi un canto che esprime amore a Gesù. Per il Sangue di Cristo era stato usato vino bianco. Motivo? Solo pratico: così non si macchiano le piccole stoffe di lino bianco con cui si asciuga il calice. Gli orientali usano vino rosso, e per la pulizia del calice stoffe rosse. Adesso, dopo che tutti si sono alzati in piedi, il celebrante ti invita ad una nuova, breve preghiera. Ne riporto una ad esempio: “O Dio, che in questo sacramento ci hai fatti partecipi della vita del Cristo, trasformaci a immagine del tuo Figlio, perché diventiamo coeredi della sua gloria nel cielo”. Mi pare bella e completa, pur nella sua brevità. In questo sacramento, cioè durante la Messa, il Padre ci ha fatti partecipi della vita del Figlio suo, come dice la lettera agli Ebrei: “Siamo diventati infatti partecipi di Cristo” (3,14): lo abbiamo addirittura mangiato, e lo abbiamo fatto per essere trasformati: in noi risplenderà la bellezza del volto di Gesù e avremo la sapienza di chi si offre amando! E questo in vista dell’eternità. È come dire che non siamo più quelli di prima. In quest’ora scarsa è successo qualcosa che durerà da qui in avanti: siamo stati avvolti dallo Spirito Santo, siamo stati arricchiti dal frutto della sua presenza, è cresciuta la nostra comunione con il Padre e con Gesù e quindi con i fratelli di fede, è aumentata la nostra disponibilità ad essere amore per tutti gli uomini che sono fuori e godranno della nostra presenza.

 

92 Avvisi

Il prete ora dà qualche avviso. Durante la settimana ci saranno altri incontri, che potranno essere di formazione, di istruzione, di preghiera, oppure di aiuto per organizzare opere di carità, carità materiale o culturale o spirituale. È il beato Antonio Rosmini che ci aiuta a discernere in questo modo la carità della Chiesa. Dar da mangiare agli affamati e vestire gli ignudi è carità materiale, insegnare a lavorare per procurare il cibo per sé e per la famiglia e per i poveri è carità culturale, far conoscere Dio Padre e la vita di Gesù con i suoi insegnamenti è carità spirituale. Dovrai anche tu, adesso che hai mangiato il Corpo di Cristo, inserirti in questo agire della Chiesa. Altrimenti ti sentirai pieno a metà, se non del tutto vuoto. Per questo sarà utile che tu sia membro di una parrocchia concreta e partecipi il più possibile alle sue celebrazioni, per poterti inserire anche nella sua vita concreta. Se continui a cambiare chiesa, potrai trovare sempre migliori predicatori, canti sempre più belli, ma poi ti escluderai dalla vita della Chiesa durante tutta la settimana. È bello che qualche volta tu vada in un Santuario lontano, anche dove in tempi lontani o recenti è apparsa Maria nostra Madre, oppure che qualche volta partecipi alla celebrazione della tua parrocchia di origine, ma solo qualche volta. Di norma farai parte stabile di una parrocchia, dove i Santi e, per prima, Maria nostra Madre, sono tuttora presenti nell’attesa di assistere alla tua apparizione! Altrimenti chi si occuperà della pulizia, della scopa, del lavare le tovaglie, dei fiori, dei ceri, di cambiare le lampadine bruciate, di contare le elemosine? Chi si occuperà dei chierichetti e delle loro vesti? Pretendi che faccia tutto il prete? Nella stragrande maggioranza delle chiese manca anche il sacrista, perché non ci sono i soldi a stipendiarlo. Se tu non farai la tua parte, un bel giorno sarai accolto dalle ragnatele! E... non potrai lamentarti.

 

93 Quarta volta

Adesso il celebrante, per la quarta volta, dice: “Il Signore sia con voi”. Tu capisci che deve accadere qualcosa di importante, se è necessaria ancora questa parola che assicura la presenza del tuo Dio. Certo, succede qualcosa di importante. Riceverai il mandato. La nostra celebrazione sta per finire, ma sta per iniziare e continuare la tua presenza nel mondo. Nel mondo dovrai ritornare arricchito, rinnovato, rafforzato. Il mondo attende luce e attende sale. E il mondo ha bisogno di lievito e di pane. Tu avrai occasioni per donare quanto hai ricevuto: sapienza, consiglio, incoraggiamento, consolazione, bontà. Per questo motivo ora ricevi una bella benedizione. Appena tu avrai risposto “E con il tuo spirito”, il sacerdote alzerà le mani con un gesto solenne, come faceva Aronne, fratello di Mosè (Nm 6,24-26). Questi, come in seguito i sacerdoti del tempio di Gerusalemme, stendeva le mani sul popolo per benedirlo, invocando su di esso la luce del volto di Dio. Le formule di benedizione sono molte, vengono scelte di volta in volta. Qui ti ricordo solo quella, triplice, che viene chiamata appunto di Aronne: “Il Signore vi benedica e vi protegga. Amen. Faccia risplendere il suo volto su di voi e vi doni la sua misericordia. Amen. Rivolga su di voi il suo sguardo e vi doni la sua pace. Amen”. Per tre volte dirai il tuo Amen. Questa benedizione non è qualcosa per dire che tutto è finito, che non c’è più nulla da fare, che sei stato bravo a rimanere fino adesso. La benedizione è uno sguardo sul futuro: adesso hai bisogno della protezione di Dio, perché i pericoli per la tua fede e per la tua carità sono molti, avrai molte tentazioni, forse anche scoraggiamenti. Avrai bisogno di occhi nuovi per osservare tutto con la luce nuova che la Parola ti ha dato, avrai bisogno di mani sante per distribuire quanto hai ricevuto, avrai bisogno di un cuore rinnovato e colmo di pace perché la tua presenza sia lievito nella tua casa, nel tuo ambiente di lavoro, sulle strade del mondo, in ogni dove.

