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Imparò l'obbedienza

IMPARÒ L'OBBEDIENZA

 

«Obbedire è meglio del sacrificio,

essere docili è più del grasso degli arieti»

(1 Sam 15,22)

 

1. OBBEDIENZA

Nel vocabolario celeste questa parola non esiste.

Il Padre e il Figlio, uniti nell'Amore continuo dello Spirito Santo, non l'adoperano. I Santi l'hanno dimenticata: essi ormai partecipano alla comunione di vita delle Tre divine Persone, che per essi è gioia e festa. Essi ora conoscono solo la parola «amore»: con questo termine possono esprimere tutto, proprio tutto, anche i vari aspetti della vita trascorsa sulla terra. Mentre vivevano percorrendo le nostre strade usavano molte espressioni per dire quanto si muoveva nel loro cuore, ma nessun termine arrivava ad esprimere a fondo la loro esperienza.

Usavano il termine «povertà», ma percepivano che questa parola nascondeva la totalità del loro amore, pur rivelandone un aspetto. Usavano il termine «castità», ma soffrivano per il fatto che questa parola rischiava di nascondere la grandezza e sublimità dell'amore che li animava a donarsi esclusivamente a Dio.

Usavano il termine «obbedienza», sapendo di non essere compresi del tutto. Anzi, intuivano che questa parola era spesso fraintesa, perché mette in luce un aspetto spesso negativo del rapporto tra persone, piuttosto che evidenziarne l'aspetto divino, più vero, eterno, positivo.

Correvano lo stesso rischio usando molte altre parole, che in Dio risplendono di luce e di gloria, mentre sulla nostra bocca assumono almeno un po' del peso e dell'oscurità del nostro peccato.

Per esprimere i vari aspetti della vita vissuta in Dio anche dai Santi sulla terra sarebbe sufficiente la parola «amore,>.

Purtroppo però anche questo termine corre grossi rischi. Talora è usato con grossolanità, assimilato alla compassione per ogni desiderio egocentrico dell'uomo; è usato persino per esprimere l'accontentamento dei moti passionali, oppure sentimenti sdolcinati, che esprimono solo voglia di emergere in qualche modo anche davanti a se

stessi.

È necessario perciò corredare il termine «amore» di aggettivi qualificanti per esprimere la sua vera natura divina.

Tra i molti aggettivi che qualificano l'amore di Dio trasmesso e partecipato a noi uomini, oltre ai termini «casto, disinteressato, libero, misericordioso, santo, potente», troviamo il termine «obbediente»!

 

2. PERCHÉ OBBEDIENZA?

Quando Gesù parla in maniera intima e raccolta ai suoi, riuniti nella celebrazione pasquale, spiega loro cosa significa amare. È molto importante per Lui il rapporto di vero amore coi suoi discepoli, reciproco, e reciproco tra di loro, perché ci sia un «travaso» di vita, di vita divina, come la linfa dalla vite passa ai tralci e dai tralci più grossi a quelli più deboli. Ebbene, nella sua spiegazione dell'amore non c'è posto per i sentimenti d'amore, ma solo per l'obbedienza: «Se mi amate osserverete i miei comandamenti» (Gv 14,15); «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama» (Gv 14, 2 1); «Se uno mi ama osserverà la mia parola» (Gv 14, 24).

Queste spiegazioni dell'amore possono mozzare il fiato. L'amore è ascolto e obbedienza!

La nostra paura di fronte al termine obbedienza viene da una reazione istintiva di rifiuto; talvolta ricordiamo un'autorità esercitata in passato su di noi con violenza, senza amore. Abbiamo timore di confondere l'obbedienza con la soggezione e la schiavitù. Vogliamo essere e sentirci liberi nel senso di poter realizzare quanto ci sentiamo di fare con tutta spontaneità. Certamente soggezione e schiavitù non sono amore, non sono frutto di Spirito Santo, sono conseguenza di

un'errata impostazione dei rapporti con gli altri. Chi non sta in contemplazione di Dio e nella sua adorazione, di fronte agli altri può sentirsi soggiogato, condizionato. Oppure, se lo domina la superbia si sente «superiore» agli altri. Se non è in rapporto diretto col Padre, come figlio, questi atteggiamenti possono prendere il sopravvento in lui, e così egli avrà dell'obbedienza un concetto talmente negativo da giustificarne il rifiuto.

Ma «Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio» (Gal 4,6). L'obbedienza è un amore da figlio, non soggezione da schiavo. Un figlio che ama il padre, sta in ascolto, poiché apprezza il padre, gli dà fiducia, cerca di penetrare nei suoi pensieri per eseguirli. La vera obbedienza è amore vero. Purtroppo non abbiamo un termine che indichi contemporaneamente i due aspetti.

Amore vero è l'osservanza dei desideri espressi (parole) dalla persona amata. Così lo spiegava Gesù. Egli stesso non aveva dato e non voleva dare un esempio diverso: «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato» (Gv 14,31); «Ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15, 10)

Del resto Gesù è colui che ha realizzato la parola del salmo 40 secondo la testimonianza della lettera agli Ebrei (10, 5-7): «Entrando nel mondo Cristo dice: "... ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà"».

L'amore del Figlio al Padre è identificato in una vita di obbedienza! E com'è grande questo amore!

 

3. L'OBBEDIENZA DAL CIELO ALLA TERRA

Ancora la lettera agli Ebrei precisa (5, 8s): «Pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì, e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono».

In Dio, nella sua vita trinitaria, non esiste la parola obbedienza col suo sapore amaro, perché il termine amore può esprimere tutta la ricchezza e la gioia della vita di comunione divina. Ma quando il Figlio divenne uomo, quando Egli assunse la carne mortale dell'uomo, si trovò addosso un'eredità millenaria di peccato, di ribellione, di disobbedienza. «È stato provato in ogni cosa» (4,15), tanto da dover essere chiamato «agnello di Dio che porta il peccato del mondo» (Gv 1,29).

Il Figlio di Dio dovette cominciare a vivere il perfetto amore, che è perfetta obbedienza, dentro la natura umana. E la carne umana, così legata al mondo, soffriva, soffriva per obbedire, per amare! «Imparò l'obbedienza dalle cose che patì». Pur volendo vivere da figlio di Dio non potè evitare la sofferenza che costa l'obbedire: pensiamo alla notte di preghiera trascorsa nell'orto del Gethsemani. Anzi, il soffrire gli insegnò l'obbedienza, il vero amore!

Questa scuola di obbedienza è iniziata quando Gesù era ancora giovane. Dodicenne appena, al primo pellegrinaggio alla città santa, ritenne giunto il momento di dedicarsi «alle cose del Padre» suo! Per questa convinzione era disposto a lasciare i genitori, a fermarsi nelle scuole rabbiniche. È vero: egli doveva occuparsi delle cose del Padre suo. E nella sua sapienza di dodicenne ritenne che ciò avesse dovuto significare ascoltare, interrogare, imparare, farsi interlocutore dei dottori della legge, degli scribi, forse per diventare un esperto delle Sacre Scritture come loro. Il ragazzo Gesù sperimentò questa strada per tre giorni, e poi? Dalla risposta della Madre s'accorse che per lui «occuparsi delle cose del Padre» significava stare sottomesso: «partì dunque con loro e tornò a Nazareth e stava loro sottomesso» (Lc 2, 5 I).

Così, vivendo una piena sottomissione, Egli si occupò delle cose del

Padre: è «cosa» di Dio una vita di amore obbediente, imparare a dominare la propria volontà, a sottomettere i propri ragionamenti, a stringere la carne umana in questa morsa che sembra farla morire, che sembra frustrarla. Questa è la strada per occuparsi in modo vero ed essenziale delle cose del Padre, cioè per generare amore, per diventare trasparenza dell'amore infinito, della luce divina.

Al termine della sua missione Gesù potrà dire nella sua preghiera: «ho fatto conoscere loro il tuo nome» (Gv 17, 26).

Con la sua obbedienza costata sangue Gesù ci ha fatto conoscere ' e amare quindi, il Padre: un nome d'amore che solo con l'amore possiamo incontrare; lo conosciamo quando cominciamo ad obbedirgli con amore, come ha fatto Gesù.

Altrimenti conosceremmo una immagine di Dio costruita dalle nostre paure o dalle nostre ambizioni orgogliose: uno spauracchio inesistente o un mago che illude e rende schiavi. L'obbedienza d'amore ci fa entrare a gustare la salvezza (cf Eb 5,9).

 

4. L'OBBEDIENTE

La vita di Gesù è descritta dall'evangelista Giovanni come una vita di obbedienza. È l'amore che si manifesta obbedendo. Egli è il Figlio che gode di esser figlio, di non prendere mai il posto del Padre, di essere ascolto attento e precisa disponibilità. Per ogni sua iniziativa Egli attende i segni della volontà del Padre. Così alle nozze di Cana: scopre i segni nella disponibilità dei servi al comando espresso da Maria.

Ai discepoli preoccupati perché non mangiava Egli disse: «mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34). Dopo aver guarito l'infermo alla piscina di Betzaetà dichiara: «il Padre mio opera e anch'io opero» (5, 17). Inoltre «io non posso fare nulla da me stesso; giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (5,30). «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato» (7,16); «Io non sono venuto da me» (7,28); «Non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo... Io faccio sempre le cose che gli sono gradite» (8,28-29); «Io dico quello che ho visto presso il Padre» (8, 38). Si potrebbe continuare.

Gesù è sempre proteso verso il Padre per coglierne i cenni, i desideri, per realizzare la sua parola. È amore così pieno che giunge a ritenere ovvia la sua passione: «non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?» dice a Pietro che lo voleva difendere con i metodi violenti, rifiutando la croce.

E persino in croce Gesù è attento a completare la sua obbedienza, e per obbedienza alle Scritture disse: «Ho sete». Il suo ultimo atto d'amore destinato a suscitare almeno un po' di compassione, di accoglienza. Per obbedienza alle Scritture, che manifestano l'amore di Dio per l'uomo, Gesù si fa mendicante di un po' d'acqua.

Gesù è l'obbediente.

Per questo Egli merita il nome di «figlio,,, e questo nome lo porta sempre come un nome glorioso. Per la sua obbedienza egli manifesta pienamente le intenzioni d'amore del Padre, diventa trasparente della paternità di Dio.

Gesù, l'obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Egli risulta essere così un Adamo nuovo, il vero Adamo: l'uomo come veramente Dio lo aveva voluto: un uomo che incarna l'amore! Un amore reso visibile dall'obbedienza; un'obbedienza che costa terribilmente perché il vecchio Adamo ha cambiato natura all'uomo: da figlio lo ha reso ribelle.

Gesù nell'iconografia orientale viene presentato sempre rivestito della stola dorata. In quanto stola essa visualizza il giogo dell'obbedienza che Egli ha continuamente portato. Si è sottomesso, non ha voluto fare la propria volontà, ma quella di Colui che l'ha mandato.

Il colore oro invece vuol significare il suo potere: sì, a chi è totalmente sottomesso si può dare totale fiducia: «il Padre ha rimesso ogni giudizio al Figlio» (Gv 5,22); «il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni . cosa» (3, 35). Il Figlio si è sottomesso, il Padre gli dà ogni potere (cf Mt 8, 18).

Lo stesso simbolo, la stessa stola, manifesta la totale sottomissione da parte sua e la pienezza dei poteri affidatigli dal Padre!

 

5. OBBEDIENZA: TESTIMONIANZA DI UNITÀ

L'obbedienza non è quindi solo una delle tante virtù: essa è molto di più, è il rapporto d'amore che il Figlio di Dio mantiene verso il Padre, è la sua vita. Per Lui il termine obbedienza non ha sapore amaro, se non da quando il Figlio assume la carne umana e inizia a vivere in mezzo a uomini eredi di disobbedienza. Allora il suo amore obbediente costa sangue.

Per Gesù uomo obbedire è il modo concreto per essere unito al Padre, per manifestare la sua unità al Padre. Obbedire diventa testimoniare la Tri-unità di Padre, Figlio e Spirito: martirio che fa risplendere nel mondo la luce divina, la rende presente, abbordabile agli uomini.

La vita santissima di Dio Trinità viene «concretizzata» negli atti di obbedienza di Gesù e nel suo spirito di obbedienza. Il momento che segna l'inizio pubblico e solenne della sua obbedienza è il momento della grande teofania, manifestazione Trinitaria. Quando Gesù scende nell'acqua del Giordano «per compiere ogni giustizia», cioè per portare a compimento ogni segno della volontà del Padre e manifestare all'umanità fin dove arriva il suo amore, allora si fa udire la voce stessa di Dio e si fa vedere l'immagine dello Spirito che scende e rimane sul Figlio prediletto. Gesù si umilia nell'obbedienza, il Padre lo esalta e lo Spirito si posa su di Lui per rimanervi sempre.