 

94 Benedizione

Adesso il prete, facendo un ampio segno di croce su tutti, proclama: “E la benedizione di Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo, discenda su di voi, e con voi rimanga sempre”. E tu, fatto il segno di croce, ripeti: Amen. Questa è la conclusione di tutte le benedizioni. Che cos’è la benedizione? La parola è facile: dire bene, e qui è Dio che dice bene. E tu sai che quanto Dio dice, avviene! Proprio così. Mi permetto di citarti quanto San Paolo ha scritto ai cristiani di Roma (8,31-35), così capisci il significato di ogni benedizione: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?”. La benedizione è una cosa seria. Ricevila con fede. C’è qualcuno che coglie e memorizza il significato della maledizione, che rovina la vita, ne soffre, non riesce a dimenticarla, ma non pensa e non gode invece della benedizione. La benedizione ti deve far dimenticare le maledizioni che puoi aver ricevuto o che ricevi, consapevolmente o inconsapevolmente. Se prendi sul serio la benedizione, perderai le paure per le maledizioni. Queste sono arrivate da persone influenzate dal nemico. Ma il nemico è come il cane legato alla catena: può arrivare fin dove la catena permette, non oltre. Se tu ricevi benedizione da Dio, questa annulla tutte le maledizioni, accorcia ancor più la catena del cane, che potrà solo abbaiare senza mordere. Non lasciarti quindi suggestionare dalla maledizione. Accogli con gioia e riconoscenza ogni benedizione.

 

95 Andate. Perché?

Ricevendo la benedizione potrai inchinarti, senza paura, e ascoltare l’ “Ite, missa est” detto dal prete o, se c’è, dal diacono. Lo sai il latino? Dicevano così i preti quando celebravano in latino. Tutti credevano di aver capito, ma non avevano capito un bel niente. Capivano così: «adesso andatevene fuor dai piedi perché la messa è finita e il sagrestano deve spegnere le candele e rimettere tutto a posto». Non avevano capito nulla, proprio nulla. È vero che “Ite” significa “Andate”, ma non «andatevene». Non è l’Andate che Gesù ha detto ai demoni che, uscendo dai due poveretti, volevano entrare nei porci. È invece quell’Andate detto da Gesù ai discepoli: “Andate in tutto il mondo”, cioè «adesso inizia la vostra missione, che consiste nel vivere quello che vi ho detto, con la forza del Pane che vi ho dato e che avete mangiato». È il mandato di Gesù, che aveva detto agli apostoli nel cenacolo, quando è apparso risorto: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20,21). Comincia quindi il tempo di portare la croce, come il cireneo, il tempo di dire: “Padre, non la mia, ma la tua volontà sia fatta” (Lc 22,42). E quel “missa est” non vuol dire “la Messa è finita”. Credevi anche tu così? Purtroppo qualche sacerdote dice così, o gli è stato insegnato a dire così. È vero che la parola Messa ha preso origine da quel missa, ma con una serie di ‘qui pro quo’, di equivoci, di incomprensioni linguistiche e di superficialità. “Missa est” era per dire in breve che il mandato di Gesù ti è stato consegnato ed ora lo puoi realizzare. Niente fretta quindi ad uscir di chiesa, e niente cambio di registro. Sei ancora, e devi rimanere ancora, sotto lo sguardo del Padre, ancora ripieno dello Spirito Santo che Gesù ha alitato su di te, ancora impegnato ad ascoltare la voce silenziosa di Dio nel tuo cuore, ancora avvolto dalle braccia della Madre Maria, le cui mani accarezzano anche te. Torniamo a casa sì, ma senza buttar via nulla dell’impegno vissuto e cominciato. Ti comporterai fuori di chiesa come ti sei comportato dentro di essa: non sarai commediante né prima né dopo.

 

96 Correre via?

Uscendo di chiesa ripeti il segno di croce, come l’hai fatto entrando. Torna a rileggere i numeri (6, 7, 17) in cui ti ho detto che cosa esso può significare, così da rinnovare e accrescere la tua consapevolezza e la tua riconoscenza. Ed eccoti fuori di chiesa. Non correre. Puoi fermarti a salutare, a informarti della salute di qualcuno dei presenti o di qualche assente. Puoi informarti dei bambini, dei malati, di qualche anziano della comunità, di qualcuno che è all’ospedale o alla casa di riposo, di chi è senza lavoro o di chi lo ha trovato. Fa’ il tuo augurio di benedizione a chi sta festeggiando il compleanno o l’anniversario di matrimonio, o a chi è diventato papà o mamma. Puoi chiedere a qualcuno se ha bisogno di te durante la settimana, oppure se qualcuno ti può aiutare per qualche tua incombenza. Se sai che qualcuno ti ha preso in antipatia, puoi raddoppiargli il sorriso, senza essere commediante, naturalmente! E così via. Poi vai pure a casa tua, in pace. La grazia di Dio ti accompagna. Ora sei stato santificato: il Signore ti ama, e tu lo ami. Questa certezza ti rimanga nella memoria, sia in quella consapevole che in quella inconscia. So che qualcuno, arrivato a casa, si fa qualche appunto per non dimenticare tutto. Si annota qualche parola delle letture che lo ha colpito o gli ha fatto bene, oppure una parola dell’omelia che gli ha risvegliato dei ricordi o gli dà motivo di riflettere ancora. Talvolta annota qualche interrogativo rimasto irrisolto, per poterlo presentare a qualcuno, quando capiterà l’occasione. Io ho qualche interrogativo, vedremo se riuscirò a renderlo dono per te. Uno è questo: che ci fanno i bambini a Messa, dato che non capiscono nulla? Un altro: perché portiamo le bare dei morti alla nostra Messa? Terzo: gli sposi con i loro invitati a nozze sono fuori posto durante la Messa? È solo l’anticamera fastidiosa, ma inevitabile, della sala da pranzo o della serata da ballo?