Preludio di ciò che avverrà sul Calvario: «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato ... » (Fil 2,8-9).

lo non posso ignorare questa vita del Figlio di Dio. Egli è il Figlio modello e vita di ogni figlio di Dio. Se non faccio mia la sua vita, non sono figlio per il Padre. Se faccio mia la sua vita, se l'accolgo, divento obbediente. La mia obbedienza sarà testimonianza, martirio: per chi? per il Figlio di Dio. La mia obbedienza d'amore mi tiene I unito ad altri: e l'unità nel Nome di Gesù è luogo della sua Presenza: «Dove due o più sono uniti nel mio Nome, là io sono in mezzo a loro» (Mt 8,20). Per questo cerco di mantenere un cuore aperto all'obbedienza , all'amore attento e disponibile: per vivere l'unità, affinché Gesù stesso, il Salvatore di tutti, possa essere presente qui, oggi. Solo per suo amore. Altrimenti non ne avrei la forza, né il coraggio, nemmeno ne vedrei ragione sufficiente.

 

6. A CHI OBBEDIRE?

Quando i sette discepoli del Signore, stanchi per una fatica inutile durata tutta una notte, alzano gli occhi alla prima luce dell'alba, vedono sulla riva un tale, uno sconosciuto. Questi però parla loro con familiarità, e con semplicità s'interessa del loro bisogno più immediato, l'appetito. Essi non hanno nulla per riprendere forza e coraggio, nulla per vivere la comunione di un pasto per quanto frugale. Nulla per il ristoro personale e per il rafforzamento comunitario.

Lo sconosciuto allora - bada bene che è uno sconosciuto, un uomo qualunque - dà un ordine preciso: «gettale la rete dalla parte destra della barca» (Gv 21, 6).

I sette obbediscono. Come mai? Hanno già fatto uso della loro esperienze e abilità di pescatori, di tutte le prudenze e le tattiche possibili, hanno già adoperato le loro forze ed esaurito le ore propizie alla pesca. Chi sei tu che ci dai quest'ordine? potrebbero chiedersi. E invece no. Nei loro cuori c'è uno spirito di obbedienza, un atteggiamento umile che accoglie da uno sconosciuto, da un uomo qualunque, l'ispirazione per un nuovo tentativo da aggiungersi a quelli già andati a vuoto, demoralizzanti.

Una differenza tra questo ultimo gettar la rete e gli altri tentativi. Questa volta la rete entra in acqua con un gesto di obbedienza, le altre volte vi entrava con gesti... autogestiti, ragionati, frutto d'abilità professionale.

E come mai un gesto di obbedienza ha un risultato tanto diverso dagli atti compiuti con logica razionale? Credo la spiegazione sia semplice.

Quando compio un atto di obbedienza la mia vita s'identifica a quella del Figlio di Dio, l'ubbidiente. Quando obbedisco, vivo la situazione di Adamo prima della ribellione, anzi ancora più, perché questa situazione la vivo superando gli ostacoli posti dal ragionamento, dall'orgoglio e dall'indipendenza frutto di quella ribellione. Quando obbedisco, Dio Padre vede in me un aspetto della vita del suo Figlio, anzi, l'aspetto più significativo. Egli riconosce in me la presenza dello spirito umile di Gesù, Figlio di Dio e Figlio dell'uomo e non può non intervenire. Dov'è il Figlio suo là è la sua onnipotenza, là Egli interviene.

L'atto di vero amore obbediente realizza la somiglianza dell'uomo al Figlio di Dio.

I pesci si sono dati appuntamento nella rete di Simon Pietro! Questa volta è la rete dell'obbedienza! del Figlio di Dio!

A chi hanno obbedito i sette uomini sulla barca?

A una persona che non conoscono. Il discepolo che Gesù amava riconosce il Signore: «È il Signore!». Chi obbedisce con umiltà e amore, dopo s'accorge d'aver obbedito al Signore!

Dio solo è, in verità, degno d'obbedienza. E quando io esercito amore obbediente, poi m'accorgo di aver obbedito a Dio, e m'accorgo pure che Dio è intervenuto in maniera meravigliosa. Un intreccio misterioso: io obbedisco come a Dio, Egli riconosce in me almeno qualcosa del suo Figlio e impegna la sua onnipotenza. L'obbedienza così, da debolezza, quale sembra ai nostri occhi avidi di vanagloria, è luogo di presenza dell'onnipotenza divina. S. Paolo ha potuto addirittura raccomandare ai servi di stare sottomessi, proprio per questa grandezza dell'obbedienza, espressione di Dio perché espressione d'amore: «Voi, servi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni,non servendo solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore. Qualunque cosa facciate fatela di cuore come per il Signore e non per gli uomini» (Col 3, 2223).

 

7. SCHIAVITÙ O OBBEDIENZA?

La nostra vita risulta essere sempre una vita di obbedienza. La libertà che riteniamo di dover difendere consiste in effetti nello scegliere colui cui obbedire!

Questa è la visione spirituale del nostro comportamento.

Se l'uomo non si tiene in obbedienza libera e amorosa, se non si sottomette come il Figlio di Dio e invece cerca libertà, di fatto egli sta già sotto l'influsso di spiriti disumanizzanti, quelli che hanno costretto Adamo all'inimicizia e alla sofferenza. Chi non cerca l'umiltà dell'obbedienza perde la sapienza e l'armonia interiore, perde la libertà @

Cercando la libertà diventa schiavo.

È la constatazione descritta da S. Paolo nella lettera ai Romani (cap. 6). L'apostolo suggerisce la strada della obbedienza come via di liberazione. L'obbedienza naturalmente è concepita come obbedienza a Dio, e solo a Dio, anche quando riceviamo i segni della sua volontà dagli uomini, o dalle circostanze in cui veniamo a trovarci. Cercheremo di individuare questi segni, di leggerli con criteri evangelici, di operare discernimento sapiente e prudente. L'orientamento però è a Dio sempre, così che rimanga vivo in noi il discernimento su ciò che gli uomini ci possono chiedere o le circostanze ci possono prospettare. Se obbedisco a Dio quando faccio ciò che gli uomini chiedono saprò distinguere quello che non è conforme ai comandamenti del Signore e potrò aiutare gli uomini a mettersi anch'essi in obbedienza a Lui.

«Non sapete voi che, se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale servite: sia del peccato che porta alla morte, sia dell'obbedienza che conduce alla giustizia?» (Rm 6,16).

L'obbedienza viene proposta da S. Paolo come alternativa al peccato; essa è l'altro padrone cui il cristiano serve: un «padrone» che non rende schiavi, ma che libera conducendo l'uomo alla «giustizia», ad essere veramente uomo secondo il modello su cui è stato voluto e creato dal Padre!

L'alternativa non si pone nei termini schiavitù-libertà, vediamo piuttosto la schiavitù contrapposta all'obbedienza. Se non vuoi essere schiavo cerca di amare con cuore disponibile ed obbediente.

Se non vuoi essere schiavo dello spirito di vanagloria, dell'amor proprio, dell'avarizia, dell'impurità, ecc. - se non vuoi essere schiavo di «spiriti maligni» e di «demoni» che nemmeno conosci, né sai intravedere, e ti portano alla morte (interiore, a perdere la gioia e l'iniziativa dell'amore), se vuoi sfuggire questo «destino» (6,21) cerca il Padre per ubbidirgli, cerca l'obbedienza per essere riconosciuto figlio di Dio! Strada dura, porta stretta che immette nella libertà interiore, spirituale, la libertà dagli «spiriti immondi».

A Pietro Gesù ha indicato proprio questa strada, alla fine, dopo il famoso esame d'ammissione al servizio ecclesiale che ha fatto risuonare il triplice «mi ami tu?,>. Ebbene, Gesù ha mostrato a Pietro la strada del vero amore. «Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi, ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi. Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: "Seguimi"» (Gv 21,18-19).

 

8. OBBEDIRE: MORIRE E NASCERE

Pietro era abituato all'autonomia, a decidere tutti i suoi movimenti senza confrontarsi con altri, senza cercare l'obbedienza. Poche ore prima aveva deciso la sua uscita sul lago per pescare (21,3), una decisione individualistica, presa autonomamente. E pochi minuti prima aveva vestito il camiciotto e s'era buttato in acqua con un atto altrettanto spontaneo, senza aver passato parola con nessuno dei fratelli, atto che lo mise in mostra davanti a tutti e appesantì la fatica degli altri, che dovettero assumersi tutto l'onere del tirar la rete senza il suo aiuto. A quest'uomo, abituato a decidere da solo le piccole e le grandi azioni, Gesù indica la via della sequela: «quando sarai vecchio... un altro... ti porterà dove tu non vuoi». È la via dell'obbedienza. Pietro impiegherà tutte le sue energie per crescere dentro questa dimensione della vita, dovrà imparare ad invecchiare così, nell'amore che si fa obbediente.

Questa è la morte che dà gloria a Dio: la morte dell'obbedienza, la morte del proprio io, una morte che dà spazio all'amore umile e obbediente da figlio. Dio riceve gloria, Egli stesso è presente dentro questa vita, dentro gli atti di obbedienza di chiunque partecipi così al movimento interiore del Figlio suo, obbediente fino alla morte!

L'obbedire diviene un vero morire, perché dalla sofferenza dell'obbedienza deve nascere il vero amore. Obbedire è la morte dell'io, dell'io egoistico, egocentrico, schiavo di sé, morte che fa spazio all'amore dove l'io è dimenticato a favore del Figlio, di Gesù.

Pietro deve imparare subito che la parola «seguimi» comporta questo nuovo orientamento. Gli è venuto spontaneo interessarsi della sorte dell'amico: «Signore è lui?». Ma Gesù lo ha richiamato subito: «...che importa a te? Tu seguimi!». Pietro non dovrà curiosare nella vita altrui, non dovrà cercare queste soddisfazioni umane, ma solo seguire Gesù. Dovrà solo tener gli occhi e il cuore fissi in Gesù, obbedire passo dopo passo a Lui con perseveranza e continuità. Tu segui me! Percorri la strada dell'obbedienza nelle piccole cose e nelle grandi, allora sarai d'aiuto a chi ti sta dietro, a chiunque ti vede camminare.

Pietro, l'uomo che ha il compito di nutrire gli agnelli e tener unite le pecore di Gesù, deve vivere continuamente l'obbedienza. È l'obbedienza che forma il «capo»; è l'obbedienza che con-forma al capo del Corpo, Cristo, le sue membra, e in particolar modo quelle membra che rappresentano l'unico Capo. «Il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve» (Lc 22,26). Come colui cioè che sta nell'obbedienza.

L'autorità non dovrebbe esistere se non come servizio alla obbedienza. L'unica autorità è Dio! Noi chiamiamo autorità quell'uomo che deve obbedire di più, che deve dare esempio di ascolto e di obbedienza, di amore attento ai segni di Dio anche tramite i fratelli. Se fossimo veramente obbedienti non avrebbe senso parlare di autorità.

Esistono persone obbedienti, che siccome sono obbedienti, cercano i segni della volontà di Dio nei loro fratelli, particolarmente in quelli che esercitano ministeri a favore di tutto il Corpo.

Purtroppo... il peccato degli uni e degli altri, la non piena obbedienza di tutti porta a usare termini (e atteggiamenti) come «autorità»... Se l'obbedienza fosse vista e vissuta come amore, ciò non servirebbe!

L'egoismo e la vanagloria tentano sempre il cristiano a non interpellare nessuno, e quindi a mormorare e disubbidire; e tentano coloro che hanno servizi da svolgere, ad esercitarli con orgoglio o fretta o arroganza, diventando autoritari.

Per gli uni e per gli altri è sempre necessario discernimento su se stessi, e abbondante grazia di Spirito Santo!

 

9. OBBEDIRE A DIO

Fino a che mi si parla di obbedienza a Dio non sorgono obiezioni nella mia mente e nel mio cuore. Queste talora si fanno persino violente quando si parla di obbedire agli uomini. Come mai? Se io ho un cuore obbediente, cioè se ho un cuore attento ad amare, dovrei rimanere nella stessa situazione interiore sia davanti a Dio che davanti agli uomini. Anzi, se veramente fossi obbediente a Dio, quando mi trovo davanti agli uomini dovrei essere attento a cogliere anche da essi i segni della volontà di Dio, cercando di discernerli e - se non sono chiari - di farmi aiutare da qualcuno che ama il Signore e lo ascolta.