 

97 I bambini a Messa?

Nei miei ricordi infantili ce n’è uno preciso. Ero in braccio a mia mamma durante una Messa. Il ricordo non è proprio dei più edificanti. Mi aiuta però a capire i bambini. Sentendo un gruppetto di donne, venute da un altro paese, che cantavano con voci acute, mi chiedevo: «Perché cantano come galline?», ma a mia mamma non ho detto nulla. Proprio così. Vedi, non ero un santo, nemmeno da bambino. Era abitudine consolidata che venissi portato a Messa da bambino. Di certo non capivo nulla. Vedevo, annotavo dentro di me, e il tutto diventava più che ovvio. Poi non facevo fatica ad andare da solo con le mie gambe, quando avevo cinque o sei anni. A sette ho cominciato a comprendere che c’entrava qualcuno che non si vede, ma c’è, e ama e chiede di amare. Non posso dire quando la fede è diventata fede mia, non lo so. So che è arrivato il giorno della prima confessione, ed è stato un momento di gioia particolare. Questi ricordi mi parlano, quando vedo bambini in chiesa. Ammiro i genitori, e li apprezzo. Di certo non sanno immaginarsi quanto bene fa ai loro piccoli essere presenti alla Messa. I bambini non capiscono, ma ricevono. Ricevono Spirito Santo, ricevono grazia, ricevono il contenuto e il frutto del mistero. La presenza del Signore Gesù nel Pane eucaristico influisce anche su di loro, e li santifica. Di questo sono più che certo, e questa certezza mi dà gioia, anche se talora devo sopportare rumore o grida o corse tra i banchi. Non mi danno fastidio. Mi danno fastidio invece gli adulti che scandalizzano i bambini, facendosi vedere distratti dal loro correre e non stare attenti a quanto avviene sull’altare. Benvenuti i bambini: si formano alla scuola dei misteri di Dio. Se i genitori sapessero quanto giova ai loro figli essere presenti, non mancherebbero mai, e li porterebbero anche nei giorni feriali. Non è di certo amore ai figli tenerli lontani dal Signore, riempirli di attenzioni per la salute del corpo e di spreco per le scarpe luminose, e distogliere l’attenzione dalla crescita della loro vita interiore, cioè della loro relazione con Gesù.

 

98 Ancora i bambini

I bambini in chiesa sono santi che si sentono al loro posto. I bambini Gesù li ha messi in mezzo ai suoi discepoli come maestri. E ai discepoli e ai genitori ha detto: “Lasciate che i bambini vengano a me” (Mt 19,14). Non intendeva dire: «Se proprio vogliono venire, permetteteglielo», ma piuttosto: «Fate in modo che mi incontrino». Sai che penso? Che i bambini sono fatti per Gesù. La loro vita è ricca quando hanno Gesù nel cuore! Alla Messa il loro posto è con gli angeli e i santi, che non vediamo, ma ci sono. Noi vediamo solo i peccatori, perché tali siamo anche noi: ognuno infatti nota il suo simile. I bambini sono in mezzo, tra noi e il mondo invisibile. Di solito l’ora della Messa, cui, nei casi migliori, partecipano una volta in settimana, è l’unico momento ‘spirituale’ per i bambini. Per di più avviene in un luogo per loro strano, cioè estraneo, come deve apparire ai loro occhi la chiesa piena di gente. Come e quanto potrà incidere nel loro animo? Se in famiglia non vedono mai nulla che assomiglia a questo momento, non sarà per loro solo commedia? Se a casa il papà non è mai il sacerdote, e la mamma mai il sostituto o la sagrestana che chiama e prepara, come si sentiranno in chiesa? In un luogo incomprensibile? Se in casa non c’è mai un attimo di silenzio e mai una parola rivolta a Dio, né al mattino né a sera e nemmeno ai pasti, questa della chiesa, ai loro occhi, deve apparire solo commedia, o farsa, se il sacerdote stesso accontenta il loro istinto di essere al centro dell’attenzione. Mia mamma mi svegliava la mattina prima della scuola e mi accompagnava nelle preghiere: lo ricordo a mala pena. Ricordo benissimo invece che talvolta mi svegliavo prima. E sentivo che mamma e papà, nella loro stanza, recitavano il “Ti adoro mio Dio…”, poi il “Padre nostro”, e via via fino all’“L’eterno riposo dona loro”. Sentivo la mamma pregare a voce alta e il papà rispondere a mezza voce. Non sapevano che io ero sveglio. Questo ai miei occhi non era commedia, e perciò nemmeno quanto avveniva in chiesa, mai. Casa e chiesa diventavano un tutt’uno ai miei occhi e al mio cuore di bambino. Qui e là era presente l’unico Padre per ascoltare. So che ci sono ancora famiglie così, e anche più diligenti della mia. Beati i bambini che crescono in esse!