Gesù arriverebbe a dire che se ti trovi davanti a un ladro che ti vuoi togliere la tunica, tu dovrai ubbidire a Dio, che può chiederti di dargli anche il mantello. E se uno ti chiede un prestito, tu puoi ritenere volontà di Dio darglielo senza interesse e senza chiederne la restituzione. Quello che ti chiede un uomo può essere volontà di Dio, anzi, Dio potrebbe voler di più.

Il Signore stesso ha lasciato capire che il rapporto tra i suoi discepoli deve essere un rapporto di obbedienza reciproca, perché di amore reciproco.

Quando Egli ha spaventato Saulo sulla via verso Damasco, gli ha parlato direttamente, ma gli ha dato solamente l'indicazione di mettersi in obbedienza a un uomo. Saulo, per divenire Paolo, deve fare la volontà del Signore obbedendo alle istruzioni di Anania, un discepolo timoroso. Il Signore Gesù, quando conquista un uomo, lo vuol vedere unito ai suoi discepoli. Vivere quest'unità può significare talora essere sottomesso con umiltà, disponibile ad apprendere il nuovo stile di vita, disponibile all'obbedienza. Questa obbedienza sarà segno di fede in Lui, di umiltà, di amore semplice, di concretezza. Come Egli, Gesù, si è sottomesso a Maria e a Giuseppe, così vuole che agiscano quanti gli appartengono.

In tal modo l'amore dimostra di essere vero amore e non amor proprio: amore di Dio e non amore della propria gloria, fiducia nel Padre e non fiducia nei propri ragionamenti e nella propria capacità.

La mia ribellione al pensiero di obbedire agli uomini può essere segno di una immaturità del mio discernimento: non riesco a cogliere i segni della volontà di Dio in ciò che mi chiedono gli uomini. Potrebbe talora succedere che una persona mi chiedesse qualcosa chiaramente contraria alla volontà di Dio. In tal caso non dovrei acconsentire, perché voglio obbedire a Dio. Per questo stesso motivo non accolgo sentimenti di ribellione, che presuppongono giudizio, accusa e risentimento verso il fratello che scorgo nell'errore. Volontà di Dio - cui obbedire - in tal caso sarebbe non il fare quanto mi è chiesto, ma portare la croce di una persona che si trova in errore, amandola e, se possibile, anche correggendola.

Da parte mia poi non posso «esigere» che degli uomini obbediscano a me, nemmeno se avessi delle responsabilità nei loro confronti: diverrei un dittatore! Dovrei occuparmi piuttosto che essi rimangono in rapporto d'amore a Dio: allora potranno scorgere nelle mie indicazione i segni della sua volontà! Dio stesso non

E la più pura dimostrazione di amore a Dio è proprio l'obbedienza: «Il Signore forse gradisce gli olocausti e i sacrifici come obbedire alla voce del Signore? Ecco, obbedire è meglio del sacrificio, essere docili è più grasso degli arieti» (1 Sam 15, 22). I sacrifici, benché preziosi, non riescono a raggiungere la purezza dell'amore obbediente: questo è sacrificio di se stesso! Questo è il sacrificio del Figlio, che ha offerto se stesso, diventando obbediente fino alla morte, e alla morte di croce!

 

10. OBBEDIRE ALL'UOMO?

Ci sono quattro tipi di obbedienza che gli uomini vivono nell'ambito della vita naturale. Il cristiano li renderà oggetto della propria obbedienza a Dio, vivendoli coscientemente come tali. Si tratta dell'obbedienza dei figli ai genitori, dei coniugi tra loro, dei sudditi ai governanti, dei dipendenti ai loro capi.

Vi sono poi tre forme di obbedienza scelte liberamente dai cristiani; sono un modo volontario di conformare la propria vita a quella di Gesù obbediente, in gradi diversi. Si tratta dell'obbedienza del cristiano al proprio pastore, quella del sacerdote al Vescovo o del religioso al suo superiore, e quella del figlio al padre spirituale.

Provo ad abbozzare una parola per ognuna di queste situazioni, che formano un «settenario» dell'amore obbediente!

La prima esperienza di obbedienza l'ho avuta anch'io, come tu, da bambino nei confronti dei genitori. Un'obbedienza naturale. Il bambino ha bisogno di tutto e perciò è sottomesso.

I genitori si sentono responsabili della sua crescita e della sua protezione da innumerevoli pericoli, e così il bambino si trova ad obbedire tutti i giorni: inconsapevolmente dapprima, poi consapevolmente. I genitori, e chi per loro nei diversi ambienti in cui i bambini vengono a trovarsi, sono un punto di riferimento obbligato. A mano a mano che i figli crescono, imparano ad autogestirsi, a discernere, a scegliere. I genitori attraverso l'obbedienza dei figli vogliono educare i figli stessi a vivere una vita regolata, rispettosa di sé e degli altri. In pratica li educano a un'obbedienza più ampia, libera, espressione di attenzione e di amore.

I genitori cristiani sono coscienti che il loro compito verso i figli consiste nel portare questi - con l'esempio e con gli insegnamenti - a obbedire a Dio nelle varie situazioni di vita.'E i figli cominciano la loro obbedienza a Dio con l'obbedire ai genitori.

Il genitore dovrà essere obbediente veramente a Dio, altrimenti i figli si troveranno ben presto in conflitto; se il genitore non è obbediente a Dio, la sua parola sarà senza autorevolezza, anche se venisse detta con forza. Quando il figlio sarà ragazzo o giovane, le attese del genitore potrebbero essere dissonanti o contrarie a quelle che lo Spirito del Signore lascia percepire nel suo cuore disponibile. Se le richieste del genitore sono conformi a quelle di Dio e le sue parole sono riscontrabili come espressione dell'amore di Dio, allora i figli sono aiutati alla vera obbedienza.

« Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore!» (Col 3,20).

«Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto. Onora tuo padre e tua madre: è questo il primo comandamento associato a una promessa: perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra. E voi, padri, non inasprite i vostri figli, ma allevateli nell'educazione e nella disciplina del Signore» (Ef 6,1-4).

Altra situazione concreta di obbedienza è quella degli sposi. Essi si amano, si vogliono bene, si donano reciprocamente. Tra di loro c'è obbedienza. Nota bene, non dico che tra loro c'è autorità, ma tra di loro c'è obbedienza.

I conflitti, talora con tristi conseguenze, non nascono mai quando c'è gara di obbedienza, ma quando c'è gara di autorità: in tal caso l'amore per il coniuge non è stato lavato, purificato, separato dall'amor proprio!

Tra gli sposi cristiani ci dev'essere amore obbediente, la caratteristica del vero amore.

«Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore» (Ef 5,22). «E voi mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei» (25).

«Sara obbediva ad Abramo» (1Pt 3,6). «Voi mariti, trattate con riguardo le vostre mogli.. e rendete loro onore... così non saranno impedite le vostre preghiere» (7).

Quando un coniuge obbedisce al proprio coniuge cresce reciproca la fiducia, l'armonia, la comprensione. L'eventuale sofferenza dell'obbedire è ampiamente ripagata dalla consolazione dell'unità profonda del cuore. Un coniuge che ama il proprio coniuge, non fa nulla senza averlo interpellato, non intraprende nulla se non in unità. Così essi sono veramente «una carne sola» e Dio agisce tramite loro, e con loro benedice il mondo.

E la prima benedizione la godono essi stessi, perché stanno vivendo qualcosa della armonia e della pace divina!

«Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite,- poiché non c'è autorità se non da Dio, e quelle che esistono sono stabilite da Dio»... «È necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio» (Rm 13,1.5s).

S. Paolo scrive queste parole ai cristiani di Roma, il cui imperatore tramite i suoi funzionari già lo aveva tenuto in prigione. L'obbedienza che i cristiani offrono al loro Signore diventa sottomissione alle autorità civili, chiunque esse siano. Come l'apostolo Paolo, anche S. Pietro raccomanda: «State sottomessi a ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni. Perché questa è la volontà di Dio: che operando il bene, voi chiudiate la bocca all'ignoranza degli uomini stolti» (1 Pt 2, 13-15).

L'obbedienza dovuta alle autorità civili è dovuta loro per ciò che riguarda il loro servizio. Qualora l'autorità civile esigesse ciò che spetta solo a Dio, il cristiano piuttosto muore, testimone dell'autorità di Dio sulla propria vita: «Adora il Signore Dio tuo e a Lui solo rendi culto» (Mi 4, 10). «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a lui, giudicatelo voi stessi» (At 4,19): con queste parole Pietro e Giovanni ci aiutano a vedere il limite dell'autorità costituita, un limite che trova la sua origine ancora in Dio, che ha concesso l'autorità agli uomini come servizio: di esso renderanno conto. Così vediamo che Gesù accetta il potere di Pilato, ma gli richiama il dovere di esercitarlo secondo le intenzioni di Colui che gliel'ha dato, il dovere quindi di stare in «contemplazione» di Dio: «Tu non avresti alcun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto. Per questo, chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande» (Gv 19, I 1). Il potere civile è una responsabilità verso Dio, unico Re dell'uomo: non può esser esercitato come potere assoluto; chi governa può peccare! Come Gesù accetta l'autorità di Pilato, così il cristiano nel suo rapporto con Dio vive in obbedienza alle leggi civili, non solo per timore, ma anche perché ama gli uomini, e la società degli uomini amati da Dio!

«Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo; e non servendo per essere visti, come per piacere agli uomini, ma come servi di Cristo, compiendo la volontà di Dio di cuore, prestando servizio di buona voglia come al Signore e non come a uomini. Voi sapete infatti che ciascuno, sia schiavo che libero, riceverà dal Signore secondo quello che avrà fatto di bene» (Ef 6,5-8).

«Domestici, state soggetti con profondo rispetto ai vostri padroni, non solo a quelli buoni e miti, ma anche a quelli difficili» (1 Pt 2, 18).

Gli apostoli non contemplavano tutti gli aspetti che sono mutati lungo i secoli nei rapporti sociali tra imprenditori e dipendenti, tra capi di vario genere e operai o impiegati. Il mondo è cambiato molto da allora a oggi. Ma l'uomo è sostanzialmente lo stesso... recipiente, che può albergare Spirito Santo oppure atteggiamenti di ribellione, di vendetta, di dominio, di avarizia, di pigrizia ecc...

Il cristiano ha perciò attenzione a rimanere in un profondo rispetto, in atteggiamento di sottomissione e di mitezza anche con i padroni terreni, perché egli sa, da un lato, lasciare le proprie difese a Dio, d'altro lato esprimere le proprie esigenze-necessità-diritti come amore, con serenità.

E ancora il cristiano sa che la vita dell'uomo non consiste nel possedere di più: è la ricchezza infatti che rovina i cuori dei padroni fino a renderli insensibili e incapaci di fraternità.

Proprio S. Pietro aggiunge al versetto citato: «È una grazia, per chi conosce Dio, subire afflizioni, soffrendo ingiustamente» (19).

Quando un cristiano viene battezzato si inserisce in una comunità che ha una sua vita ordinata, la Chiesa. Si potrebbe dire che egli si inserisce in un'obbedienza!

«Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano su di voi, come chi ha da renderne conto; obbedite, perché facciano questo con gioia e non gemendo». Così la lettera agli Ebrei (13,17) esorta i cristiani.

E ai Tessalonicesi S. Paolo scrive: «Vi preghiamo poi, fratelli, di aver riguardo per quelli che faticano tra di voi, che vi sono preposti nel Signore e vi ammoniscono» (1 Ts 5,12). E lo stesso Apostolo, sapendo di avere autorità, non ricusa di dare ordini e di esigere d'essere obbedito dai fedeli: «in realtà, anche se mi vantassi di più a causa della nostra autorità, che il Signore ci ha dato per vostra edificazione e non per vostra rovina, non avrò proprio da vergognarmene» (2 Cor 10, 8). Gli apostoli e, oggi, i loro successori, non possono dimenticare la parola loro rivolta da Gesù stesso: «chi ascolta voi ascolta me» (Lc 10, 16).

Ma nemmeno i fedeli possono dimenticare questa parola, e perciò ogni cristiano che vuol essere tale rimane in obbedienza ai pastori, e in particolare al proprio vescovo.

I vescovi, in genere, si guardano bene dal chiedere obbedienze personali ai fedeli: si limitano a indicazioni e proposte a livello generale. Ma se ci fossero cristiani disponibili a donare la vita nel Regno di Dio, se ci fossero cristiani che vivono profondamente e radicalmente la fede, allora anche i vescovi e i loro collaboratori potrebbero «osare» di chiedere obbedienze particolari e personali. Talora è successo, talora succede. E il Signore ne riceve gloria.