 

99 I morti in chiesa

Devo dire ancora che la presenza dei bambini alla Messa è speranza e vita per la comunità cristiana, per la Chiesa intera. Dove non ci sono bambini, la Chiesa chiuderà ben presto i battenti. E come vivranno gli adulti e gli anziani? E come moriremo? Ci sarà chi ci porta in chiesa per un saluto di fede alla nostra morte? I morti li portiamo in chiesa, e alla presenza della salma celebriamo il mistero Eucaristico. Certo, essendo morti non capiscono nulla e nemmeno odono nulla, secondo noi, in base alla nostra esperienza. Ma noi abbiamo altri ricordi importanti: Gesù ha rivolto la parola alla ragazzina dodicenne morta in casa. Gesù ha parlato al ragazzo della vedova portato sulla lettiga al cimitero di Nain. E Gesù, mentre Marta e Maria piangevano sconsolate e quasi arrabbiate con lui, ha gridato alla salma ormai maleodorante di Lazzaro, fasciato e chiuso nel sepolcro: “Vieni fuori!”. Guarda un po’: tutti questi morti hanno udito e ubbidito. La Parola di Gesù oltrepassa la barriera dei timpani ormai freddi e quella dura delle bare verniciate e coperte di fiori. Per questo li portiamo con noi in chiesa quando ascoltiamo il Vangelo, quando cantiamo parole di fede, quando diciamo “Amen” al Corpo di Cristo. Essi sono lì per noi e noi siamo lì per loro. Noi godiamo della comunione al Corpo di Cristo, e anch’essi ne godono. Tu credi di sapere tutto? Non presumerlo: non sai come ha fatto il nostro Creatore a farti gli occhi e a mettere i nervi dentro le tue mani, e nemmeno sai come ha fatto a farti la lingua in modo che tu senta il dolce e l’amaro, o la pelle che senta il caldo e il freddo. Non sai niente dei vivi, e vuoi sapere tutto dei morti? Li portiamo con noi in chiesa, li aspergiamo con la nostra acqua benedetta e li incensiamo con il nostro incenso. Sono nostri, fanno parte della nostra vita, ma non li possediamo. Sono stati recipiente di Dio, del suo amore e della sua pazienza anche per noi. Sono stati dono di Dio per quelli che li piangono, e lo saranno ancora. L’Eucaristia è dono anche per loro, meglio di qualsiasi discorso elogiativo. O entrano già nel Regno, o attendono con desiderio sofferto, fin che la nostra fede si impegna e sale il Calvario anche per loro.

 

100 Gli sposi e gli invitati

Torniamo ai bambini. Da dove vengono i bambini? Sono dono di Dio anche per la comunità cristiana, ma non vengono dalla cicogna, che qui sulle montagne non fa mai il nido. Se non ci sono sposi non ci sono bambini. Oggi c’è chi fa iniziare la loro vita artificialmente e chi studia addirittura per arrivare a farli uscire dalle macchine, ma chissà che mostri psichiatrici diventeranno! Ma torno a dire che i bambini sono al loro posto nella Messa: questa è per loro una culla adatta. Anche gli sposi scoprono che la Messa è la culla delle loro nozze. Il matrimonio, o meglio, la famiglia nasce dall’Eucaristia: è questa la sorgente di ogni comunione, anche della loro. Questa è la sala da parto della famiglia. Qui, mentre Gesù, chiamato sposo da Giovanni Battista, si offre per la sua Chiesa e alla Chiesa come a una sposa, e le dona il proprio Corpo da mangiare e il proprio Sangue da bere, qui nasce l’amore fedele degli sposi, qui spunta la radice della loro perseveranza e qui nasce il coraggio della loro fecondità. Quando dicono il loro “sì” convinto, e se lo dicono l’un l’altro davanti alla Chiesa testimone di questa loro promessa, non avviene ancora nulla. Quel “sì” è una parola d’uomo e di donna: si riempirà di valore divino e si compirà per l’eternità quando, poco dopo, essi mangeranno il Corpo e berranno il Sangue di colui che si è offerto per loro. Allora la loro unità si salda perfettamente. Allora la loro comunione diventa eterna, si nutre dell’obbedienza del Figlio e si posa nel cuore del Padre. In quel momento essi vengono avvolti e uniti dallo Spirito Santo, che non li lascerà più di sua iniziativa. E sarà la forza feconda dello Spirito che li renderà veri genitori, non solo procreatori. Avranno gioia di dare la vita, perché avranno vita vera dentro di sé e tra di loro. Nasceranno i bambini come frutto di quella Messa che dona agli sposi fede e coraggio per essere immersi nel cuore del Dio della vita, del Padre che continua a godere di essere Padre. Persevereranno nel nutrirsi del Corpo di Cristo, ogni settimana. Avranno gioia di essere grembo per i figli del Padre. Se lo sapessero anche gli invitati degli sposi, le loro nozze sarebbero animate da gioia vera!

 

101 Posto vuoto?

Per qualche motivo avevo tolto il Corpo di Cristo dal Tabernacolo. Il sagrestano, passando davanti, faceva la genuflessione come al solito. Al che gli dissi: “Il tabernacolo è vuoto, non occorre fare la genuflessione. Non c’è il Santissimo Sacramento”. Mi ha guardato stupito, e mi rispose: “Ma quello è il suo posto!”. Il tono di voce non ammetteva repliche. Ripensandoci, ho capito quanto era avvenuto a Gerusalemme. Il profeta Geremia aveva fatto nascondere l’Arca dell’Alleanza, togliendola dal Santo dei Santi del tempio, perché c’era pericolo fosse profanata dai conquistatori. L’avevano nascosta così bene che non l’hanno mai più trovata (2Mac 2,5-7; Ger 3,16). Ma i sacerdoti e il popolo hanno continuato a venerare il suo posto come se fosse stata presente, fino a che il tempio è stato raso al suolo nel 70 dopo Cristo. Per secoli quel luogo vuoto è diventato Testimonianza della Presenza e dell’amore di Dio al posto delle tavole in pietra con incisi i Dieci comandamenti, del vaso con la manna e del bastone di Aronne custoditi nell’Arca. Così il Tabernacolo della chiesa. Io, giovane prete baldanzoso per la mia scienza teologica, dovevo imparare dall’attempato sagrestano ricco di sapienza pratica. Ma adesso i Tabernacoli non sono vuoti! Tramite il segno efficace del Pane, Gesù risorto continua ad attendere chi si inginocchi o si sieda nel banco: lo vuole raggiungere col suo alito e avvolgerlo del suo Spirito Santo per confortarlo e rinvigorirlo. Si racconta che il santo curato d’Ars, san Giovanni Maria Vianney, una sera, entrando in chiesa, notò una zappa appoggiata all’esterno vicino alla porta. Incuriosito, osservò nella penombra un uomo seduto nel banco che fissava il Tabernacolo. Non muoveva le labbra, come di solito quelli che pregano. Dopo averlo tenuto d’occhio per un bel po’, gli si avvicinò e gli chiese: “Ditemi, buon uomo, che tipo di preghiera fate?”. E quello, con tutta naturalezza rispose: “Io Lo guardo, e Lui mi guarda”. Rimase stupito il santo, e portò ad esempio di tutti quella preghiera. Il Pane eucaristico, anche quando non possiamo mangiarlo, è fonte di pace, di santità, di ristoro, di forza interiore. È Presenza di Gesù! Dì la verità: anche tu ti sei fermato davanti al tabernacolo e hai ricevuto, diciamo così, benedizione! Non tornerai? Non ne troverai il tempo?

 

102 Eco di parole sante

Era un giorno feriale. Avevo già la mano sulla maniglia della porta laterale per entrare in chiesa. Ed ecco uscire, stravolto, un uomo, uno di quelli che si vedono raramente in questo luogo. Rientrò, contento di avermi incrociato, per dirmi il motivo della sua apparizione. Poche ore prima aveva visitato i suoi operai. Mentre era con loro uno di essi è stato colto da malore. L’ha assistito mentre moriva bestemmiando. Sottosopra, non è andato a casa sua, né nel suo ufficio, nemmeno a vagare nel bosco. È venuto qui per rimediare a quella forma di preghiera sconvolgente. Proprio qui, dove non c’è nessuno a quest’ora, c’è Colui che mille volte ha fatto risuonare le parole: “Del mio sangue… versato per voi e per tutti in remissione dei peccati”. L’eco di questa frase attira gli uomini deboli e fragili, perché è verità ed è amore: verità realizzata dall’amore diventa bellezza che attrae. Quella frase risuona quando la comunità è riunita, ma vale anche per gli assenti e per l’uomo solo. Egli, entrando qui, sa d’essere presente in modo misterioso alla celebrazione. Insieme a quell’uomo, grazie alla sua preghiera informe e incerta, convalidata dalla mia benedizione, anche il suo povero dipendente riceve assistenza dagli angeli e dai santi, che da qui mai si allontanano. Tanto vale il luogo della celebrazione Eucaristica! Per questo faccio in modo che le porte delle ‘mie’ chiese rimangano aperte. I ladri potranno far prendere il volo ai settecenteschi angioletti di legno policromo, ma il Ladro non deve rubare al peccatore il luogo dove ritrovare la pace, riposando tra gli angeli veri che cantano le lodi di Dio. E poi, lo sai? Quando occorrono lavori pesanti di manutenzione alla chiesa e annessi, tra coloro che si offrono volontari, vedrai sempre qualcuno che la domenica non vedi! Non riceverà anche lui il frutto del Sacrificio di Gesù, del Mistero santo che vi viene distribuito, della preghiera che nutre e converte i fedeli, pur essi peccatori?

 

103 I banchi

Un altro fatto, dopo tanto tempo, mi lascia ancora pensoso. Un uomo, con poca istruzione e molta fatica sulle spalle, fece la sua professione di fede pubblica in questo modo. Per moltissimi anni era stato assente dalla chiesa, sedotto dai Testimoni di Geova. Ormai anziano ha atteso che io, parroco, entrassi nel bar, e là, alzandosi in piedi, nel silenzio generale, disse a voce alta, in modo da essere udito da tutti: “Domenica verrò in chiesa e mi metterò nel banco al posto in cui stava mio padre”. Ho immediatamente compreso: era l’abiura alle credenze che l’avevano ingannato fino allora, era la ripresa in pieno della fede della Chiesa, era il rientro nella comunione con la comunità dei credenti, compresi quelli del passato. La celebrazione Eucaristica infatti manifesta e concretizza la fede del cristiano. E ho compreso pure l’importanza del posto nel banco, benché non sappia spiegarmela del tutto. Ho capito pure che dev’esserci una sapienza, nascosta alla mia intelligenza e al mio sentire moderno, anche nel fatto che fino a qualche decennio fa gli uomini si mettevano tutti in una bancata e le donne nell’altra, e i ragazzi davanti. Questa ripartizione non era vissuta come separazione, e invece creava una sorta di comunione che diventava sostegno valido alla fede, uomini con uomini e donne con donne. Del resto, di solito, anche al bar gli uomini avevano e hanno, tra di loro, una sorta di appoggio psico-sociologico. La psicologia della fede gode di altre leggi? Questa tradizionale consuetudine è stata spezzata dalle buone intenzioni di qualcuno, per favorire l’unità della famiglia nel banco, ma non s’è ottenuto il vantaggio sperato. Anzi, gli uomini sono rimasti senza il loro naturale sostegno, così i bambini e i giovani. La psicologia tradizionale, vecchia di secoli, non è stata ancora superata. Dove tale tradizione resiste ancora, ringraziamo il Signore. E, come ha fatto una volta il mio parroco, offrendo una predica ai banchi e alle panche, ringraziamo anche questi per il loro silenzioso servizio.