Ci sono cristiani appunto che, scegliendo di donare la vita al Signore, s'impegnano nell'obbedienza a un uomo che Lo rappresenta. Sono quei cristiani che chiedono e ottengono di venire ordinati diaconi o sacerdoti: essi promettono obbedienza al vescovo in maniera solenne e pubblica. Vivranno in diretta dipendenza da lui per tutto ciò che concerne il servizio alla Chiesa.

Altri cristiani che donano la vita a Dio s'impegnano con voto speciale all'obbedienza in una comunità «religiosa», ove sono chiamati fratelli e sorelle o monaci e monache.

Sia questi che i sacerdoti (presbiteri) e i diaconi scelgono liberamente, sia pure in modo diverso, di rinunciare a una propria indipendenza per sottomettersi. Il motivo di questa sottomissione può avere una valenza ascetica, cioè per non dar spazio all'amor proprio, all'egocentrismo e alla vanagloria, ma viene pure vissuto per favorire il formarsi di un'unità reale e concreta nella propria comunità religiosa o nel presbiterio attorno al vescovo. L'unità sarà il luogo di «presenza» e d'azione del Signore. Gesù Cristo stesso infatti, ha dichiarato: «Dove due o più sono uniti nel mio Nome, là sono io in mezzo a loro».

lo ubbidisco al vescovo non solo per una mia crescita spirituale, ma anche perché so che l'unità che ne deriva è «luogo» di presenza e azione del Signore Gesù. Per amore di Gesù quindi sto nell'obbedienza. È sempre Gesù, e guai se fosse diversamente, il termine primo e ultimo di ogni azione, anche dell'obbedienza.

Con intensità più ravvicinata e con espressioni quotidiane, chi fa parte di una comunità religiosa sta unito ai suoi «fratelli» o alle sue «sorelle» tramite l'obbedienza a una regola e a coloro che la regola approvata dalla Chiesa prevede come «superiori». Così ogni comunità religiosa diviene un luogo «dove due o tre sono uniti nel mio Nome», luogo della Presenza del Signore Gesù.

Ci sono coniugi che adottano questa visuale per il loro vivere insieme, e ci sono pure parrocchiani che vivono con tale coscienza l'unità col parroco e tra loro.

Una vera gloria di Dio! Un dono di Dio al mondo: «Là lo sono»!

Ci sono fedeli che non sono chiamati né al sacerdozio né alla vita in comunità religiose, e tuttavia desiderano essere partecipi di questa grande possibilità: offrire un luogo di presenza al Signore Gesù. Essi vivono una particolare forma di unità con una persona che chiamano «padre spirituale».

Alla persona, cui hanno chiesto direzione spirituale per la loro vita, non si limitano a domandare consigli e a ricevere suggerimenti per migliorare la propria vita interiore e la propria vita cristiana. Chiedono a tale persona, che pur continua a guidarli sulle vie del rinnegamento di se stessi e dell'offerta di sé a Dio, di poter confrontare ogni decisione, ogni azione, per fare tutto in unità, e non fare nulla senza unità. Chi si incammina su questa strada, conscio di offrire un « luogo» di presenza al Signore, esperimento la pace e la benedizione: ogni cosa che fa è frutto dell'unità, e porta quindi la benedizione della presenza di Gesù. Nello stesso tempo può sperimentare la croce, perché tale unità costa saper ubbidire in modo totalmente libero e volontario. li padre spirituale non comanda mai nulla, anzi. Sei tu, sono io semmai che voglio ubbidire; sono io che dico: «dimmi il tuo Parere, manifestami il tuo discernimento», mentre nel segreto del cuore mi dispongo ad accoglierlo come espressione della volontà di Dio per me. Mi consacro ad essere strumento di una cellula di unità nella Chiesa, luogo della dimora del Signore nel tempo e nello spazio.

L'unità, conquistata col prezzo dell'umiltà e dell'obbedienza, è segno della vittoria di Gesù sul maligno, divisore per eccellenza, superbo e disobbediente, ribelle! Questi si è impegnato a creare divisioni ovunque nella Chiesa, ad ogni livello.

Costi quel che costi io non voglio assecondarlo. Voglio dare a Dio la gioia di vedere la sua unità divina prendere posto tra gli uomini, voglio dare al Padre la gioia di trovare un piccolo spazio sulla terra per la dimora del suo Figlio!

Voglio dare al mondo la possibilità di vedere un barlume, per quanto fioco, dell'amore eterno che continua il suo movimento nella vita divina tri-unitaria, attraverso le possibilità che mi sono date nei miei rapporti con gli uomini, nelle situazioni dove Dio stesso mi ha chiamato.

L'obbedienza è strumento per l'unità, e l'unità è manifestazione di Dio.

L'amore di Dio diventa ricerca dell'obbedienza, e l'obbedienza non è più amara, quando è vissuta come amore!

 

11. VIGILANZA

Non vorrei dimenticassimo che l'obbedienza vera è espressione di amore, e che solo quando essa è amore è dono di Dio e fa incontrare Dio, che è amore!

Ora l'amore non esaurisce nell'obbedienza il proprio manifestarsi: chi ama è pure attento, si fa disponibile e generoso, pronto a prendere iniziative, si offre in modi vecchi e sempre nuovi. Chi ama è vigilante, chi ama è in costante ascolto di Dio che parla non solo dentro le situazioni e le occasioni e attraverso le persone, ma anche direttamente al cuore.

Chi ama e vuol veramente obbedire a Dio, quindi, non ascolta solo le persone che gli chiedono qualcosa, ma si fa attento a conoscere il suo Dio per poter discernere i suoi desideri e la sua volontà, che talvolta può essere contrastante con le richieste implicite o esplicite degli uomini.

A questo proposito ricordo l'episodio successo ad Antiochia, quando Paolo «si oppose a viso aperto» a Cefa-Pietro: lo sgridò pubblicamente. Col suo comportamento Cefa avrebbe tradito egli stesso, e avrebbe trascinato altri a tradire, il messaggio evangelico. Dovremo concludere che Paolo è stato disubbidiente? Egli ha difeso Cefa e la Chiesa da una grave disobbedienza a Dio. Paolo, attento alla volontà di Dio manifestata in Gesù, riporta anche Pietro a quell'obbedienza fondamentale.