 

104 Melodia del canto…

Di quando in quando mi balzano alla mente dimenticanze varie in questa mia carrellata di spiegazioni e memorie, ma ne approfitto per coltivare la mia presunta e fragile umiltà. Prima di concludere vorrei, anche se inesperto, dirti qualcosa sul cantare. Nella Messa il canto è frequente e diversificato. Spesso c’è il gruppo del canto che sceglie i canti, li intona, quindi guida e sostiene la voce di tutta l’assemblea. Talora questo gruppo è chiamato coro o corale, perché è diventato molto abile ad eseguire i canti; talvolta forse è meno attento nell’invitare me e te ad aprir bocca per lodare il Signore. In varie chiese il suono dell’organo o della tastiera, o dell’arpeggio dolce di qualche chitarra, aiutano a gustare ancor più la bellezza del canto. Esso rende bello ciò che è già buono della bontà di Dio. Che significa cantare? È aprire la bocca in modo diverso. Ci si deve esercitare a modulare la voce non come si vuole, ma in obbedienza a parole e frasi e regole di tempo, di melodia e di ritmo, e bisogna allenarsi ad ascoltare la voce degli altri, quindi è esercizio di umiltà, di pazienza e di unità. Il canto è allo stesso tempo scuola che insegna a dominare non solo la voce, ma anche i sentimenti, ed è momento di libertà. Il sentimento del dolore nel canto si associa alla gioia, e la gioia al dominio di sé, il proprio impulso al sentire degli altri. Il canto esprime comunione e forza, unità e bellezza. Il canto unisce le nostre voci a quelle degli angeli e le confonde con quella della nostra Madre, che esulta per la salvezza degli uomini obbedienti al suo Figlio. Anche il canto è un po’ mistero: mistero umano, psicologico, sociologico, spirituale e mistico. Quando aiuta ad esprimere la fede e l’amore e la speranza, il canto diventa preghiera meravigliosa. Non so se possiamo dire che Dio gode del nostro canto, perché lui guarda sempre il cuore dell’uomo, anche di quello che canta. Ma nel canto anche il cuore si modifica e si forma. Gesù cantava? Eccome! Il Vangelo lo dice una volta sola (Mt 26,30), ma sappiamo che nella sinagoga si cantava, e quindi anche lui, che non mancava di recarvisi ogni settimana.

 

105 … e armonia del silenzio

Pensavo di terminare col numero cento, ma non ho ancora finito. Un canto particolare, che non è canto, ma ha un valore simile, è il silenzio. Ha una sua melodia il silenzio, come l’ha avuta quello del cuore di Maria a Betlemme e a Nazaret. Nella Messa può e deve trovare spazio: è previsto dopo l’omelia e dopo la Comunione, ma momenti e pause brevi di silenzio possono riempire altri spazi: sta al celebrante proporli, e starà a te incoraggiarlo. Ti ho già detto che «Il silenzio è il mantello di Dio». È un mantello che possiamo indossare facilmente, e, indossandolo, avremo il vantaggio di percepire la voce del Dio dell’amore e della pace, come il profeta Elia, anzi, come Gesù nel deserto. Con questo mantello si copriva continuamente Maria, la Madre di Gesù, divenuta poi, grazie a lui, Madre di tutti. Lo adoperava questo mantello per custodire il suo lavoro interiore: era continuamente impegnata ad accostare le parole degli angeli e degli uomini che dicevano cose grandi del Figlio suo, ai fatti che lo riguardavano e parevano il rovescio di quelle parole. Ad esempio, un “re”, quando nasce, viene messo “in una mangiatoia”? Il “suo regno dura in eterno”, e come mai deve fuggire di notte? È “gloria del suo popolo”, e come mai viene cacciato da Nazaret? Lo Spirito Santo la guidava a comprendere, o meglio, ad accettare. Da Maria impareremo a riempire i momenti di silenzio nella celebrazione. Come avrà vissuto lei le celebrazioni Eucaristiche? Io sgriderò san Luca, che ci ha parlato tanto di lei, ma questo non ce lo ha voluto dire. Lo ha passato sotto silenzio… Ma dovrò poi dirgli che ha fatto bene. Nemmeno io riuscirei a dire quanto mi passa nel cuore in quei momenti così santi, sublimi, bricioli di eternità, brevi voli fuori del tempo e fuori del mondo, concentrato di verità, pioggia di misericordia, sorgenti di carità. Gli apostoli celebravano l’Eucaristia, ma san Luca, nel libro in cui ci dice molte cose di loro, sta zitto. Imparo, e impariamo. Nell’Apocalisse, l’apertura del settimo Sigillo da parte dell’Agnello è preceduta dall’annuncio di un cibo che sazia e di una bevanda che disseta del tutto (7,16; 8,1). Ebbene, viene accompagnata da una lunghissima mezz’ora di intensissimo silenzio. Questo è quello vissuto in particolare da Maria mentre riceve il Corpo di Cristo nella sua comunità.