Chi obbedisce con amore quindi non si esime e non si ritiene esonerato dall'usare il proprio discernimento. lo devo stare attento però perché ci sono almeno due tipi di discernimento: quello razionale o intellettuale e quello spirituale. Spesso essi non si contraddicono, ma talora posso davvero correre il rischio di difendere la mia comodità o le mie idee o la mia bella figura o il mio portafoglio: corro il rischio cioé, con un discernimento razionale, di mettere l'intelligenza al servizio dell'amor proprio anziché del Regno di Dio. L'amore deve far uso del discernimento spirituale anche quando è chiamato a esprimersi nell'obbedire. Devo abituarmi a vedere che cosa giova alla Chiesa, al mio spirito, alla fede degli altri cristiani, alla gloria di Dio.

Allora posso scoprire che un comportamento richiestomi da un fratello, da un «superiore,,, dall'autorità, benché non collimi con le mie idee, può essere davvero ugualmente volontà di Dio, perché mantiene o fa crescere l'unità, o fa esercitare la fede o mi salva dall'orgoglio.

Un'altra vigilanza si rende necessaria. Quando amo obbedendo, non faccio notare che sto obbedendo! Verrebbe talora la tentazione, se qualcuno non capisce e non si dà ragione del mio agire, di giustificarmi semplicemente affermando: sono nell'ubbidienza! Come dire: non posso farci nulla, non sono io che ho deciso questa azione! La decisione di obbedire però l'ho presa io! Perciò la tale azione è tutta mia, è amore del mio cuore. Non voglio nascondere il mio amore dietro una giustificazione, che diventi poi accusa o addossamento di responsabilità a colui cui obbedisco. lo ho deciso di amare obbedendo, quindi rispondo io stesso di ciò che faccio. E se non so rispondere con l'intelligenza a chi mi chiede ragione risponderò col cuore! Talora non sarà facile, né spontaneo: tanto più l'amore è amore! e assomiglia a quello con cui Gesù si è presentato alle guardie. Dopo aver detto «non la mia, ma la tua volontà sia fatta» Gesù ha offerto se stesso liberamente e volontariamente: «offro la mia vita, la offro da me stesso»!

Egli non ha detto: sono in obbedienza! Non si vanta di una virtù, né scarica la responsabilità sul Padre, ma si offre totalmente!

Quanta pace entra nel cuore e quanta se ne diffonde quando viviamo così!

Non mi sono soffermato sull'agire di chi deve esercitare «autorità», semplicemente perché egli darà esempio di obbedienza cercando aiuto per il proprio servizio anche dai propri «sudditi», che non cessano di essergli fratelli!

Quando Pietro, rinnovata la propria adesione d'amore a Gesù, ha ricevuto da Lui il compito di essere pastore, nutrendo, guidando, tenendo unite le sue pecore, ha subito osservato l'amico che stava dietro e si è preoccupato della sua sorte; ma così si è attirata una reazione immediata del Signore: Tu segui me!

Cioè, tu sei pastore, vera guida e vero aiuto per le mie pecore non quando ti confronti con esse o le vuoi condizionare o vuoi curiosare nella loro vita, ma quando muovi i tuoi passi decisi dietro a me. Allora tu sarai vero pastore - vero superiore, diremmo noi - di coloro che amo!

 

12. OBBEDIENZA: LA VERA PREGHIERA

Non vorrei tralasciare un significato importante della nostra obbedienza a Dio: essa è il vero sacrificio gradito al Padre, quindi la preghiera più vera, quella che ha un peso enorme sul suo cuore.

Egli ci esaudisce non in base al numero o alla bellezza delle parole che sappiamo inventare per rivolgerci a Lui, bensì in base all'obbedienza che gli doniamo.

Gesù stesso dice: «Non chi dice: Signore, Signore!, ma chi fa la volontà del -Padre mio, entrerà nel regno dei cieli» (Mt 7,21). L'obbedire è segno di vero amore, è amore, è già essere dentro la vita del Figlio di Dio! La concretezza dell'obbedienza che ci porta a offrire la vita è ciò che commuove il cuore del Padre e lo obbliga ad intervenire con la sua potenza!

Il salmo 99(98), 6-8 dice: «Mosè e Aronne tra i suoi sacerdoti, Samuele tra quanti invocano il suo nome. Invocavano il Signore ed Egli rispondeva. Parlava loro da una colonna di nubi. Obbedivano ai suoi comandi e alla legge che aveva loro dato. Signore, Dio nostro, tu li esaudivi, eri per loro un Dio paziente, pur castigando i loro peccati».

Dio ascolta ed esaudisce chi gli è obbediente!

Quando qualcuno mi chiede di pregare per lui, io non mi affretto a descrivere al Padre - che del resto è già informato - le necessità spirituali o materiali di ciascuno! Dico semplicemente a Dio: ecco, ora adopera la mia obbedienza a Te anche per questa persona. Eccomi, Padre, guarda con amore questo fratello o sorella: mi offro ad obbedirti anche per lui.

È da Gesù che imparo questo modo di pregare. Durante la Cena Egli ha pregato il Padre per i suoi dicendo: «per loro io santifico me stesso» (Gv 17, 19), cioè «per loro io mi presento ad obbedirti». Preghiera di Gesù per noi non sono le sue parole, ma la sua offerta a fare la volontà del Padre.

E il Padre lo ama e gli obbedisce!

«Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita» (Gv 10, 17).

Egli la offre nell'obbedienza: «questo comando ho ricevuto dal Padre mio» (10, 18). Dio stesso ubbidisce a chi gli è obbediente! Davanti al sepolcro di Lazzaro Gesù dice: «Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto» (Gv 11, 41s).

Il Padre ascolta e realizza le parole di Gesù, perché Gesù vive in piena obbedienza al Padre.

Dio ubbidisce a chi gli è obbediente!

Spesso qualcuno si interroga o mi interroga: «vale la mia preghiera?». Ora conosci la risposta! La mia preghiera vale, cioè ha valore e peso nel cuore di Dio, se è accompagnata dall'amore obbediente! Gli atti di obbedienza eseguiti come espressione del nostro amore, dell'offerta di noi stessi, rendono «onnipotente» la nostra preghiera.

 

Signore Gesù Cristo, figlio sempre obbediente, ti adoro.

Ti accolgo in me

sapendo che continuerai anche in me

ad obbedire.

Ti accolgo nella mia mente, nella mia volontà, nelle mie decisioni. Ama Tu in me il Padre, come lo sai amare Tu: porta l'obbedienza nelle mie membra, sarò trasformato in amore, amore crocefisso.

Vieni, Signore Gesù.

 

Nulla osta: don Iginio Rogger, cens eccl. - Trento, Natale 1990