 

106 Guarire

Che ti pare? Il Corpo di Cristo può essere un corpo malato? Non è forse il più sano di tutti i corpi? Esso non ha conosciuto le tensioni tipiche di chi litiga con Dio e con gli uomini, nemmeno le ansie e le disperazioni che generano malattie e infermità, non ha vissuto quelle preoccupazioni per se stesso che, quando sono in noi, ci rendono narcisisti, permalosi o peggio. Il Corpo di Cristo è libero, è fonte di pace e di serenità, di unità e di comunione. È Corpo risorto, fa già parte della cosiddetta eternità. Esso quindi è salute per ogni fibra del corpo umano che se ne nutre, vitalità per ogni risvolto dell’anima, e robustezza per ogni genere di convivenza, anzi, fondamento di ogni comunione. Ecco l’Eucaristia! Ti meravigli se ti dicono che durante l’Eucaristia un malato è guarito? Se quando passa l’Eucaristia portata dal sacerdote qualcuno butta le stampelle? Se qualcuno allora si sente rivivere e comincia a sprizzare gioia? Questo succede in qualche santuario. In quei luoghi la fede degli uni sostiene la fede degli altri, e avvengono i prodigi della fede. Certo, l’Eucaristia, Corpo di Cristo, è il mistero della fede, è mistero che esige la fede, la manifesta, la compie, e ne realizza i frutti. Gesù era testimone di guarigioni strepitose avvenute a causa della fede in lui, manifestata da quelli che soltanto toccavano il suo Corpo, mentre era ancora mortale. Godeva poi quando il contatto con il suo corpo avveniva di sabato: la guarigione dei malati è completamento della creazione della loro vita. È Gesù infatti il vero sabato di Dio Padre, che finalmente può riposare nella gioia! Le sue guarigioni sono quindi testimonianza che il Messia è venuto. Ogni sabato egli riposa nel sepolcro dopo aver compiuto la fatica dell’offerta del suo corpo, per darcelo in cibo, Pane vero, medicina sicura. Il giorno dopo il sabato, giorno della sua risurrezione, noi partecipiamo alla sua gioia, spezzando quel Pane.

 

107 Sei pronto?

Spesso Gesù doveva dire, a chi si avvicinava a lui per ottenere guarigione: “La tua fede ti ha salvato”. Non può dire oggi la stessa cosa? Siamo noi che mettiamo limitazioni alla nostra fede? Pensiamo sia infruttuosa, incapace di realizzare quel che realizzano o non realizzano le medicine, i medici e gli psichiatri, cioè gli uomini peccatori? C’è poco da fare: manchiamo di fede. “Mistero della fede”! Il Corpo di Cristo lo mangeremo con fede, con la fede di chi vuole guarire, con la fede di quelli che toccavano il mantello o la mano a Gesù. Guariscono le malattie e le infermità, e persino sul volto di Tommaso la durezza lascia il posto allo stupore, e la sua incredulità sparisce al contatto del suo dito con il corpo di Gesù risorto. Tanto più se tu, mangiandolo, lo assumi nel tuo corpo malato. Se poi la tua malattia non scompare, non dispererai: può semplicemente essere segno che lui sa che sarai suo testimone più credibile da malato che da sano. Proprio San Paolo insisteva: «Perché non mi guarisci, Signore? Non vedi come la malattia disturba il lavoro con cui mi affatico per te?». Gesù, deciso e asciutto, gli rispose: “Ti basta la mia grazia” (2Cor 12,9). Udito questo, molti cristiani malati non chiedono guarigione: si fidano e si affidano all’amore del Padre e a Gesù. Sanno di essere già membra del suo Corpo risorto e asceso al cielo. Si offrono, disponibili alle sue scelte, e chiedono comunque di ricevere il Sacramento della vita eterna, Pane santo, fonte di vita. Così ho imparato anch’io. Se sei testimone autentico e verace di Gesù, sia il tuo corpo che la tua anima saranno più che sani, addirittura redenti, pronti per il Paradiso!

 

108 Sine Dominico

Ti ho detto l’importanza dei luoghi, chiesa e banchi, e non ti ho detto nulla riguardo al tempo. Te lo dico in latino: “Sine Dominico Non Possumus”. Lo sai tradurre? Te lo leggo in arabo: «Non possiamo non celebrare il giorno del Signore». E in cinese: «Non è pensabile vivere senza il Pane del Signore che riceviamo alla domenica». Forse si capisce meglio in lingala: «Che vita è la vita priva del Mistero di Gesù risorto nel suo giorno?». Lo vuoi anche in turco? Ecco: «Meglio morire che vivere privi del Sacramento della Risurrezione l’ottavo giorno». Era domenica il 12 febbraio 304, quando quarantanove cristiani di Abitene (oggi Tunisia) si erano radunati nella casa di Ottavio Felice per celebrare l’Eucaristia col sacerdote Saturnino, benché ciò fosse severamente proibito. Non si trattava della probabilità di essere assaliti da un virus, ma della certezza del taglio della testa per ordine dell’imperatore Diocleziano, i cui ministri non si accontentavano di multare. Scoperti, tutti quarantanove furono trasferiti a Cartagine, quei cristiani senza avvocati, per venire processati in tribunale. Il lettore Emerito, a nome di tutti, rispose all’accusa del proconsole Anulino: «Sine Dominico Non Possumus». Sai già il significato, ma te lo ripeto: «Non possiamo e non vogliamo trascorrere il giorno del Signore senza vivere il Mistero del suo Corpo e del suo Sangue. Preferiamo il Paradiso ad una vita senza Vita». Anche il ragazzino Ilarione, con i suoi tre fratelli e sorelle più grandi di lui, cioè Saturnino junior e Felice, lettori, e Maria, vergine consacrata, confessava che il giorno della Risurrezione di Gesù, il giorno dopo il sabato, va vissuto “per lui, con lui e in lui”. Tutti insieme sostenevano che il cristiano non ha alternative, cioè che senza la Messa della domenica il cristiano non può nemmeno considerarsi cristiano. «Sine Dominico Non Possumus». Ti pare di poterlo dire anche tu?

 

109 Non Possumus

E adesso, notizie dei nostri giorni. Mi riferiscono che un giovane turco, divenuto cristiano, dovendo per alcuni mesi lavorare in una città dove non ci sono né chiese né fedeli, ogni domenica si metteva in pullman tre ore per raggiungere la chiesa più vicina. Dopo aver pregato con la piccola comunità che vi si riunisce, si rimetteva in viaggio per altre tre ore. Lo hai mai sentito lamentarsi? Se tu avessi la sua gioia…! Ancora dalla Turchia: parecchi studenti cristiani venuti dall’Africa sono alloggiati a un’ora di tram e venti minuti a piedi dalla chiesa. La domenica arrivano, anche quando non c’è un prete, e pure se piove. «Sine Dominico Non Possumus»: essi non sanno il latino, ma è già tradotto in lingala. Gesù morto e risorto è vita: “Senza di me non potete far nulla”, lo ha detto lui. Ci spostiamo in Perù, sulle montagne di Huari: quando il prete, che in questo caso è il vescovo Padre Marco, arriva a cavallo, trova la piazza davanti alla chiesa affollata di campesinos. Avevano camminato tutta la notte per essere presenti. È domenica. Il vescovo smette di predicare dopo un’ora, sicuro che si sono stancati. Ma tutti in coro: “Padrecito, continua. Abbiamo fatto tanta fatica per così poco? Ti ascoltiamo ancora, Padrecito: tu ci parli di Gesù!”. Allora continua fino a mezzogiorno. Già che ci siamo, ti dico un’altra cosa: Gesù merita anche di essere testimoniato mantenendo il suo giorno libero dal peso del lavoro. “Il lavoro di festa entra dalla porta ed esce dalla finestra”, dicevano i miei genitori, approvati da nonni, zii e zie, senza paura di smentite. Io non l’ho imparato leggendo il catechismo, bensì da come mio padre viveva la domenica. Aveva saputo di uomini che si erano costruiti la casa lavorando di domenica, privandosi del Mistero della morte e risurrezione del Signore; sono poi rimasti privi della moglie e dei figli che la seguivano, e talvolta hanno dovuto persino rinunciare alla casa. Di conseguenza mio padre voleva che i suoi figli vivessero nell’amore al Signore e non ostacolassero il Sacramento domenicale, che doveva segnare e impegnare tutto quel giorno. È vero: «Sine Dominico Non Possumus».

 

110 Ciao, caro peccatore!

Ho finito, ma non vorrei aver finito. Prima di dirti “ciao!” con un po’ di nostalgia, sai che ti dico? Prega per me, che il Signore, nonostante tutto, nonostante abbia parlato poco e male del suo grande e splendido Mistero, grazie ad esso io sia salvato. A dirti il vero, quando rileggo l’uno o l’altro di questi brani che ho scritto, mi verrebbe il desiderio di cominciare daccapo. Sento un poco di vergogna, perché ho scritto da peccatore, senza tenerne conto. È per questo che il mio peccato ti impedisce di comprendere e di stimare il vero e infinito valore del sacrificio Eucaristico. E non dire che non è vero: io stesso sono cieco, grazie a Dio! Egli non mi permette di vedere del tutto il mio peccato, né quello materiale, né quello psichico, né tanto meno quello spirituale; è così profondo, che si nasconde nelle pieghe dei miei pensieri e dei miei vestiti, e persino delle mie intenzioni buone. Se lo conoscessi del tutto, dovrei nascondermi sotto il tavolo. Il Padre vuole risparmiarmi questa vergogna e allora non me lo lascia vedere per adesso. Qualora dovessi ricominciare, starei molto in silenzio, e poi scriverei da peccatore sapendo di esserlo. La Messa, che ci immerge nel fatto della morte e risurrezione di Gesù, infatti, è Mistero offerto ai peccatori. Se non fossimo peccatori, potremmo celebrarla? No, proprio no! Siamo peccatori dall’inizio alla fine, tutti, dal bambino che gioca nel banco o che si dimena in braccio alla mamma, al sacerdote che celebra sull’altare, anche se fa finta di essere santo. È peccatore, e non meravigliarti se talvolta te ne accorgi. Qualcuno mi dice che quelli che vanno a Messa sono peccatori più degli altri: ebbene, dice una grande verità: sono peccatori che sanno più degli altri di esserlo, ed è per questo che vanno, per ottenere misericordia per sé e per gli altri. Questa consapevolezza mi fa desiderare ancora di più la Messa e mi fa amare chi vi partecipa, perché è davvero grande la misericordia che il Padre e Gesù in essa nascondono e rivelano e riversano su me e su te e sul mondo intero. E ora benedicimi, come sai fare.

  

Conclusione

Questa parola, conclusione, mi sa strana. Sì perchè non si possono concludere undiscorso, una conversazione o una meditazione sulla Messa. sul Mistero Eucaristico, il mistero della nostra comunione e del nosro inserimento nella vita divina. Come fai a concludere? Siamo usciti dalla chiesa nutriti del pane santo ma siamo già pronti per rientrarvi il giorn o dopo o la domenica seguente. Concludo semmai per ricominciare. Piuttosto dico: sospendo. Adesso infatti "Sto in silenzio, non apro bocca, perchè sei tu che agisci" (Sal 38,10).

Sono riconoscente a don Divo Barsotti (†2006), che mi ha ispirato alcune riflessioni col libro “La Messa” (Ed. Parva, Melara, 2010). E ringrazio anche altri, di cui non ricordo né il nome, né come né quando mi sono stati di aiuto, di sostegno e d’incoraggiamento. Ringrazio poi in particolare quelli che vengono a Messa con fedeltà e perseveranza e aprono gli occhi durante l’omelia.